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L'incontro tra Giorgia Meloni e Edi Rama in Albania

Italia Albania: Let’s get physical!

La politica è anche fisicità. E’ un’ovvietà per cui gli esempi si sprecano, ma giusto per farne un paio: la preoccupazione dei democratici in America oggi è che Biden non regga il confronto con Trump perché sugli schermi appare più vecchio e più debole del suo avversario. Oppure, per non dare l’idea sbagliata che si tratti solo di una questione di prestanza maschile, si pensi all’acconciatura impeccabile della Thatcher: non c’era dubbio che una con quei capelli avrebbe tenuto i conti pubblici in ordine. Così, sono trascorsi alcuni giorni da quando la Presidente del Consiglio Meloni si è recata in visita amichevole in Albania, invitata dal Premier Edi Rama. Un incontro informale appunto, come fra due amici qualsiasi. Così amici che il Presidente le ha ricordato del conto da pagare dei turisti italiani e lei, la grande Sorella d’Albania, è corsa ai ripari chiamando l’ambasciata italiana affinché saldasse il conto dei furbetti. E, ancora una volta, l’elemento della fisicità in quell’incontro, saltava agli occhi: il gigante e le bambina, per citare una vecchia canzone. Se ne è accorto anche Rama, che ha cercato di mitigare la disparità delle foto, in un’intervista a Telese: “Quando la Meloni parla sa essere un gigante”, aggiungendo poi che al giorno d’oggi destra e sinistra non sono più categorie con le quali si possa interpretare la realtà, motivo per cui è perfettamente plausibile un asse Italia Albania, nonostante Rama sia socialista e la Meloni un’ex missina. Il guadagno derivante dall’incontro è stato sicuramente reciproco: la Meloni ha ottenuto il plauso pubblico di un leader socialista, la qual cosa, nella narrazione rivolta agli italiani, sta a significare che tutto quel ceto medio che si sente a disagio per il post-fascismo della Premier farà meglio a mettersi l’animo in pace. Rama, da parte sua, sa che l’Italia è uno dei primi partner commerciali dell’Albania e, di certo, il primo paese europeo che sarebbe disposto a validare all’Albania il passaporto per entrare nell’Unione Europea. Questo legame trova proprio nell’informalità dell’incontro un motivo ulteriore di sottolineatura. Come a dire: non abbiamo bisogno di fare le cose con troppa ufficialità, in fondo siamo come quei parenti che ogni tanto passano a farsi una visita. Nel frattempo però Germania e Francia si allineano sul fronte migranti e rafforzano i loro rapporti istituzionali, posizionandosi nuovamente come paesi forti alla guida dell’Europa. La Meloni avrebbe forse potuto anticiparli e fare una mossa da maestra, come quando incontrò a Roma Macron. Oggi quella mossa le avrebbe garantito una certa compattezza di forma ma soprattutto l’avrebbe aiutata ad essere vista, da ovest, come una leader affidabile per il futuro. Così, al netto della felicità che provo (da italiana-albanese) nel vedere che le mie due patrie vanno d’amore e d’accordo, ho come il dubbio (da albanese-italiana) che non basterà, quando andremo a parlare in Europa delle questioni scottanti che sono sotto gli occhi di tutti, minacciare la troika con lo spauracchio del cugino di due metri, che, come dicevamo da bambini, “con un pugno ti manda in cielo”.

Lo ius scholae oltre gli interessi di bottega

Gentile Presidente del Consiglio Giorgia Meloni, mi permetto di rivolgermi direttamente a lei, per scriverle di un tema che mi sta molto a cuore e che, soprattutto, sta a cuore a migliaia di famiglie che vivono in Italia e che contribuiscono con le loro tasse all’erario dello Stato: lo Ius Scholae. Sino ad oggi, nessuna forza politica ha affrontato questo tema con quella lungimiranza capace di anteporre l’interesse della Nazione alle contrapposizioni ideologiche. Le numerose famiglie che attendono questa legge per i loro figli nati in Italia, infatti, sono ancora abbandonate a sé stesse senza una risposta concreta da parte delle istituzioni. Le parlo, pur appartenendo allo schieramento avverso, perché a quelli che hanno la mia storia importa soprattutto conseguire un risultato che, in questo momento, è in Suo potere realizzare. Dopo anni di dibattiti, Onorevole Presidente, mi ritengo fra coloro che considerano i risultati concreti e autenticamente innovatori più importanti di quel narcisismo etico che contrabbanda l’irraggiungibilità degli obbiettivi con la comoda consolazione di sentirsi parte di una schiera di “presunti migliori”. Mi rivolgo a Lei, quindi, poiché, in questa impresa, migliori sono semplicemente coloro che la realizzeranno. Personalmente, e per quel che vale, voglio dirle che non mi importa affatto avanzare recriminazioni sul razzismo, del quale, sia chiaro, sono stata talvolta anche vittima, perché non sono le recriminazioni a definirmi come persona e, soprattutto, perché non sono certo quelle a dar forza a questo mio appello. A me importa invece, e tanto, che tutti i bambini che abbiano completato il primo ciclo di studi in Italia, e per i quali quindi l’italiano non solo è la prima lingua, ma, talvolta, anche l’unica che conoscono, siano a tutti gli effetti cittadini italiani. Mi importa che i bambini che pensano in italiano, che sognano in italiano (quando non addirittura in uno dei tanti meravigliosi dialetti che rendono il nostro patrimonio linguistico vivo e pulsante), siano riconosciuti dallo Stato per quello che di fatto sono già a tutti gli effetti: cittadini italiani. Come lei, nata italiana, e come me, ebrea nata albanese, figlia di due diaspore, e finalmente naturalizzata italiana per meriti. Lei, Onorevole Presidente, è perfettamente conscia dell’autunno demografico che segna il nostro Paese e per quanto il Suo governo cerchi di contrastarlo, ritengo sbagliato porre un’alternativa fra politiche di reale inclusione come lo ius scholae e le altrettanto necessarie strategie per incentivare la natalità. Una sinistra e una destra finalmente moderne, emancipate dalle tragedie del Novecento, devono saper leggere la realtà senza infingimenti: promuovere iniziative legislative per la natalità non è in contrapposizione con il riconoscimento da parte dello Stato di chi italiano lo è già di fatto. Il Ministro Sangiuliano ha evocato Dante quale stella polare a cui guardare per immaginare un futuro all’altezza di una nobile eredità secolare. Mi è impossibile allora non pensare alla sua bellissima definizione della nostra Penisola: il “bel paese là dove ‘l sì sona”. Faccio dunque appello a quel coraggio che certo non le è mancato per diventare la prima donna Presidente del Consiglio nella storia della Repubblica: non attardiamoci nel riconoscere la cittadinanza a quei bambini che, quando chiedi loro se han fame, se vogliono un gelato, se vogliono bene ai genitori, rispondono con un sonoro “sì”. E questo perché, per loro, “sì” si dice “sì”, ed è la cosa più semplice e naturale del mondo. Faccio dunque appello alla sua intelligenza, senza tirare in ballo il ricatto morale del cuore che è una moneta sempre fasulla quando parliamo fra donne. Alla sua forza di donna delle istituzioni, più che alla tenerezza di cui è capace come madre, per chiederle di avviare una riforma a difesa dei bambini che, ne sono certa, troverebbe nella maggioranza degli italiani un popolo pronto ad accoglierla, e in lei una leader capace di intestarsi una vittoria in quel campo ormai così poco praticato dalla politica che è il semplice buon senso. La ringrazio di cuore per l’attenzione, e viva l’Italia, la mia e la sua, che sono poi, grazie a Dio, la stessa, unica e indivisibile.

Basterebbe cambiare prospettiva sull’Europa

Ci sono popoli che continuano a guardare all’Europa come faro di civiltà, come motivo di ispirazione per condurre una terribile lotta di emancipazione dall’oppressione: il nostro problema è che invece di rispondere con orgoglio a questa chiamata, restiamo chiusi in bagno a guardarci insicuri allo specchio “Ogni grande crescita porta di fatto con sé un enorme sbriciolamento e deperimento: la sofferenza, i sintomi della decadenza appartengono alle epoche che fanno enormi passi in avanti; ogni potente o tremendo movimento dell’umanità ha creato nello stesso tempo un movimento nichilista”. Così scriveva Nietzsche. Per Gramsci invece “la crisi consiste appunto nel fatto che il vecchio muore e il nuovo non può nascere” e che, nello spazio della crisi, “si verificano i fenomeni morbosi più svariati”. È interessante leggere il presente con in mente due pensatori tanto distanti fra loro, eppure perfettamente consapevoli, ciascuno per il suo tempo, di stare vivendo un’accelerazione imprevedibile della Storia. Per noi, l’era che segue la globalizzazione, è soprattutto l’occasione di sperimentare un cambiamento per il quale le categorie interpretative con le quali abbiamo sin qui maneggiato il mondo, non sembrano più funzionare. Stiamo vivendo di fatto una profonda e repentina trasformazione, mentre sembra che nessuno abbia la ricetta giusta per rispondere ai grandi quesiti che, prima ancora di farsi specifici (modelli economici, sostenibilità, crescita demografica globale in opposizione a un invecchiamento drammatico del continente europeo, flussi migratori), interrogano il nostro stesso essere umani in una dimensione che sembra contrapporre a questo nostro stesso essere umani una sorta di dominio del non essere: siamo, per dirla con Byung-chul Han, circondati da non-cose, abbiamo non-relazioni sociali su piattaforme virtuali, investiamo in non-soldi estratti nelle non-miniere di internet, ci nutriamo di non-informazioni che non raccontato storie ma sono frammenti di uno story-telling orientato al marketing di prodotti o della politica stessa, per cui votiamo per non-partiti, per non-candidati la cui sorte è spesso quella di offrirsi, nel giro di una stagione, prima come doni della provvidenza e infine come capri espiatori. Da questo, la tentazione di uno sguardo apocalittico sul destino dell’Occidente è sicuramente seducente, per quanto non tenga conto del fatto che forse l’Occidente stesso, come terra del Tramonto, è costitutivamente destinato a un’apocalisse continua. Che anzi, paradossalmente, proprio questo essere l’Occidente come la Fenice che ricompare ogni volta dopo gli “ultimi giorni dell’umanità”, ci induce piuttosto a pensare che qualcosa ancora manchi alla riflessione di questi ultimi anni perché la politica possa tornare a parlarci seriamente del nostro destino. La mia impressione è che, nel frattempo in cui “il vecchio muore e il nuovo non può nascere”, due siano i rischi che si presentano alla riflessione che voglia tradursi in azione politica: da una parte cedere alla nostalgia, al vagheggiamento di un ritorno a mondi trapassati (un esempio che ne vale mille: l’amaro risveglio degli inglesi dopo il sogno della Brexit), dall’altra indulgere nel tipico narcisismo del senso di colpa dell’Occidente che ci porta dritti in quella notte in cui tutte le vacche sono nere. Una dimensione di relativismo etico, tanto stupida quanto autolesionista, per cui l’odio verso noi stessi ci porta a tentennare (altro esempio che ne vale mille) davanti allo scempio delle sanguinose repressioni della polizia morale di Teheran. Troppo occupati a guardarci allo specchio dei nostri compiaciuti esami di coscienza, non abbiamo più il coraggio di affermare che, molto semplicemente, una società che garantisce libertà di espressione a tutti è superiore a quella che organizza una polizia morale per vegliare sul corretto posizionamento del velo sulla testa delle donne. Mentre dunque sperimentiamo “la sofferenza” e “i sintomi della decadenza” che “appartengono alle epoche che fanno enormi passi in avanti”, ci sono popoli che continuano a guardare all’Europa come faro di civiltà, come motivo di ispirazione per condurre una terribile lotta di emancipazione dall’oppressione. Il nostro problema è dunque che invece di rispondere con orgoglio a questa chiamata, restiamo chiusi in bagno a guardarci allo specchio, come una bella donna insicura, mentre l’amante ci aspetta per strada sotto la pioggia. Basterebbe allora cambiare prospettiva per un attimo e pensare le cose per quello che sono davvero, oltre le pose intellettuali, oltre il divertimento filosofico delle profezie di sventura. Basterebbe forse comprendere che non viviamo certo nel migliore dei mondi possibili, ma si può essere abbastanza orgogliosi che tutti gli altri, al momento, se la passano peggio di noi e che, quindi in definitiva, il nostro problema non può più essere il pessimismo della ragione, ma semmai quello della volontà. In una parola, la fatica terribile di alzare il culo, e la consapevolezza che, intanto, darsi così da fare per ottenere così poco è sempre e comunque molto meglio di niente.

La sinistra del Monk

La candidata alla guida del Pd Elly Schlein ha sciolto le riserve al Monk di Roma, quartiere Portonaccio. Come a dire che con lei il Pd esce dalla Ztl e si avventura in periferia, purché la periferia si allontani un po’. La she/her/their Elly Schlein, senza tessera del PD, si è finalmente candidata alla guida del Pd. Forse non farà piacere a qualche bravo amministratore locale tesserato che, religiosamente, ha versato i suoi sette/ottomila euro nelle casse del Partito ogni anno, ma pare serva anche lì il Papa che viene da lontano. Schlein ha sciolto le sue riserve al Monk di Roma, quartiere Portonaccio. Come a dire che, con lei, il Pd esce dalla Ztl e si avventura in periferia. È una buona notizia, certo, per quanto quella del Monk sia una periferia ben gentrificata, una replica di quella comfort zone che, per la gente che piace, a Roma si incarnò nella trasformazione del Pigneto. E, infatti, al Monk non si mangia pasta al burro, ma, stando al Menu, “spaghetti artigianali al burro di bufala campana con parmigiano 36 mesi e pepe di Sichuan”. Non ci vado da anni, ma il ristorante deve essere fantastico. Il Monk si presta dunque alla narrazione del “nuovo” Pd: andare in periferia purché la periferia si sposti un pochino più in là… e non ci si mischi mai con quelli che mangiano la pasta in offerta col burro del discount. Comunque, è da lì, dal Monk, che Schlein ha tracciato la sua rotta per la nuova sinistra, tuonando innanzitutto contro il (neo)liberismo. Mi resta difficile comprendere dove la Schlein abbia visto la deriva neoliberista in Italia, considerando che oltre un quarto del valore complessivo espresso in Piazza Affari è coperto da aziende pubbliche (escludendo da questo calcolo le municipalizzate!). Ma questa è la parola d’ordine, questo è il nemico. Nel marketing politico, del resto, il neoliberismo sta alla sinistra come i migranti stanno alla destra: quando non sai che pesci prendere, se sei di sinistra te la prendi col neoliberismo, se sei di destra te la prendi coi migranti. Ed è un peccato, perché sia da una parte sia dall’altra, tutto fai pur di non cominciare a comprendere la realtà per quello che è davvero e, magari, cominciare a proporre soluzioni imperfette e sostenibili, come del resto sono e saranno sempre tutte le soluzioni umane ai problemi umani. E siccome il problema della redistribuzione della ricchezza è un problema serio, qualcosa che conoscono bene soprattutto quelli che mangiano la pasta in offerta col burro del discount, ecco che alle idee fondanti del nuovo Pd, per come dovrebbe essere secondo Schlein, si aggiunge anche la “redistribuzione dei saperi”, che non vuol dire niente, ma riempie la bocca. Alla fin fine, il punto è sempre quello ben noto a chiunque si sia occupato di impresa a qualunque livello: il marketing è indispensabile, ma ci vuole il prodotto. Se non hai il prodotto, il marketing non serve a niente. Schlein aprì infatti la strada verso la sua candidatura già durante la campagna elettorale delle politiche, quando rispose a Giorgia Meloni con la nota parodia: “Sono una donna, non sono una madre. Ma non per questo sono meno donna“. Vista da fuori, Schlein appare dunque come l’anti-Meloni studiata a tavolino. Il problema è che non si capisce cosa sarebbe in sé, chi rappresenterebbe insomma (a parte quelli che mangiano la pasta artigianale al burro di bufala campana) se non ci fosse la Meloni a farle da specchio. In fondo, dispiace che il Pd non abbia imparato niente dall’esperienza fallimentare dell’antiberlusconismo, che non abbia ancora capito che, prima di essere contro qualcuno, bisognerebbe essere per qualcosa. Ma cosa sia questo qualcosa resta ancora avvolto nella nebbia più fitta.

Quel suo frignare in diretta tv è un’offesa per noi immigrati

Aboubakar è l’ultima vittima dell’ipocrisia di Pd e soci, subito pronti a scaricare i pesci piccoli. Ho riflettuto a lungo sul perché provassi compassione ma anche un profondo fastidio per le lacrime di Soumahoro. E per quella sua intervista a In Onda, mentre la De Gregorio lo incalzava e Paolo Mieli continuava a chiamarlo «onorevole». Per lui, che invece di prendere le distanze e chiarire la sua estraneità ai fatti che gli venivano contestati, blaterava confuso, senza riuscire a tracciare una linea oltre la quale mettersi in salvo dalla gogna. Soumahoro, come noto, è stato eletto con Sinistra e Verdi, in coalizione PD. Egli però non ha un suo elettorato, perché i lavoratori che rappresenta non hanno diritto di voto. È insomma il fratello maggiore dei braccianti africani d’Italia. Comprendo bene le sue lacrime. Ma la verità è che Soumahoro ha pianto perché si è accorto, all’improvviso, di essere soprattutto il fratello minore di quella sinistra italiana che, come direbbe Michel Onfray, ha smesso di essere sociale per diventare «la società». Ha capito di esser stato eletto per tacitare il senso di colpa di quella borghesissima sinistra italiana che lo manda in Parlamento pur di non farlo sedere in salotto. In questi anni passati in Italia ho studiato, ho lavorato, ho pagato tutte le tasse. E ho militato a sinistra perché, nel profondo, sono una socialista liberale. Ho sempre pensato che la sinistra fosse la mia casa e che non avrei mai potuto cercarmene un’altra. Ho cercato di compiacere, di essere accettata. Di essere lì, per i miei amici della sinistra italiana, quando e se avevano bisogno di me. Ho cercato disperatamente di essere accettata da tutte queste scrittrici e giornaliste di sinistra che per qualche strana ragione invece di parlarmi, di confrontarsi, mi bloccavano sui social senza alcun motivo. Ho una collezione di screenshot che custodisco caramente, un vero e proprio archivio storico dell’intellighenzia femminile italiana con la quale non ho mai interagito e che è tanto sensibile da usare la schwa ma altrettanto miserabile da bloccare una perfetta sconosciuta per quegli stessi pregiudizi che, a parole, combatte. Unica brillante eccezione, che cito perché non mi riguarda: Lucia Annunziata che liquida le donne ucraine come badanti e escort. «Ecco, – ho pensato – finalmente una stronza di sinistra senza vergogna». Perché la verità è questa (e la scrivo soprattutto per te, Aboubakar): la sinistra italiana è visceralmente ipocrita. A sinistra, ogni volta, fra le intenzioni e i comportamenti, si apre un abisso nel quale i pesci piccoli (come te, Aboubakar) fanno una finaccia. Proprio come nell’Opera da Tre Soldi: «il pescecane ha i denti ma li porta in faccia, Macki ha un coltello ma nessuno glielo vede». Forse sarà per questo che chi ha di meno spesso preferisce i pescicane ai cuori sanguinanti in salotto. Quelle lacrime mi hanno irritato perché mi hanno riportato al porto di Bari, nel 1997, quando scendendo da quella barca i poliziotti mi controllavano per vedere se avessi i pidocchi o qualche altra malattia. Mi hanno riportato tra i sans papiers, per quanto io oggi possa dire come San Paolo: Civis Romanus Sum. Mi hanno riportato a quando ero una bambina e cercavo di comunicare con gli altri con le tre parole che avevo a disposizione. Nessuno mi ascoltava, nessuno mi capiva. Allora forse è arrivato il momento di spiegarmi meglio: le comunità di immigrati in Italia contribuiscono all’11% del Pil e rappresentano il 10% dell’elettorato. Questi numeri, secondo i dati Istat e EU, sono destinati a crescere esponenzialmente nei prossimi anni. Quindi noi esistiamo. E, forti di questi numeri, smettiamo di cercare la vostra approvazione o di frignare in tv. E abbiamo diritto di affermarci nel rispetto assoluto delle leggi del Paese che ci ha accolto ma nel quale smettiamo di essere sgraditi ospiti il giorno stesso in cui versiamo sangue all’Agenzia delle Entrate. Che vi piaccia o no.

Grazie a tutti gli italiani di buona volontà

Io non so come andranno queste elezioni, ma voglio, sin da subito, cogliere l’occasione per ringraziare un po’ di persone. Si dice che nessuno si salva da solo e mai come oggi per me questo è vero. Di questi tempi non si fa che parlare di come è cambiata l’Italia. Non si fa che parlare di questo Paese, che, almeno stando ai giornali, è diventato intollerante e incapace di reagire ai problemi che ogni giorno lo affliggono. Eppure, quando nel 1997, arrivai in Italia, avevo dieci anni e i problemi erano già tutti lì. A quei tempi, ad essere visti con sospetto, non erano gli africani, ma gli albanesi. Ricordo perfettamente la paura che avevo di prendere il telecomando e aprire quella finestra sul mondo: nel discorso pubblico, noi albanesi eravamo i cattivi, gente senza scrupoli che vendeva figli e sorelle. Ladri e prostitute. Mi ricordo ancora quando un professoressa, al Liceo Classico, mi disse che noi albanesi eravamo un popolo selvaggio, del tutto irrecuperabile. Ma per quanto difficili fossero quegli anni, per me che ero una bambina, nei miei ricordi ho lasciato spazio solo alle persone di buona volontà. Ricordo ad esempio quando, durante l’ora di religione, lasciavo la classe per prendere lezioni di italiano da Don Cleto, il parroco di un paesino in provincia di Pescara. Don Cleto era un uomo perbene e capiva il mio disagio: aveva sempre un sorriso da regalare e delle buone speranze che mi riempivano il cuore. Mi donava i libri che aveva nella parrocchia: “prendili tu, hanno bisogno di essere letti”. E poi la bidella, una signora bionda, minuta,  che ogni mattina mi regalava la merenda. E una ragazza di Villanova che si era laureata in Lingue e Letteratura inglese: mi regalò un’enciclopedia. Poi, con mia madre, ci trasferimmo a Cepagatti (che si chiama così perché fu terra di mercanti e, quindi, dal latino captus pagus, passando per il volgare Ce pagate). La prima cosa che feci lì, a Cepagatti, fu visitare la Chiesa di San Rocco e Santa Lucia, dove conobbi Don Agostino. Un parroco taciturno, un uomo di pochissime parole e di tantissime buone azioni. Si spese per la mia famiglia con ogni mezzo. A casa nostra, così, non mancava mai niente, perché il parroco e le suore si ricordavano sempre di noi. E poi la signora Lara, una imprenditrice che aveva una fabbrica che produceva camicie, dove mia madre trovò lavoro e amicizia. E infine le signore Jolanda, Lea, Franca e suo marito Francesco che avevano una gioielleria. E l’assistente sociale Francesca. Queste persone furono per noi come un salvagente. Ci tennero a galla. Poi sono cresciuta, e tra mille avversità ho conseguito la maturità classica. Mi sono trasferita a Roma per continuare gli studi e anche qui ho avuto la fortuna di vivere e crescere grazie alle cure delle suore dell’istituto Mater Mundi che si trovava sul Casaletto. Ecco, io oggi voglio ringraziare tutte queste persone. Questi uomini e queste donne semplici e vitali. Loro non lo sanno, e forse nemmeno si ricordano di me e della mia famiglia, ma io voglio ringraziarli per non avermi lasciata in mezzo a una strada. Voglio ringraziarli per l’amore e per la cura. E voglio dire a loro che se oggi sono candidata a queste elezioni è perché anch’io volevo dare il mio contributo al Paese che mi ha accolto. E testimoniare, con la mia presenza, tutto il loro amore disinteressato e la bellezza del loro cuore.

Il reddito alle casalinghe? Forza Italia fotografa l’Italia degli anni 50

La promessa elettorale del candidato Massimo Mallegni non è solo sessista, ma anche pericolosa. La proposta del candidato di Forza Italia in Toscana Massimo Mallegni, in corsa per il Senato, che promette il reddito alle casalinghe non solo è sessista, ma anche pericolosa. Il ruolo di madre e di moglie non può essere considerato un lavoro per il semplice motivo che si tratta di una scelta di vita personale. Una volta equiparata a un lavoro, come ogni lavoro, prevede un datore, qualcuno cioè a cui rendere conto di cosa si fa o non si fa. Nel mondo immaginato da questi finti liberali, sarà dunque il marito a stabilire se la donna avrà svolto bene o male il lavoro per cui è pagata dallo Stato. Il progetto, tipico di una destra illiberale e reazionaria, è quello dell’asservimento delle donne, quello di relegarle in un ruolo di “sorvegliate speciali”, tenute a spazzare, lavare, cucinare e soddisfare il maschio con la benedizione di uno Stato sempre meno laico. So che a tanti magari piacerebbe anche, ma è fuori dalla storia, e le donne non si piegheranno mai a questo disegno di svendita della dignità in cambio di quattro spiccioli. Le democrazie avanzate insistono semmai sui congedi parentali per padri e madri, sul garantire a tutti possibilità di accesso alle scuole materne per i figli, sulla flessibilità del tempo dedicato al lavoro. In definitiva, quella di Mallegni è una proposta che fotografa perfettamente l’Italia degli anni Cinquanta. Peccato che siamo nel 2023.  

Lettera a tutte le comunità albanesi in Italia e in Europa

A tutte le comunità della diaspora albanese in Italia, Il recente vertice tra i 27 Stati membri dell’Unione europea e i sei Paesi dei Balcani occidentali extra-europei si è concluso con un nulla di fatto. La Bulgaria non ha ritirato il veto sulla ripresa dei negoziati di adesione con la Macedonia del Nord gettando così una pesante ombra sul percorso dell’Albania, che è legato a quello di Skopje. Per l’ennesima volta, sulla questione, non è stata raggiunta l’unanimità necessaria. L’Europa, insomma, ancora una volta, non ha tenuto nella dovuta considerazione l’Albania e il popolo albanese. Per quanto siamo consapevoli di rappresentare una piccola nazione, sia in termini territoriali che demografici, riteniamo che l’Europa non possa e non debba dimenticarsi di noi: la nostra stessa storia, il modello di convivenza interreligioso che rappresentiamo, gli sforzi enormi di democratizzazione dopo la triste parentesi della dittatura comunista, sono una patrimonio che dovrebbe essere tenuto nella massima considerazione da un’Europa che, proprio oggi, cerca di affermare i suoi valori fondanti rispetto a un vasto mondo che li mette violentemente in discussione. Tuttavia, noi albanesi non possiamo perderci d’animo: non siamo figli illegittimi di questo Continente, semmai, abbiamo fratelli distratti. Noi albanesi, come e più di altri popoli, conosciamo il prezzo che si paga per la libertà e non faremo un passo indietro sulla strada che abbiamo intrapreso con coraggio e determinazione. Da questo punto di vista, trovo rincuoranti e piene di speranza le parole del Presidente Mario Draghi, che, a margine del recente Consiglio Europeo, ha dichiarato con fermezza il suo appoggio alla causa albanese: “noi vogliamo che l’Albania venga presa e vada avanti da sola, cioè senza essere più bloccata dalle differenze, dalle divisioni che ci sono sulla Macedonia del Nord”. Come su altre questioni dirimenti, dobbiamo dunque sperare che l’autorevolezza di Mario Draghi, possa giocare un ruolo decisivo anche su questa questione. Oggi, come cittadini albanesi sparsi in varie comunità in Europa e nel mondo, dobbiamo dunque farci conoscere meglio, spiegare meglio le nostre ragioni, di nuovo e da capo. Dobbiamo rivendicare il nostro pieno diritto a sedere nel Consiglio Europeo. In questa fase storica ognuno di noi può contribuire come singolo e come comunità a fare la differenza ovunque si trovi, in Italia come in ogni altro paese europeo. È mia ferma convinzione che se noi albanesi, intesi come individui e come comunità, non parteciperemo attivamente per sostenere l’adesione dell’Albania all’Europa, faremo l’imperdonabile errore di abbandonare i Balcani al disegno egemonico dell’impero russo e di quello ottomano. Noi albanesi sappiamo bene cosa significherebbe per le nostre vite: lo abbiamo già vissuto per troppo tempo. Non vogliamo riviverlo di nuovo. Rroftë Shqipëria! 

La dittatura, un ballo in maschera

Compagno Hoxha, Ti scrivo perché è di questi giorni un dibattito che ti ha richiamato da quell’oblio nel quale la Storia sembrava averti relegato. Tuttavia lasciami dire subito che persino l’inizio di questa lettera è, per me, piuttosto problematico: ti chiamo “compagno” per un riflesso condizionato che mi deriva dall’infanzia, ma è certo che Tu non sei mio compagno, né io voglio esserlo per te. Meglio: diciamo che, per quanto mi riguarda, avendo avuto ogni valido motivo per disilludermi per sempre della bontà di qualunque ricetta politico-sociale ispirata ai dettami del leninismo, so già che se qualcuno pretende che tu lo chiami “compagno”, è perché, nonostante i migliori propositi, ha già congegnato per te una sofisticata macchina statale in grado di tenerti in vita umiliandoti un po’ ogni giorno. Soprattutto, compagno Hoxha, quello che ancora oggi mi infastidisce del sistema che rappresentavi era l’ipocrita credenza di aver raddrizzato il legno storto dell’umanità una volta per tutte, di aver creato una società di uguali che, in realtà, erano uguali solo sulle carte della burocrazia. Vi erano infatti i ricchi e i potenti, esattamente come nell’Occidente debosciato che tanto ti terrorizzava, e i contadini che si spezzavano la schiena nei campi per mantenerli tutti. Solo che, di ricchi e potenti, ce ne erano meno, ed erano più assoggettati al sistema di potere che rappresentavi, più pronti a chinare il capo per mantenere i loro privilegi. Ad esempio, l’aristocrazia ottomana, che di aristocratico aveva poco ma che tale si sentiva, mandava i figli a studiare all’estero per poi farli tornare in Patria a ingrassare le file dell’apparato (la maggior parte di loro, ha poi trovato il modo, dopo una rapida abiura, di riciclarsi nel mondo nuovo). Noi figlie di contadini del distretto di Durazzo, invece, andavamo a prendere l’acqua alla diga col somarello, scalze, alle sei di mattina. Credo sia per questo che noi figlie di contadini del distretto di Durazzo, non sentiamo affatto la tua mancanza, compagno Hoxha. Ed è sempre per questo, immagino, che siamo anche disposte a sopportare con più pazienza le storture del sistema liberale, le mille aberrazioni dell’Occidente, contentandoci di provare a raddrizzare un po’ quel legno storto di giorno in giorno, consapevoli che si tratta di un lavoro che non avrà mai fine. E anche se non siamo esperte di Filosofia politica, di macroeconomia o di sistemi complessi, noi figlie di contadini nullatenenti di Durazzo siamo semplicemente contente di non andare più in giro col somarello alle sei di mattina, nella neve, per prendere l’acqua alla diga. Soprattutto, siamo felici di non aggirarci per le strade di polvere di una campagna disseminata di centinaia di migliaia di Bunker che tu, compagno Hoxha, avevi eretto per farci capire che eravamo soli e in guerra contro un mondo al quale di noi, in realtà, non importava assolutamente nulla. Quelle centinaia di migliaia di bunker, compagno Hoxha, erano la reificazione della paura che avevi del popolo del quale dicevi di essere il supremo difensore. Erano il pervasivo monumento in cemento armato ai demoni della cattiva coscienza, tua e dei tuoi sodali. Vedi, Compagno Hoxha, sono venticinque anni che vivo lontana dalla mia Patria, in esilio in Italia.  Sono venticinque anni che mi cerco nelle parole degli altri perché in Albania, le parole, ce le aveva sequestrate tutte la Sigurimi. Ho sempre vissuto con il pensiero costante che all’imbrunire le silhouettes dei nostri fantasmi, quelli che non abbiamo mai scacciato, possano tornare, vestite di nuovo, di rosso o di bruno, animate ancora una volta di quelle migliori intenzioni a cui fanno finta di credere e di cui è invece lastricata la strada per l’inferno dal quale sono scappata venticinque anni fa. Certo è però che, se ti scrivo, è perché la Storia sembra adesso riproporsi come farsa (sì, Compagno, sto citando Marx): se penso ai tuoi piani quinquennali per l’energia, che realizzavano il sogno autarchico dell’autosufficienza, non posso non constatare che è quello che temiamo di dover vivere adesso per non aver realizzato in tempo un vero Green New Deal, per non aver diversificato le fonti di approvvigionamento, per aver confuso l’ecologia col rifiuto tanto velleitario quanto ipocrita della modernità in nome di ogni sorta di nostalgia romantica. Così alla fine ho imparato che non c’era alcun sol dell’avvenire nella tua Albania, compagno Hoxha, e sono dovuta scappare. Qui invece ho imparato che non esiste il sogno americano, e non esiste qui perché dubito che sia mai davvero esistito anche in America. Qui ho imparato che il capitalismo italiano è piuttosto familista e relazionale, ed è difficilissimo farsi ascoltare se anche tu non sei figlia di una qualche aristocrazia ottomana (o di quella che Carlo Emilio Gadda chiamava “la migliore società Assiro Babilonese”). Vivendo in esilio, ho però imparato che la mia libertà, come donna e essere umano, vale tutta la pena di una democrazia imperfetta come questa. Diciamolo meglio: non è certo il migliore dei mondi possibili questo. È soltanto il migliore fra quelli che mi è stato dato conoscere.

“La nostra libertà non è un incidente della storia: è tempo di sognare le vite delle generazioni future”

“L’Europa non è un incidente storico”: con queste parole il compianto presidente David Sassoli ci ha lasciato la sua più grande eredità. Mi chiamo Anita Likmeta, sono arrivata in Europa 24 anni fa e sono l’incarnazione di quelle parole. Sono una immigrata, proprio come quegli egiziani, libici, somali, etiopi che vediamo ammassati in centri di accoglienza che tanto accoglienti non sono. Sono una fra le migliaia di persone che anni fa hanno attraversato il mare Adriatico su una nave, sperando di trovare in Europa qualcosa di meglio rispetto allo scenario di morte che si lasciavano alle spalle. Vengo dall’Albania. A casa mia c’era la guerra civile: nessuno di voi qui, per fortuna finora, sa più cosa sia una guerra civile. Nessuno di voi qui sa cosa voglia dire ammazzarsi tra fratelli, tra cugini, tra vicini di casa. Sono oggi alla plenaria di aprile del Parlamento Europeo per dirvi che neanche io sono un incidente della storia. Figlia della diaspora ebraica prima, e di quella albanese poi, l’Occidente per me ebbe da subito i colori dell’Italia: quel paese che sbirciavamo in televisione e che ci sembrava così pieno di promesse e di opportunità, per noi che facevamo i conti con la miseria più assoluta e con la devastazione morale di una dittatura spietata e paranoica. Trovai in Italia un paese pieno di contraddizioni e di chiusure, ma straordinariamente capace di poesia e generosità. L’Italia è riuscita così a darmi quella possibilità di riscatto che non avevo avuto per nascita. E dopo l’Italia, la Francia, dove ho studiato e dove ho potuto comprendere appieno lo spazio di libertà che mi era dovuto proprio in quanto essere umano. Come me, gli ucraini non sono l’altra parte del mondo. Gli ucraini, e noi tra loro, siamo la nuova Europa. Stiamo vivendo l’esperienza dei migranti in casa nostra. Quegli altri siamo noi. E come cittadina europea ringrazio la nostra Presidente Roberta Metsola per il gesto concreto di andare in Ucraina come rappresentante eletta democraticamente da tutti noi europei. Perché alla fine, se rimettessimo indietro le lancette della Storia, ci renderemmo conto che questa nostra libertà non è un incidente, ma è piuttosto frutto delle speranze e dei sogni delle nostre nonne e dei nostri nonni: loro lo sapevano che solo chi parte dalle rovine e dalla distruzione può sognare i sogni delle generazioni che verranno. L’Europa era il loro sogno, io oggi sono una realizzazione di quei sogni. E sono qui per ricordarvelo, per ricordare insieme che abbiamo un’eredità da tramandare e rinnovare: dobbiamo sognare insieme le vite delle generazioni future per come saranno, domani, negli Stati Uniti d’Europa. Gli Stati Uniti dei nostri Padri Costituenti.