Governare l’odio

Come ebrea post-moderna non posso che appoggiarmi a due pilastri sicuri: la Torah e Freud.

Qualche giorno fa, in un’occasione di campagna elettorale, mi era stato chiesto di parlare dell’odio. Avrei voluto declinare l’invito, che pure mi onorava, e dirmi impreparata sulla materia. Invece, per quanto mi sentissi piuttosto lontana da un certa dilagante suscettibilità per la quale il valore umano sarebbe sempre commisurato ai torti che abbiamo, o che crediamo di avere subito, ho dovuto confessare a me stessa di essere piuttosto versata nella materia. 

Intanto perché, in quanto ebrea, appartengo al popolo sicuramente più odiato della storia, dai tempi dei faraoni fino a quelli dell’imbianchino viennese e oltre. E poi perché, come immigrata albanese a Cepagatti, provincia di Pescara, posso raccontare tutta una serie di aneddoti dei quali oggi sorrido ma sui cui ricordo di aver versato più di qualche lacrimuccia da bambina.

Ma, dunque, che cos’è l’odio? Soprattutto, quand’è che cominciamo a odiare? Ora, se fra i lettori ci fossero anime candide che ritengono l’odio un sentimento tardivo, una indispettita reazione alla mancanza d’amore o di cura che ci affligge solo dopo aver subito un torto, ebbene, io credo che si sbaglino. L’odio nasce un po’ prima di scoprire che Babbo Natale non esiste.

Come ebrea post-moderna, diciamo così, non posso che appoggiarmi a due pilastri sicuri: la Torah e Freud. 

Per Freud l’odio ha a che fare con la scoperta stessa dell’oggetto, con la prima grande ferita narcisistica costituita dalla scoperta che non è tutto Io, ma che c’è qualcosa là fuori: il mondo, insomma, quel complesso intreccio di stimoli e frustrazioni che il bambino comincia a scoprire sin da subito. L’odio sarebbe quindi secondo Freud il modo stesso della nostra prima capacità di conoscere, di fare esperienza.

Del resto, se ripesco fra i ricordi sempre più sbiaditi del mio passato di studentessa di filosofia, trovo che nella relazione fichtiana fra Io e Non-Io entra sempre in gioco quello che il filosofo tedesco chiama Anstoss: un’irritazione, uno stimolo urticante che dà il via. Il calcio di inizio, insomma, visto che Anstoss vuole dire anche questo.

Certo, che il mondo, in principio, si conosca nell’odio, non è una prospettiva rassicurante. Perché se così è, l’odio ci appare allora come un sentimento primigenio, connaturato all’uomo. Semplicemente inestirpabile. La questione dunque è come possiamo farci i conti, come possiamo conviverci. Soprattutto, come questa prima modalità del conoscere e del rapportarsi al mondo possa di volta in volta essere disciolta in altro, neutralizzata, per così dire.

E qui mi torna in mente la storia di Miriam e Aron, che sparlavano di Mosè, che aveva sposato Sefora, una donna madianita. E a Miriam e Aron, Sefora non piaceva. Non per qualcosa che dipendesse da lei, per una sua colpa, ma proprio in quanto donna madianita. Senza girarci intorno, insomma, secondo loro Mosè non avrebbe dovuto sposare una donna di colore.

Ora, la cosa interessante, è che per questa professione di odio, proprio Miriam, colei cioè a cui secondo la Torah si deve la salvezza matrilineare del popolo di Israele, viene punita dal Signore: si ammala di lebbra e viene “esiliata” dall’accampamento. Mosè allora intercede per lei, chiede al Signore che la guarisca. Mosè insomma non ricambia Miriam con la stessa moneta. Così Miriam dopo sette giorni guarisce dalla lebbra dell’odio e viene riammessa nell’accampamento.

La morale della storia è sin troppo semplice, ma è bene esplicitarla: l’odio fa peggio a chi lo prova che al soggetto contro cui si scaglia. Ed è, per giunta, una malattia contagiosa. Così infatti l’odio fa male al Faraone, a cui ha indurito il cuore. E l’odio professato dal Faraone fa male agli stessi Egiziani, molti dei quali ne sono stati infettati. Tanto che al Deuteronomio tocca ricordare che l’odio va maneggiato con cura e dispensato il meno possibile: “Non odiare l’egiziano perché foste stranieri nella sua terra”. E tocca invece all’Esodo stabilire di chi sia la responsabilità della persecuzione, senza che agli Ebrei possa venire in mente di fare di ogni erba un fascio: “Allora sorse un nuovo Re, che non aveva conosciuto Giuseppe”.

Sembra un dettaglio da niente, ma non lo è: il nuovo Re non aveva conosciuto Giuseppe. Suona quasi come una circostanza attenuante. E qui la morale si fa più fine, più densa di implicazioni che interrogano la coscienza.

L’odio fa male a chi lo prova ancor più che a chi ne è bersaglio, dicevo. Ma la nostra difesa dall’odio consiste allora, ogni volta, nel mostrare un accesso alla conoscenza dell’Altro che passi per una via diversa dall’irritazione causata dalla primigenia ferita narcisistica insita nel conoscere stesso. Nel presentare, con pazienza e ogni volta, Giuseppe al nuovo Re. Ogni volta, con pazienza, presentarsi da capo.

Così, insomma, mi chiamo Anita Likmeta. Sono una cittadina italiana, nata in Albania. Ho imparato, con fatica, una lingua, la vostra, che adesso è diventata  la mia. Quanto ho ricevuto, oggi, sono qui a restituire.

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