Italia

L'incontro tra Giorgia Meloni e Edi Rama in Albania

Italia Albania: Let’s get physical!

La politica è anche fisicità. E’ un’ovvietà per cui gli esempi si sprecano, ma giusto per farne un paio: la preoccupazione dei democratici in America oggi è che Biden non regga il confronto con Trump perché sugli schermi appare più vecchio e più debole del suo avversario. Oppure, per non dare l’idea sbagliata che si tratti solo di una questione di prestanza maschile, si pensi all’acconciatura impeccabile della Thatcher: non c’era dubbio che una con quei capelli avrebbe tenuto i conti pubblici in ordine. Così, sono trascorsi alcuni giorni da quando la Presidente del Consiglio Meloni si è recata in visita amichevole in Albania, invitata dal Premier Edi Rama. Un incontro informale appunto, come fra due amici qualsiasi. Così amici che il Presidente le ha ricordato del conto da pagare dei turisti italiani e lei, la grande Sorella d’Albania, è corsa ai ripari chiamando l’ambasciata italiana affinché saldasse il conto dei furbetti. E, ancora una volta, l’elemento della fisicità in quell’incontro, saltava agli occhi: il gigante e le bambina, per citare una vecchia canzone. Se ne è accorto anche Rama, che ha cercato di mitigare la disparità delle foto, in un’intervista a Telese: “Quando la Meloni parla sa essere un gigante”, aggiungendo poi che al giorno d’oggi destra e sinistra non sono più categorie con le quali si possa interpretare la realtà, motivo per cui è perfettamente plausibile un asse Italia Albania, nonostante Rama sia socialista e la Meloni un’ex missina. Il guadagno derivante dall’incontro è stato sicuramente reciproco: la Meloni ha ottenuto il plauso pubblico di un leader socialista, la qual cosa, nella narrazione rivolta agli italiani, sta a significare che tutto quel ceto medio che si sente a disagio per il post-fascismo della Premier farà meglio a mettersi l’animo in pace. Rama, da parte sua, sa che l’Italia è uno dei primi partner commerciali dell’Albania e, di certo, il primo paese europeo che sarebbe disposto a validare all’Albania il passaporto per entrare nell’Unione Europea. Questo legame trova proprio nell’informalità dell’incontro un motivo ulteriore di sottolineatura. Come a dire: non abbiamo bisogno di fare le cose con troppa ufficialità, in fondo siamo come quei parenti che ogni tanto passano a farsi una visita. Nel frattempo però Germania e Francia si allineano sul fronte migranti e rafforzano i loro rapporti istituzionali, posizionandosi nuovamente come paesi forti alla guida dell’Europa. La Meloni avrebbe forse potuto anticiparli e fare una mossa da maestra, come quando incontrò a Roma Macron. Oggi quella mossa le avrebbe garantito una certa compattezza di forma ma soprattutto l’avrebbe aiutata ad essere vista, da ovest, come una leader affidabile per il futuro. Così, al netto della felicità che provo (da italiana-albanese) nel vedere che le mie due patrie vanno d’amore e d’accordo, ho come il dubbio (da albanese-italiana) che non basterà, quando andremo a parlare in Europa delle questioni scottanti che sono sotto gli occhi di tutti, minacciare la troika con lo spauracchio del cugino di due metri, che, come dicevamo da bambini, “con un pugno ti manda in cielo”.

Grazie a tutti gli italiani di buona volontà

Io non so come andranno queste elezioni, ma voglio, sin da subito, cogliere l’occasione per ringraziare un po’ di persone. Si dice che nessuno si salva da solo e mai come oggi per me questo è vero. Di questi tempi non si fa che parlare di come è cambiata l’Italia. Non si fa che parlare di questo Paese, che, almeno stando ai giornali, è diventato intollerante e incapace di reagire ai problemi che ogni giorno lo affliggono. Eppure, quando nel 1997, arrivai in Italia, avevo dieci anni e i problemi erano già tutti lì. A quei tempi, ad essere visti con sospetto, non erano gli africani, ma gli albanesi. Ricordo perfettamente la paura che avevo di prendere il telecomando e aprire quella finestra sul mondo: nel discorso pubblico, noi albanesi eravamo i cattivi, gente senza scrupoli che vendeva figli e sorelle. Ladri e prostitute. Mi ricordo ancora quando un professoressa, al Liceo Classico, mi disse che noi albanesi eravamo un popolo selvaggio, del tutto irrecuperabile. Ma per quanto difficili fossero quegli anni, per me che ero una bambina, nei miei ricordi ho lasciato spazio solo alle persone di buona volontà. Ricordo ad esempio quando, durante l’ora di religione, lasciavo la classe per prendere lezioni di italiano da Don Cleto, il parroco di un paesino in provincia di Pescara. Don Cleto era un uomo perbene e capiva il mio disagio: aveva sempre un sorriso da regalare e delle buone speranze che mi riempivano il cuore. Mi donava i libri che aveva nella parrocchia: “prendili tu, hanno bisogno di essere letti”. E poi la bidella, una signora bionda, minuta,  che ogni mattina mi regalava la merenda. E una ragazza di Villanova che si era laureata in Lingue e Letteratura inglese: mi regalò un’enciclopedia. Poi, con mia madre, ci trasferimmo a Cepagatti (che si chiama così perché fu terra di mercanti e, quindi, dal latino captus pagus, passando per il volgare Ce pagate). La prima cosa che feci lì, a Cepagatti, fu visitare la Chiesa di San Rocco e Santa Lucia, dove conobbi Don Agostino. Un parroco taciturno, un uomo di pochissime parole e di tantissime buone azioni. Si spese per la mia famiglia con ogni mezzo. A casa nostra, così, non mancava mai niente, perché il parroco e le suore si ricordavano sempre di noi. E poi la signora Lara, una imprenditrice che aveva una fabbrica che produceva camicie, dove mia madre trovò lavoro e amicizia. E infine le signore Jolanda, Lea, Franca e suo marito Francesco che avevano una gioielleria. E l’assistente sociale Francesca. Queste persone furono per noi come un salvagente. Ci tennero a galla. Poi sono cresciuta, e tra mille avversità ho conseguito la maturità classica. Mi sono trasferita a Roma per continuare gli studi e anche qui ho avuto la fortuna di vivere e crescere grazie alle cure delle suore dell’istituto Mater Mundi che si trovava sul Casaletto. Ecco, io oggi voglio ringraziare tutte queste persone. Questi uomini e queste donne semplici e vitali. Loro non lo sanno, e forse nemmeno si ricordano di me e della mia famiglia, ma io voglio ringraziarli per non avermi lasciata in mezzo a una strada. Voglio ringraziarli per l’amore e per la cura. E voglio dire a loro che se oggi sono candidata a queste elezioni è perché anch’io volevo dare il mio contributo al Paese che mi ha accolto. E testimoniare, con la mia presenza, tutto il loro amore disinteressato e la bellezza del loro cuore.

Il reddito alle casalinghe? Forza Italia fotografa l’Italia degli anni 50

La promessa elettorale del candidato Massimo Mallegni non è solo sessista, ma anche pericolosa. La proposta del candidato di Forza Italia in Toscana Massimo Mallegni, in corsa per il Senato, che promette il reddito alle casalinghe non solo è sessista, ma anche pericolosa. Il ruolo di madre e di moglie non può essere considerato un lavoro per il semplice motivo che si tratta di una scelta di vita personale. Una volta equiparata a un lavoro, come ogni lavoro, prevede un datore, qualcuno cioè a cui rendere conto di cosa si fa o non si fa. Nel mondo immaginato da questi finti liberali, sarà dunque il marito a stabilire se la donna avrà svolto bene o male il lavoro per cui è pagata dallo Stato. Il progetto, tipico di una destra illiberale e reazionaria, è quello dell’asservimento delle donne, quello di relegarle in un ruolo di “sorvegliate speciali”, tenute a spazzare, lavare, cucinare e soddisfare il maschio con la benedizione di uno Stato sempre meno laico. So che a tanti magari piacerebbe anche, ma è fuori dalla storia, e le donne non si piegheranno mai a questo disegno di svendita della dignità in cambio di quattro spiccioli. Le democrazie avanzate insistono semmai sui congedi parentali per padri e madri, sul garantire a tutti possibilità di accesso alle scuole materne per i figli, sulla flessibilità del tempo dedicato al lavoro. In definitiva, quella di Mallegni è una proposta che fotografa perfettamente l’Italia degli anni Cinquanta. Peccato che siamo nel 2023.  

Il mondo del lavoro e i giovani

di Zeralda Daja La domanda, del tutto retorica, che mi pongo in questo articolo è: ma esiste ancora il famoso “posto fisso” dopo l’università o è solo un mito perpetuato dalle vecchie generazioni? Per i giovani di oggi non è semplice trovare lavoro: cv spediti ovunque, corsi di formazioni gratuiti ma che non vengono valorizzati in un colloquio, master costosi, magistrali impegnative e di lunga durata. Ai miei tempi, nella buona società, non si incontrava mai nessuno che lavorasse per vivere. Era considerato sconveniente. Oscar Wilde La società di oggi non ci aiuta. Mi ritrovo, nella vita di tutti i giorni, ad affrontare contesti in cui vita professionale, vita privata e vita universitaria non riescono a conciliarsi, anche se l’impegno dello studente-lavoratore c’è totale e costante. Perché, per entrare nel mondo del lavoro, oggi  una laurea non basta più. Il ritornello ottimistico ripetuto dai genitori (“Studia, finisci l’università che poi riuscirai a trovare il tuo mestiere”) si scontra con la dura realtà del mondo del lavoro per come l’ho conosciuto. Ho 24 anni, una laurea triennale in scienze umanistiche, una laurea magistrale in Pedagogia. Ho fatto lavoretti di ogni tipo: babysitter, cameriera, ripetizioni, addetta alle pulizie. Sono mamma di una bambina di 2 anni e mezzo e, quando invio un cv, la prima domanda che mi viene fatta è: “perché non ha esperienze lavorative fisse?”. Oppure: “Perché si è laureata con un anno di ritardo?”. Leggiamo annunci di lavoro dove vengono richieste figure Junior con un minimo di esperienza, oppure laureati con 2 anni di esperienze lavorative in azienda, e tutto questo senza contare il lato umano, personale, familiare di una persona. Nel frattempo, la società ci impone aspettative contraddittorie che non possiamo essere in grado di soddisfare: maternità non troppo prolungate, ma neanche troppo anticipate, sennò il mondo del lavoro non ci aspetta. Garanzie per l’acquisto di case agli under 35,  ma retribuzioni che non ci permettono di affrontare un mutuo. Per non parlare anche dei contratti di lavoro: contratti a chiamata sottopagati, contratti di apprendistato con 300-400 euro di retribuzione, contratti di tirocinio o stage dove lavori 8h come dipendente ma ti vengono retribuiti soltanto il rimborso delle spese di mensa e benzina. Le università ci impongono di svolgere tirocini gratuiti correlati alle tesi di laurea, senza contare che dietro quelle aule universitarie ci sono ragazzi che lavorano, che hanno creato famiglie, che magari hanno problemi di salute, o economici,  e che, in sostanza, non si possono permettere di lavorare “gratis”. L’università sono fondate sul presupposto che nelle loro sedi ci siano ragazzi che nella vita fanno solo gli studenti. La società invece pretende che a 25 anni dobbiamo già avere una carriera in ascesa e pensare a costruirci una famiglia. La verità è che ci troviamo di fronte a un paradosso sociale in cui di mezzo ci sono le nostre vite.

L’Albania che verrà

L’augurio è che chi si troverà a guidare il paese dopo le elezioni abbia la forza di guardare un passo più in là dell’urgenza del momento. A pochi giorni dalle elezioni in Albania, voglio tornare sulle questioni balcaniche, perché ancora una volta mi pare quello lo scacchiere geopolitico sul quale l’Europa potrà giocare una partita decisiva. Dipenderà infatti dalla capacità di inclusione dell’Europa rispetto a quest’area, europea a tutti gli effetti, il futuro stesso dell’Unione e la sua capacità di fungere da hub fra oriente e occidente, e fra nord e sud del mondo. Intanto, colpisce la vittoria alle elezioni in Kosovo di Vjosa Osmani, che succede Hashim Thaçi, dimessosi dopo le accuse del Tribunale dell’Aia per crimini di guerra e crimini contro l’umanità, perché per la seconda volta, dopo Antifefe Jahjaga, in quest’area balcanica, considerata da sempre paese satellite dell’Albania, a vincere è una donna. Un esito dal forte valore simbolico: da una parte il riscatto rispetto a quel terribile e ancora troppo recente passato di stupri etnici che ha devastato la vita di migliaia di donne kosovare, dall’altra il riconoscimento che sono proprio le donne (e i giovani) la risorsa più importante per il futuro del paese. Questo chiaro segno di svolta non potrà non pesare, in qualche modo, anche sull’agenda del governo che uscirà dalle urne albanesi la prossima settimana. Perché continuo a pensare a quella storia che racconta Ismail Kadaré, della cittadina assediata dall’esercito turco, che resiste grazie a un crudele espediente: un cavallo lasciato senz’acqua per lunghi giorni e infine liberato svela ai cittadini una fonte nascosta d’acqua che consentirà loro di sopravvivere. Se penso a questa storia come a una metafora della condizione albanese, vedo i quarant’anni di regime hoxhaista come il giogo che ha reso il popolo albanese assetato quanto il cavallo di Kadaré: dopo lunghi anni di transizione si tratta dunque, ancora adesso, di scovare le fonti d’acqua nascoste nel paese. Con un’età media minore di cinque anni rispetto alla media europea, l’Albania che uscirà dalle urne fra due settimane dovrà fare i conti col fatto che sono proprio i giovani e le donne questa risorsa nascosta da cui potrà scaturire lo sviluppo economico dei prossimi anni: riconoscere la loro centralità, da molti punti di vista, significa peraltro riconoscere la necessità di quel cambio di paradigma, nell’esercizio dei poteri, che coincide esattamente con le priorità poste dell’EU per portare a termine l’acquis. Il governo che uscirà dalle urne ha, di fatto, questo obiettivo a portata di mano, ma potrà raggiungerlo soltanto se saprà dimostrare, sin da subito, di essersi sbarazzato degli ultimi cascami di quella sfiducia verso le libertà, eredità di ogni regime, che altro non è se non una residua sfiducia nel popolo e quindi nel paese stesso. Questa volta, dunque, la sfida fra Rama e Basha è davvero decisiva non solo perché avviene a ridosso di una elezione storica come quella in Kosovo, ma soprattutto perché, chi vincerà, dovrà rispondere a una precisa chiamata di portata epocale. Se infatti la pandemia rappresenta in qualche modo l’anno zero di una nuova èra, a chi si aggiudicherà il governo del Paese spetterà l’opportunità di scegliere da che parte della storia si debba guardare. Restando ancora nell’ambito descritto dalla metafora di Kadaré, il reperimento delle nuove risorse avverrà tanto prima quanto più il paese sarà lasciato libero di esprimere le sue potenzialità, proprio a partire dai giovani, che sono la fascia di popolazione più pronta e attrezzata culturalmente per cogliere le occasioni che si presenteranno nella spinta reattiva post-pandemica. Che questa sia la fonte nascosta del paese infatti non è una petizione di principio o un semplice esercizio di wishful thinking, ma una realtà suffragata da dati eloquenti legati al fenomeno migratorio: in Italia la comunità albanese è la terza per numero, dopo quella rumena e quella marocchina, ma la prima per numero di iscrizioni all’università. Di più: guardando i grafici risulta che oltre il 48% degli iscritti è donna. Secondo il rapporto del 2018 sull’integrazione dei migranti del governo italiano, infine, leggiamo che le donne albanesi nelle università italiane hanno conseguito, rispetto agli altri iscritti non italiani, i migliori risultati. Se dunque vogliamo trovare una morale alla storia di Kadaré, da questi dati risulta chiaro chi abbia più sete di conoscenza, di sviluppo e innovazione, e chi rappresenti quindi l’asset più importante su cui fondare la nuova Albania dell’era post-pandemica alle porte. A partire da questo, per esempio, si potrebbe cominciare col rafforzare i corridoi inter-universitari Albania-Italia già in essere, e far nascere dei veri e propri gemellaggi con le università italiane su settori strategici della ricerca e dell’innovazione: è senz’altro interesse dell’Italia velocizzare il processo di adesione dell’Albania all’Europa, ma lo sarà ancora di più se all’Italia verranno offerte occasioni di investire risorse in un paese che, anche solo per la sua collocazione geografica, è destinato ad avere un ruolo chiave sul fronte geopolitico dei prossimi anni.  Il compito che sta davanti al governo che uscirà dalle urne è, in definitiva, quello di ribaltare la prospettiva da cui si è guardato all’Europa, nel momento stesso in cui si faranno passi decisivi verso l’acquis: l’Albania non potrà più limitarsi ad essere destinataria di progetti che la coinvolgono passivamente o di aiuti umanitari volti a stabilizzarne il fronte interno nell’ottica della pax balcanica. I giovani e le donne dovranno essere messi in condizione di presentarsi come soggetti attivi che possano entrare davvero in relazione con l’Europa espansiva del recovery fund. Perché quella che viene sarà un’Europa che avrà tutto l’interesse a rafforzare i propri confini verso Oriente. Dopo la Brexit, del resto, per non cadere nell’ininfluenza geopolitica, un’Unione Europea amputata non avrà altra scelta se non quella di rafforzare la sua presenza continentale: il tempo e l’occasione sono dunque arrivati. L’augurio è che chi si troverà a guidare il paese dopo le elezioni abbia la forza di guardare un passo più in là dell’urgenza del momento, perché il futuro si costruisce già da ieri.

Carola Rackete all’UE: abbandonare i migranti in mare è vergognoso!

Oggi 29 giugno 2020, Carola Rackete, la capitana che lavora per la ONG Sea Watch, ha espresso il suo disappunto in merito alle scelte che i governi europei stanno attuando sui migranti in mare definendole “vergognose”. Diversi stati europei, tra cui Spagna, Malta, Italia, Paesi Bassi e Germania, continuano a ostacolare il salvataggio e il monitoraggio delle missioni in mare e in volo” Carola Rackete Oggi, esattamente un anno fa, la capitana della Sea Watch 3, Carola Rackete, condusse la sua nave nel porto italiano di Lampedusa facendo scendere 40 migranti. Questa scelta fece discutere moltissimo considerando gli ordini dell’allora Ministro leghista Matteo Salvini. Salvini non è più in carica al governo e in generale, in Europa, sembra che nulla è cambiato dall’anno scorso considerando l’incidente avvenuto a Pasqua dove 51 migranti e 5 morti sono stati rimpatriati dal governo maltese in Libia. L’Europa ha abbandonato completamente i migranti in balia delle onde nel Mar Mediterraneo affinché affoghino per spaventare quei paria della terra che decidono di partire verso le coste europee fuggendo dai campi di concentramento libici. Un po’ come fece il governo italiano durante il 1996 con gli albanesi, i quali, molti di loro, persero la vita nel Mar Adriatico: famosa la notte buia quando la Kater i Rades venne speronata dalla nave italiana e dove persero la vita 103 albanesi che giacciono ancora nel Canale di Otranto. Una tragedia mai indagata davvero e per la quale i familiari, dopo più di 20 anni, cercano ancora giustizia. La Rackete ha definito l’agenzia di frontiera dell’UE Frontex come la garante della politica razzista degli Stati europei. Se #BlackLivesMatter negli Stati Uniti chiede di sconfiggere i dipartimenti di polizia, di conseguenza dobbiamo chiedere a #DefundFrontex in Europa. Carola Rackete Affermazione che Frontex ha definito come “assurdità da gruppi marginali” e che “l’agenzia protegge i confini di centinaia di milioni di persone in tutta Europa”.

Migranti: la violenza di frontiera dei governi UE.

Dunja Mijatovic, il Commissario europeo per i diritti umani, il 19 giugno 2020, alla vigilia della giornata mondiale del rifugiato, ha invitato gli Stati europei a rispettare gli impegni presi in merito agli aiuti ai rifugiati. In un tweet ha espresso il suo disappunto rispetto alle scelte attuate negli ultimi mesi dicendo che “I respingimenti e la violenza alle frontiere violano i diritti dei rifugiati e dei migranti, nonché cittadini degli stati europei. Quando la polizia o altre forze dell’ordine possono agire impunemente in modo illegale e violento, la loro responsabilità viene erosa e la protezione dei cittadini viene messa a repentaglio. L’impunità per gli atti illeciti da parte della polizia è una negazione del principio di uguaglianza nella legge e nella dignità di tutti i cittadini e mina profondamente la fiducia dei cittadini nelle istituzioni statali“. Il Commissario europeo per i diritti umani incolpa i Paesi UE per aver aggirato le leggi affermando inoltre che alcuni politici sono promotori dell’idea che i diritti dei migranti possono essere messi in secondo piano al fine di proteggere i confini considerando lo status quo che stiamo vivendo a causa del Covid-19. I migranti sono lasciati a rischio delle loro vite in mare, sono tornati in paesi pericolosi, sottoposti a maltrattamenti o detenzioni arbitrarie, tenuti separati dalle loro famiglie o collocati in campi sovraffollati in condizioni spaventose. Dunja Mijatovic, Commissario europeo per i diritti umani. La Convenzione europea sui diritti umani esiste da quasi 70 anni e, secondo il Commissario europeo, mai come oggi i diritti dei rifugiati sono stati violati con cotanta sistematicità. D’altronde, come afferma anche Dunja Mijatovic, avviene sempre più di frequente che gli Stati europei oltrepassino le leggi europee sui diritti umani, e questo atteggiamento sta diventando sempre di più una prassi comune. I Paesi dell’area UE si concentrano sulla ricerca di “nuovi modi per impedire che tali obblighi diventino applicabili in primo luogo“, invece di essere garanti che loro politiche in materia di asilo e migrazione siano conformi alla legge e quindi ai sensi della Convenzione sui diritti umani. Inoltre, il Commissario europeo, ha avuto da ridire anche sull’Italia facendo riferimento al caso Hirsi Jamaa, quando il Bel Paese costrinse i migranti a rientrare in Libia, scelta che le valse una sanzione dalla Corte EDU nel 2012 . Il caso Hirsi Jamaa mise in allarme tutti gli altri Paesi UE, i quali negli anni hanno escogitato nuova modalità per sollevarsi da qualsiasi responsabilità rispetto a coloro che si trovano nel mare. Mentre questo mette gli Stati membri del Consiglio d’Europa a debita distanza dagli eventi, non fa nulla per impedire ai migranti di essere esposti a torture o trattamenti disumani o degradanti. afferma il Commissario UE per i diritti umani Mijatovic. I Paesi UE hanno creato molta confusione e sono responsabili di una cattiva gestione rispetto alle risorse e investimenti che vengono promossi in materia di asilo ai rifugiati. Inoltre, alcune sentenze giudiziarie, sono state manipolate dai Paesi UE stessi al fine di giustificare le pratiche di respingimento. Il fatto che tutta l’area europea sia contagiata e manipolata da una propaganda politica che alimenta l’odio verso i migranti attraverso una forte infodemia atta a deviare l’opinione pubblica verso una forte intolleranza che erge la protezione dei confini al di sopra dei diritti umani stessi. I governi europei dovrebbero pienamente comprendere che non sono nella posizione di decidere se rispettare una legge o meno, piuttosto prendere atto che la Convenzione sui diritti umani va rispettata ai sensi della legge la quale non può essere violata o raggirata. Inoltre, il Commissario europeo per i diritti umani, si augura che il mandato della Germania come Presidente del Consiglio europeo possa rafforzare la protezione dei diritti umani e le politiche in materia di asilo in Europa.

#CoronavirusStories: ritorno al futuro.

di Zeralda Daja Mi chiamo Zeralda Daja, ho 23 anni, sono nata in Italia ma i miei genitori sono albanesi. Sono una laureanda in Scienze Umanistiche all’Università di Urbino, e sono madre di una splendida bambina. Tutto ciò che so dell’Albania lo devo ai miei genitori che ogni volta mi raccontano gli anni vissuti li, prima che emigrassero per l’Italia. Mia madre e mio padre spesso mi narrano quei giorni in cui il caos imperversava nella vita di tutti i cittadini albanesi, nella loro piccola comunità. Mi raccontano che avevano paura di vivere quelle giornate che sembravano fossero interminabili. Lunghe attese per sapere cosa stesse succedendo, cosa avrebbero fatto, dove sarebbero andati. Mi dicono che nessuno aveva risposte. Poi ci sono state le emigrazioni di massa, ma ormai quei fatti sono storicizzati. Non trascurare le piccole buone azioni, pensando che non sono di alcun beneficio; anche le piccole gocce di acqua alla fine riempiranno una grande nave. Non trascurare le azioni negative solo perché sono piccole; per quanto piccola possa essere una scintilla, può bruciare un pagliaio grande come una montagna. Buddha Un mese fa pensavo alla mia tesi di laurea, avevo appena incontrato la mia relatrice per concordare alcune pratiche, andavo tranquillamente dai miei genitori per pranzare le domeniche, come da rito famigliare. Passeggiavo con mia figlia per tutto il paesino assaporando i primi giorni di primavera tra le margherite e i fiori di ciliegio appena nati. Organizzavo le mie giornate tra impegni e commissioni, ma poi ad un tratto tutto è cambiato. State a casa, limitate i contatti, uscite solo per necessità. Messaggio che vari enti nazionali riportano sulle tv. Non comprendevo la dimensione delle cose, d’altronde nessuno in quelle ore aveva chiaro ciò che stava accadendo e i danni che questa crisi avrebbe e sta tuttora comportando. Trovai rifugio nelle mie parole accettando una situazione che è paradossale, quasi inaccettabile. In fondo, la vita a volte fa brutti scherzi, quando ti prepari a viverla, ti scombussola i piani. Una vecchia storia per me, un po’ come quella che i miei genitori vissero in Albania, tanti anni fa. I nostri nonni, i miei genitori, i libri di storia narrano delle guerre, ma io non ricordo nessuna guerra nella mia giovane vita. Allora mi chiedo, sono queste le nuove guerre? La guerra ha i suoi protagonisti ed antagonisti, ma in questo scenario di morte e di sospensione dei diritti civili, mi chiedo chi sia il nemico. L’uomo, la natura, un virus o la grande paura. Da qualche parte ho letto che il pianeta si sta vendicando: come a dire basta ai soprusi, alle deforestazioni, all’inquinamento in atto. E come se ad un certo punto tutto il sistema di valori occidentali fosse messo in discussione, e quindi crollato. Eppure tutti lo dicono, tutti lo pensano: dobbiamo utilizzare questo tempo in quarantena per riflettere sulle nostre vite, sulle nostre relazioni, sulle nostre abitudini. Quando ci illudevamo che i rapporti virtuali fossero più importanti di quelli reali, sulle vite di tutti irrompe un protagonista: un virus che ci costringe a vivere ammassati nei rispettivi metri quadri, e solo ora comprendiamo il valore della comunione con il prossimo. Ora realizziamo il valore di uno sguardo o quello di un abbraccio. Quando il razzismo e le ideologie estremiste iniziavano a prevalere nei rapporti umani e l’egocentrismo di una nazione non accettava rivali, il virus ci dimostra che di fronte alla vita e alla morte siamo tutti uguali, e molto lentamente si iniziano a vedere i segni di solidarietà fra popoli. O forse le prime alleanze di un futuro scenario geopolitico. Un gesto di solidarietà lo abbiamo visto alcuni giorni fa quando il premier albanese Edi Rama ha inviato in Italia 30 medici per aiutare l’ospedale di Brescia e Bergamo, le due città più colpite dall’emergenza Coronavirus. È vero che tutti sono rinchiusi dentro le loro frontiere e anche Paesi ricchissimi hanno girato la schiena agli altri ma forse esattamente perché noi non siamo ricchi e neanche privi di memoria, non ci possiamo permettere di non dimostrare all’Italia che gli albanesi e l’Albania non abbandonano mai l’amico in difficoltà. Oggi noi siamo tutti italiani e l’Italia deve vincere questa guerra. Edi Rama, Primo Ministro albanese Per quanto possa costringermi a trovare il perché di questa situazione, per quanto possa fare riflessioni in merito alle tematiche che stiamo affrontando come nazione, come Europa, non ho risposte. Ciò che posso dire è per quanto la normalità, la quotidianità, e persino la vita mediocre di tanti di noi fossero noiosi da digerire, oggi è quello di cui ho più bisogno. Le relazioni sono anche un atto fisico, in luoghi fisici, e senza di essi siamo birilli che stanno in piedi con la giusta distanza per essere abbattuti da qualsiasi essere che impugna una palla per tirarcela addosso, per poi fare strike facendoci cadere. Quando venivano messe in dubbio persino le guerre e gli eventi passati, considerandoli come troppo esagerati o addirittura inventati, ecco che ti ritrovi in guerra. Questa volta non con armi, trincee, nucleari ma contro un virus, un essere sconosciuto invisibile che ti minaccia e ti rende insicuro, dubitando di te stesso e di chi ti sta intorno. Perché la guerra rende insicuri, un’insicurezza di cui non te ne accorgi finché non ne sei dentro. Quando le nazioni innalzavano muri, chiudevano le frontiere, arriva un virus che ci costringe a velocizzare quel processo ma per la ragione opposta: difendere il prossimo. Quei confini con quei Paesi che ancora crediamo alleati. La sensazione che provo è quella di impotenza, colpa, minaccia, paura e di perdita. Questa parte della storia ci informa che siamo tutti sulla stessa barca, che chiunque può essere colpito, sia il povero che il ricco. Questa crisi ci accomuna, questa battaglia potremmo vincerla insieme soltanto se ognuno di noi si responsabilizza e si prende cura del prossimo. Forse quello che avevamo perso di vista è proprio il concetto del prendersi cura, perché la diffidenza che una certa propaganda politica ci aveva incitato ad avere ci ha condotti a non percepire più l’altro, dove l’altro siamo tutti noi.

L’Albania ha bisogno di albanesi e di Europa!

Il fatto che il Primo Ministro Edi Rama scelga il salotto di Porta a Porta di Bruno Vespa per discutere dei disordini avvenuti nelle ultime settimane in Parlamento a Tirana potrebbe far pensare che la situazione sia più grave di come possa sembrare. Eppure, trovo che sia normale che questi dissidi trovino luogo in un Paese che ha una democrazia così giovane. Trovo fisiologico che ci si scontri, piuttosto che l’opposizione faccia la sua battaglia anche fomentando e portando il suo elettorato in piazza. L’Albania sta facendo un grande percorso di ricostruzione, iniziato 28 anni fa, e da imprenditrice che ha aperto un’azienda nel Paese, una società che si occupa di informatica, penso che il Paese delle aquile sia interessante e che offra dei vantaggi fiscali considerevoli. Il viaggio verso l’Unione Europea è ancora lontano visto che dobbiamo ancora adempiere i requisiti per l’ingresso in UE, ma non è più un sogno impossibile. Da giornalista invece trovo necessario l’intervento del Primo Ministro nella Tv italiana, visto i rapporti economici fra i due Paesi, come trovo curioso il fatto che il capo dell’opposizione Lulzim Basha, il pupillo di Sali Berisha, faccia delle accuse così pesanti invece di presentare e informare l’UE in merito ai presunti brogli elettorali piuttosto dello stato attuale sul cartello dei narcotrafficanti. Winston Churchill diceva che “I Balcani producono più storia rispetto a quanto ne riescano a digerire” e questa affermazione trova la sua veridicità in quanto la naturale degenerazione della politica albanese in questi giorni, che ha visto l’opposizione abbandonare e minacciare il Parlamento è una situazione complessa da spiegare, quanto difficile da dimostrare in quanto mancano documenti che attestino i fatti concreti. Il problema principale degli albanesi è la tanto agognata adesione all’Unione Europea per vedersi facilitare l’emigrazione verso Stati europei più promettenti rispetto alle possibilità di vita che ci sono attualmente in Albania. Se è vero che da una parte il lavoro svolto negli ultimi trent’anni è stato ingente, dall’altra parte l’Albania non è stata capace ancora di sradicarsi completamente dal cordone ombelicale con il passato. Il problema è culturale, perché in quel silenzio assordante che ha caratterizzato il mezzo secolo del regime hoxhaista sono stati un po’ tutti complici, senza stare troppo a sottilizzare sulle impossibilità dovute alle pressioni che facevano quelli della Sigurimi. Penso che oggi più che mai sia necessario aprire un tavolo di discussioni e riflettere sullo status quo delle cose perché è così che avviene in democrazia. Sento spesso dire dai miei connazionali che in Albania vige una dittatura, e allora io mi chiedo cosa è la vera dittatura? Ci siamo già dimenticati gli anni di Enver Hoxha? Qualora aveste ragione, come mai, mi chiedo, sia possibile che la vostra voce arrivi fuori, come è possibile che riusciate ad opporvi senza essere deportati nelle carceri dello Stato come avveniva sotto il regime di Hoxha. Non è che i disordini in Albania siano voluti e che ci siano forze oscure dietro che hanno come obiettivo la destabilizzazione dell’area balcanica al fine di indebolire il progetto e l’area europea? Non sarebbe l’ora di planare questi disordini e controversie per rimettersi in carreggiata e magari vedere negli altri Stati dell’area balcanica una opportunità per creare una Unione economica forte piuttosto che continuare ad alimentare e perpetuare politiche di stampo sovraniste? Non vorrei che, come accadde con le piramidi finanziarie, ci illudessimo che gli aiuti possano venire da fuori, perché l’Albania ha bisogno degli albanesi, perché l’essere europei non è un luogo, ma uno stato dell’essere. Ed è da lì che dovremmo cominciare noi.

Donne in fuga dalla guerra in Siria.

Un fuggire transitivo

Mi capita spesso, ultimamente, di sentire un forte senso di apatia, di sentirmi inerme dinanzi al frastuono delle notizie quotidiane, alle urla, alla banalità, al turpiloquio, alla mise en scene bieca e oscena a cui ci hanno abituato i talk show, tutti i talk show. Eppure li guardo sugli schermi di tutti i telegiornali, quelle immagini e storie che ti stuprano l’anima, quegli occhi di quegli uomini e donne che aspettano su tutte le Diciotti, o nei campi profughi. Le speranze nutrite, le attese nei luoghi comuni. L’ansia perché in questa storia ti è capitato di raffigurare l’individuo diverso, l’altro, che in fondo gli altri siamo tutti noi. L’uomo senza Stato, l’uomo abbandonato, l’uomo senza Storia, l’uomo vinto. L’essere transitorio, in questo tempo che si piega attraverso i permessi negati, e l’umanità inasprita dentro le poesie mai lette che si trovano nelle tasche di coloro che non conosceranno mai il risveglio in quel tempo di quel luogo sognato. Conosco quegli occhi, sono anche i miei, mentre mi cerco ancora tra un libro e un articolo, un decreto legge, forse. Non sono mai riuscita ad abituarmi alla mia nuova condizione di cives libero, è come se una parte di me fosse rimasta ancora lì, sul porto di Bari, che vent’anni fa mi dava rifugio. Fuggire è una condizione dell’uomo da tempi immemorabili, fuggiamo tutti in qualche maniera. Da una terra che non ci dà opportunità per crescere, da una situazione familiare, da una relazione che ci sta stretta, o semplicemente da una vita che ci imprigiona. Ecco, che fuggire assume un significato più ampio, un diritto legittimo di cui non potremmo privarci. Sono nata nella città di Durazzo, e cresciuta tra le colline e montagne albanesi che si affacciano sul Mar Adriatico. L’Albania è piena di laghi e fiumi, di cui da piccola, ne seguivo il corso che puntualmente approdava sulla spiaggia di Lalzi, a pochi chilometri da Durazzo. Sono rimasta sempre molto colpita dall’immagine dei fiumi che vedevo concludersi sul Mare Nostrum; trascorrevo ore e ore per cercare di capire dove finisse tutta quell’acqua dolce. I fiumi sono tutti diversi, ci sono quelli impetuosi, quelli risoluti, quelli lenti, quelli fangosi, quelli informi, quelli rassegnati, e quelli a delta che appaiono solenni. E questi fiumi si mischiano all’acqua salata, altri la sporcano, altri deviano, altri ancora irrompono, distruggono, e infine, al tramonto della stagione invernale, mi è capitato di osservare un fiume che sembrava danzasse con il mare. E anche il Mare non riceve allo stesso modo, come la costa non consente a tutti i fiumi di abbandonarsi nella stessa maniera. La vita di una natura che combatte anche con se stessa, il racconto geologico di un viaggio che non conosce la fine. L’incontro di rivoli d’acqua, di pietre sparse, di sabbia muta, di perle preziose. Le nostre, quelle di tutti noi. Fuggire è un verbo transitivo, significa andare verso, perché ogni sistema vivente, che porta in se la complessità, saprà resistere al cambiamento del suo equilibrio.