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Il mondo del lavoro e i giovani

di Zeralda Daja La domanda, del tutto retorica, che mi pongo in questo articolo è: ma esiste ancora il famoso “posto fisso” dopo l’università o è solo un mito perpetuato dalle vecchie generazioni? Per i giovani di oggi non è semplice trovare lavoro: cv spediti ovunque, corsi di formazioni gratuiti ma che non vengono valorizzati in un colloquio, master costosi, magistrali impegnative e di lunga durata. Ai miei tempi, nella buona società, non si incontrava mai nessuno che lavorasse per vivere. Era considerato sconveniente. Oscar Wilde La società di oggi non ci aiuta. Mi ritrovo, nella vita di tutti i giorni, ad affrontare contesti in cui vita professionale, vita privata e vita universitaria non riescono a conciliarsi, anche se l’impegno dello studente-lavoratore c’è totale e costante. Perché, per entrare nel mondo del lavoro, oggi  una laurea non basta più. Il ritornello ottimistico ripetuto dai genitori (“Studia, finisci l’università che poi riuscirai a trovare il tuo mestiere”) si scontra con la dura realtà del mondo del lavoro per come l’ho conosciuto. Ho 24 anni, una laurea triennale in scienze umanistiche, una laurea magistrale in Pedagogia. Ho fatto lavoretti di ogni tipo: babysitter, cameriera, ripetizioni, addetta alle pulizie. Sono mamma di una bambina di 2 anni e mezzo e, quando invio un cv, la prima domanda che mi viene fatta è: “perché non ha esperienze lavorative fisse?”. Oppure: “Perché si è laureata con un anno di ritardo?”. Leggiamo annunci di lavoro dove vengono richieste figure Junior con un minimo di esperienza, oppure laureati con 2 anni di esperienze lavorative in azienda, e tutto questo senza contare il lato umano, personale, familiare di una persona. Nel frattempo, la società ci impone aspettative contraddittorie che non possiamo essere in grado di soddisfare: maternità non troppo prolungate, ma neanche troppo anticipate, sennò il mondo del lavoro non ci aspetta. Garanzie per l’acquisto di case agli under 35,  ma retribuzioni che non ci permettono di affrontare un mutuo. Per non parlare anche dei contratti di lavoro: contratti a chiamata sottopagati, contratti di apprendistato con 300-400 euro di retribuzione, contratti di tirocinio o stage dove lavori 8h come dipendente ma ti vengono retribuiti soltanto il rimborso delle spese di mensa e benzina. Le università ci impongono di svolgere tirocini gratuiti correlati alle tesi di laurea, senza contare che dietro quelle aule universitarie ci sono ragazzi che lavorano, che hanno creato famiglie, che magari hanno problemi di salute, o economici,  e che, in sostanza, non si possono permettere di lavorare “gratis”. L’università sono fondate sul presupposto che nelle loro sedi ci siano ragazzi che nella vita fanno solo gli studenti. La società invece pretende che a 25 anni dobbiamo già avere una carriera in ascesa e pensare a costruirci una famiglia. La verità è che ci troviamo di fronte a un paradosso sociale in cui di mezzo ci sono le nostre vite.

DAD: valori e svantaggi

di Zeralda Daja Quello della DAD è un tema che mi sta davvero a cuore, e non solo perché sono la mamma di una bambina ma perché ci riguarda tutti come collettività, come docenti, genitori, figli, e nonni. La situazione odierna mi ha portato ad essere mamma e studentessa a tempo pieno senza vincoli di spazio e tempo. Come già sappiamo le scuole/Università a causa dell’emergenza COVID sono state costrette a proseguire un nuovo metodo di didattica, chiamata comunemente DAD. Che cosa è la didattica a distanza o chiamata  in abbreviazione DAD? Non sono una studiosa di didattica e posso parlarne soltanto dal mio punto di vista da mamma, sorella e studentessa magistrale accennando anche figure come docenti e studenti a cui ho chiesto il loro punto di vista. Personalmente posso dire che la didattica a distanza mi ha offerto l’opportunità di essere presente nelle mie due sfere di vita, quella genitoriale e quella “professionale”. Mi ha offerto la possibilità di fare due cose contemporaneamente senza sentirmi in colpa di trascurare l’uno dall’altro; lezioni ascoltate tra un cambio pannolino urgente e una poppata per addormentarla. Questo è stato il mio dato positivo, ma penso non solo mio ma anche di molte donne che si trovano nella mia stessa situazione.  L’insegnamento non è solo un freddo passaggio di informazioni, ma è una relazione tra due esseri umani, in cui uno è assetato di conoscenza e l’altro è votato a trasmettere tutto il proprio sapere, umano ed intellettuale. Rudolf Steiner Ma con la DAD trascuriamo dettagli importanti per la didattica e la pedagogia: gli sguardi insegnante-alunno durante la spiegazione, i dibattiti in classe, le sedute nei banchi e le amicizie nati fra quei banchi. Dietro ad un computer è difficile spiegare e partecipare attivamente a una lezione, è un contatto virtuale e freddo ma  non può mai sostituire quello diretto/umano.  I miei ex docenti mi hanno fatto riflettere sul fatto che a loro, per esempio, è venuto a mancare è proprio la mancanza dell’osservazione durante le spiegazioni; spiegare dietro uno schermo senza un contatto visivo crea un distacco fra docente-alunno che non aiuta nell’apprendimento e nello sviluppo emotivo provocando un senso di disorientamento e frustrazione in entrambi. L’apprendimento non è fatto soltanto di spiegazioni a voce, ma anche di trasmissione di empatia e passione da parte del docente verso lo studente. Rudolf Steiner diceva: L’insegnamento non è solo un freddo passaggio di informazioni, ma è una relazione tra due esseri umani, in cui uno è assetato di conoscenza e l’altro è votato a trasmettere tutto il proprio sapere, umano ed intellettuale. La DAD è un’innovazione che ha sostituito la didattica tradizionale: un nuovo modo di apprendere e noi siamo coloro che vivono, un po’ sconvolti direi, questo passaggio. Penso che sarebbe utile parlare delle modalità e trovare un compromesso tra fisico e digitale è importante per i nostri ragazzi, quanto per noi adulti.

Questo mondo dobbiamo rifondarlo noi, care amiche!

di Zeralda Daja Oggi 25 novembre, giornata internazionale contro la violenza sulle donne, leggiamo una infinità di titoli sui giornali, fiumi di parole per declassare quel principio di pensiero comune che ci vede piegate sempre in secondo piano. “La donna? È semplicissimo- dice chi ama le formule semplici: è una matrice, un’ovaia, è una femmina: ciò basta a definirla. In bocca all’uomo, la parola “femmina” suona come un insulto; eppure l’uomo non si vergogna della propria animalità; anzi è orgoglioso se si dice di lui: “ È un maschio!”. Simone de Beauvoir Ne prendeva atto Simone de Beauvoir nel 1949, eppure oggi, nel 2020, la condizione delle donne è sempre a rischio. In molti Paesi, ancora oggi, la donna è vissuta come un accessorio, un bene come un altro, nelle mani del patriarcato. In fondo è quasi sempre stata così: la retorica del maschio alfa è un retaggio culturale difficile da declassare. Ce lo dicono appena nasciamo come dovremmo comportarci, i giochi a cui dedicarci: insomma il destino di molte donne, spesso qui e in molti altri Paesi del mondo, è una sceneggiatura scritta da uomini per altri uomini. Sono sempre più convinta che per sradicare questa forma mentis e iniziare a cambiare queste dinamiche di vittima/carnefice bisogna partire dai nostri bambini, ancora più dalle nostre bambine. Perché questo mondo dobbiamo rifondarlo noi, care amiche. Posso sembrare radicale, in realtà comincio solo ad accusare la pesantezza di questa volgarità, del qualunquismo, della ferocia dilagante che imperversa sui social network. Io sono madre di una bambina, e se penso al futuro di mia figlia rabbrividisco all’idea che lei possa crescere in una società in cui una donna per esistere debba ancora aver bisogno di un uomo. Rispetto al 1968, l’anno della grande rivoluzione femminista nato dalla ribellione di un gruppo di donne contro lo sfruttamento delle ragazze nell’evento di Miss America, abbiamo avanzato sul piano dei diritti e lo dimostra il fatto che sono sempre di più le donne che cominciano a guadagnarsi una posizione di rilievo nei ruoli apicali. Anna Maria Pelizzari, nuova Vice Capo della polizia, Kamala Harris, nuova Vicepresidentessa degli USA, Marta Catania, Presidentessa della Corte Costituzionale, Sanna Mirella Marina, prima Ministra a capo del governo in Finlandia, Antonella Polimeni, prima Rettrice donna dell’Università della Sapienza, solo per citarne alcune. Sebbene io sia la prima donna a ricoprire questo incarico, non sarò l’ultima. Penso a intere generazioni di donne che hanno battuto la strada per questo preciso momento. Penso alle donne che hanno combattuto e sacrificato così tanto per l’uguaglianza, la libertà e la giustizia per tutti, comprese le donne afroamericane, spesso trascurate ma che spesso dimostrano di essere la spina dorsale della nostra democrazia. Kamala Harris Donne che hanno ottenuto incarichi importanti, ma le storie di successo di queste donne non possono rimanere casi isolati. Personalmente spero che le generazioni future di donne comprendano appieno che non possiamo più permetterci di essere vittime di quel patriarcato che ha tentato da sempre il controllo sulle nostre vite. Che non possiamo più permetterci di essere condizionate dai pregiudizi sociali. Che non possiamo più accettare di essere ricattate e violate nell’intimo, nella nostra sessualità. Spero in un futuro dove mia figlia si realizzi in base alle sue capacità e non in base alle possibilità che la società offre. Quella società è possibile, ma bisogna continuare la marcia sul piano dei diritti, ora più che mai.

#CoronavirusStories: ritorno al futuro.

di Zeralda Daja Mi chiamo Zeralda Daja, ho 23 anni, sono nata in Italia ma i miei genitori sono albanesi. Sono una laureanda in Scienze Umanistiche all’Università di Urbino, e sono madre di una splendida bambina. Tutto ciò che so dell’Albania lo devo ai miei genitori che ogni volta mi raccontano gli anni vissuti li, prima che emigrassero per l’Italia. Mia madre e mio padre spesso mi narrano quei giorni in cui il caos imperversava nella vita di tutti i cittadini albanesi, nella loro piccola comunità. Mi raccontano che avevano paura di vivere quelle giornate che sembravano fossero interminabili. Lunghe attese per sapere cosa stesse succedendo, cosa avrebbero fatto, dove sarebbero andati. Mi dicono che nessuno aveva risposte. Poi ci sono state le emigrazioni di massa, ma ormai quei fatti sono storicizzati. Non trascurare le piccole buone azioni, pensando che non sono di alcun beneficio; anche le piccole gocce di acqua alla fine riempiranno una grande nave. Non trascurare le azioni negative solo perché sono piccole; per quanto piccola possa essere una scintilla, può bruciare un pagliaio grande come una montagna. Buddha Un mese fa pensavo alla mia tesi di laurea, avevo appena incontrato la mia relatrice per concordare alcune pratiche, andavo tranquillamente dai miei genitori per pranzare le domeniche, come da rito famigliare. Passeggiavo con mia figlia per tutto il paesino assaporando i primi giorni di primavera tra le margherite e i fiori di ciliegio appena nati. Organizzavo le mie giornate tra impegni e commissioni, ma poi ad un tratto tutto è cambiato. State a casa, limitate i contatti, uscite solo per necessità. Messaggio che vari enti nazionali riportano sulle tv. Non comprendevo la dimensione delle cose, d’altronde nessuno in quelle ore aveva chiaro ciò che stava accadendo e i danni che questa crisi avrebbe e sta tuttora comportando. Trovai rifugio nelle mie parole accettando una situazione che è paradossale, quasi inaccettabile. In fondo, la vita a volte fa brutti scherzi, quando ti prepari a viverla, ti scombussola i piani. Una vecchia storia per me, un po’ come quella che i miei genitori vissero in Albania, tanti anni fa. I nostri nonni, i miei genitori, i libri di storia narrano delle guerre, ma io non ricordo nessuna guerra nella mia giovane vita. Allora mi chiedo, sono queste le nuove guerre? La guerra ha i suoi protagonisti ed antagonisti, ma in questo scenario di morte e di sospensione dei diritti civili, mi chiedo chi sia il nemico. L’uomo, la natura, un virus o la grande paura. Da qualche parte ho letto che il pianeta si sta vendicando: come a dire basta ai soprusi, alle deforestazioni, all’inquinamento in atto. E come se ad un certo punto tutto il sistema di valori occidentali fosse messo in discussione, e quindi crollato. Eppure tutti lo dicono, tutti lo pensano: dobbiamo utilizzare questo tempo in quarantena per riflettere sulle nostre vite, sulle nostre relazioni, sulle nostre abitudini. Quando ci illudevamo che i rapporti virtuali fossero più importanti di quelli reali, sulle vite di tutti irrompe un protagonista: un virus che ci costringe a vivere ammassati nei rispettivi metri quadri, e solo ora comprendiamo il valore della comunione con il prossimo. Ora realizziamo il valore di uno sguardo o quello di un abbraccio. Quando il razzismo e le ideologie estremiste iniziavano a prevalere nei rapporti umani e l’egocentrismo di una nazione non accettava rivali, il virus ci dimostra che di fronte alla vita e alla morte siamo tutti uguali, e molto lentamente si iniziano a vedere i segni di solidarietà fra popoli. O forse le prime alleanze di un futuro scenario geopolitico. Un gesto di solidarietà lo abbiamo visto alcuni giorni fa quando il premier albanese Edi Rama ha inviato in Italia 30 medici per aiutare l’ospedale di Brescia e Bergamo, le due città più colpite dall’emergenza Coronavirus. È vero che tutti sono rinchiusi dentro le loro frontiere e anche Paesi ricchissimi hanno girato la schiena agli altri ma forse esattamente perché noi non siamo ricchi e neanche privi di memoria, non ci possiamo permettere di non dimostrare all’Italia che gli albanesi e l’Albania non abbandonano mai l’amico in difficoltà. Oggi noi siamo tutti italiani e l’Italia deve vincere questa guerra. Edi Rama, Primo Ministro albanese Per quanto possa costringermi a trovare il perché di questa situazione, per quanto possa fare riflessioni in merito alle tematiche che stiamo affrontando come nazione, come Europa, non ho risposte. Ciò che posso dire è per quanto la normalità, la quotidianità, e persino la vita mediocre di tanti di noi fossero noiosi da digerire, oggi è quello di cui ho più bisogno. Le relazioni sono anche un atto fisico, in luoghi fisici, e senza di essi siamo birilli che stanno in piedi con la giusta distanza per essere abbattuti da qualsiasi essere che impugna una palla per tirarcela addosso, per poi fare strike facendoci cadere. Quando venivano messe in dubbio persino le guerre e gli eventi passati, considerandoli come troppo esagerati o addirittura inventati, ecco che ti ritrovi in guerra. Questa volta non con armi, trincee, nucleari ma contro un virus, un essere sconosciuto invisibile che ti minaccia e ti rende insicuro, dubitando di te stesso e di chi ti sta intorno. Perché la guerra rende insicuri, un’insicurezza di cui non te ne accorgi finché non ne sei dentro. Quando le nazioni innalzavano muri, chiudevano le frontiere, arriva un virus che ci costringe a velocizzare quel processo ma per la ragione opposta: difendere il prossimo. Quei confini con quei Paesi che ancora crediamo alleati. La sensazione che provo è quella di impotenza, colpa, minaccia, paura e di perdita. Questa parte della storia ci informa che siamo tutti sulla stessa barca, che chiunque può essere colpito, sia il povero che il ricco. Questa crisi ci accomuna, questa battaglia potremmo vincerla insieme soltanto se ognuno di noi si responsabilizza e si prende cura del prossimo. Forse quello che avevamo perso di vista è proprio il concetto del prendersi cura, perché la diffidenza che una certa propaganda politica ci aveva incitato ad avere ci ha condotti a non percepire più l’altro, dove l’altro siamo tutti noi.

Ex Jugoslavia, 1989. Ph. Steve McCurry.

I Balcani negli interessi delle vacche grasse

di Gëzim Qadraku Sono trascorsi ormai più di venti anni da quando la Jugoslavia iniziò a sbriciolarsi a causa di una delle più brutali guerre dell’ultimo secolo, tutte le realtà che la componevano avevano intrapreso la strada verso l’indipendenza. Nonostante la suddivisione della ex-Jugo in sette Stati, quando si parla di Balcani, si fa ancora riferimento – soprattutto – a quel blocco che costituiva la Repubblica Federale Socialista di Jugoslavia. Quel blocco era governato da Josip Broz Tito, l’uomo capace nel miracolo interno di mantenere insieme popoli di lingue, etnie e religioni diverse, ma anche in ambito internazionale, mantenendo una posizione “neutrale” tra quelle che erano le due superpotenze mondiali dell’epoca: Stati Uniti d’America e Unione Sovietica. Fu Tito infatti, insieme a  Nehru, Sukarno, e el-Nasser a prendere l’iniziativa per formare il movimento dei Paesi non allineati. Un impegno il loro, che aveva come scopo la protezione degli Stati che non volevano schierarsi o essere influenzati dai due giganti mondiali. Nonostante le condizioni della regione balcanica siano completamente cambiate in questi anni, i Paesi che la compongono sembrano poter ambire a giocare un ruolo importante in termini di politica internazionale. Nell’ultimo periodo infatti, parlando di Balcani, l’argomento principale al quale si fa riferimento è l’entrata nell’Unione Europea di tutti gli stati della penisola. Eppure all’inizio del suo mandato, Jean Claude Juncker, Presidente della Commissione europea, la pensava in maniera molto diversa rispetto agli ultimi tempi, nei quali ha addirittura previsto una possibile data, quella del 2025, come anno nel quale l’UE potrebbe allargarsi a 33 membri. Ad avere inciso sul cambiamento di veduta della situazione sono stati fattori esterni che non erano stati previsti da Bruxelles. Mentre l’Unione Europea non prendeva in considerazione i Balcani, questi diventavano il principale corridoio di entrata per l’immenso flusso di migranti provenienti dal Medio Oriente, dando così vita alla crisi migratoria che ha messo in difficoltà le istituzioni europee, a cavallo di un altro episodio piuttosto scomodo: la Brexit. Infine, come pericolo maggiore per gli obiettivi di Bruxelles nella regione, sono arrivati gli investimenti e l’interesse di tre attori internazionali non indifferenti: Russia, Turchia e Cina. Ognuno dei tre ha nella zona un proprio modo di agire e specifici progetti. È utile quindi analizzare singolarmente ogni Paese. Partendo dalla Russia, che nell’area balcanica ha sin dai tempi della guerra giocato un ruolo cruciale, per poi proseguire nel post-conflitto come supporto principale della Serbia, soprattutto nella delicata questione Kosovo, essendo insieme alla Cina, uno dei due Paesi del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite a non aver ancora riconosciuto il Kosovo come Stato indipendente. Mosca inoltre gioca un ruolo cruciale nei Balcani dal punto di vista dei rifornimenti, per il grande flusso energetico che mette a disposizione. Vi è inoltre un legame di tipo identitario con alcuni popoli della penisola, i quali si sentono molto vicini alla Russia, come serbi, macedoni e bulgari, che ne condividono la religione. Restando sul tema del legame identitario, a beneficiare di questa comunanza è la Turchia, la quale porta avanti la dottrina del “neo-ottomanesimo”, cercando di espandere la propria influenza soprattutto nei Paesi come Bosnia e Kosovo, grazie proprio alla condivisione della religione islamica. Due Paesi nei quali l’intenzione di Ankara è quella di investire in maniera massiccia. Inoltre, negli ultimi tempi, il governo turco ha intensificato i contatti e i rapporti commerciali con Belgrado, la capitale serba che dovrebbe essere collegata a Sarajevo, grazie ad un’autostrada o una superstrada. Ad occuparsene sarà proprio la Turchia, che potrebbe in questo modo giocare un ruolo decisivo da intermediario nel miglioramento e nel riavvicinamento dei rapporti tra serbi e bosniaci musulmani. Ma se questo della strada è ancora un progetto teorico, tra Belgrado e Ankara gli accordi commerciali vanno a gonfie vele, con un volume che avrebbe sfiorato il miliardo di dollari nel 2016, secondo i dati OEC. I maggiori settori che legano i due Paesi al momento sono quello metallurgico, tessile e alimentare. Per quanto riguarda il Kosovo invece, la Turchia è, insieme alla Svizzera, il Paese straniero che più ha investito nel giovane Paese balcanico. È di opera turca l’autostrada che collega Prishtina all’Albania. Ma Ankara non si limita ad investire nello sviluppo infrastrutturale, bensì anche nel campo culturale, nel quale si è impegnata a ristrutturare diverse opere ottomane presenti sul territorio kosovaro, chiedendo inoltre di rivedere nei testi scolastici la descrizione dell’impero ottomano. Parallelamente alla politica voluta da Erdogan a Prishtina, c’è stata negli ultimi anni l’apertura di diversi istituti scolastici privati sul territorio, ad opera delle fondazioni vicine a Gülen, nemico numero uno di Erdogan, il quale continua a chiedere la chiusura di queste scuole, le quali sono state nel frattempo fatte costruire anche in Albania, Bosnia e Macedonia. Istituti che nel tempo sono diventati sempre più aperti al mondo internazionale, dove le èlite decidono di mandare i propri figli, come per esempio il presidente del Kosovo Thaçi. L’ultimo dei tre protagonisti è la Cina, l’unico Paese a non avere alcun legame identitario con la zona. Particolare di poco conto, in quanto i cinesi sembrano interessati esclusivamente a fare business. La destinazione principale delle loro attenzioni fino a questo  momento è stata la Serbia, dove il denaro di Pechino non è arrivato in forma di investimenti, ma di prestiti. La presenza degli asiatici viene vista come un fatto positivo sia per lo sviluppo, sia per avere un maggiore consenso sulla causa Kosovo. A giocare un ruolo determinante è la posizione geografica della penisola, che permette di fare da collegamento a quella che sarà la nuova via della seta. I cinesi sono interessati ad esportare il più possibile in Europa e per farlo, hanno bisogno dei migliori collegamenti. Ma le volontà della Cina non si fermano qui, in quanto sempre in Serbia, hanno già acquistato diverse aziende e programmano l’apertura di centri di produzione di beni cinesi. Politica questa, che potrebbe portare diversi vantaggi per Belgrado. C’è da considerare anche il rovescio della medaglia, perché se questo interesse ad investire nel territorio è una buona notizia, d’altra parte, le azioni cinesi sono caratterizzate da poca trasparenza, dall’assenza di appalti pubblici e del mancato rispetto degli standard richiesti dall’UE. Terreno fertile che permette al problema principale che affligge i Balcani di ampliarsi, ovvero la corruzione. Concentrandosi ora invece su quella data, il 2025, evidenziato da Juncker come possibile anno della svolta, viene da chiedersi quanto possa essere fattibile e plausibile un’entrata di tutti e sette gli Stati balcanici nell’UE. I problemi sono diversi e non di poco conto, per citarne alcuni, in Paesi come Albania, Bosnia e Kosovo, la popolazione pensa ancora a come lasciare la propria terra per cercare un futuro migliore in Europa. Il numero di richiedenti asilo albanesi nell’ultimo anno è diminuito, ma 22mila richieste sono ancora una cifra importante. In Bosnia invece, pare che nessuno voglia vedere il problema dello svuotamento del Paese, nell’ultimo anno sarebbero state 150mila le persone ad essersene andate. D’altro canto c’è invece la corruzione, immenso grattacapo per tutti i paesi. Poi vi sono le questioni politiche, come per esempio il miglioramento dei rapporti tra Prishtina e Belgrado, punto fermo richiesto da Bruxelles. Mentre l’Albania deve assolutamente trasformare in realtà la tanto attesa riforma della giustizia. Infine la Macedonia deve risolvere la questione che riguarda il suo nome, con la vicina Grecia. Da questa situazione di forte interesse per la zona balcanica potrebbero trarne beneficio gli investimenti che i tre attori esterni sarebbero pronti ad emettere, cifre importanti che l’Unione Europea al momento non è in grado di permettersi. Questa intrusione esterna sta allo stesso tempo allarmando Bruxelles, che vuole subito ricorre ai ripari per ritornare ad essere il protagonista principale nella penisola balcanica. I governi, dalla loro parte, dovrebbero impegnarsi nel risolvere i problemi interni e permettere alla popolazione di poter vivere stabilmente nella loro terra madre. Successivamente, con quella che potrebbe essere l’integrazione europea e gli investimenti turchi, cinesi e russi, i Balcani potrebbero seriamente rifiorire e diventare importanti in tutti i campi.

Bambino kosovaro che rovista nella spazzatura per cercare vestiti e avanzi di cibo.

Kosovo: l’indipendenza corrotta

di Gëzim Qadraku È il 17 febbraio 2008, quando a Prishtina il Parlamento kosovaro, riunitosi in una seduta straordinaria, dichiara la propria indipendenza dalla Serbia. Da ex regione autonoma della Jugoslavia, il Kosovo diventa uno Stato indipendente. La dichiarazione viene sottoscritta da tutti i deputati presenti in aula, eccezion fatta, ovviamente, per i rappresentanti della minoranza serba, i quali decidono di non presentarsi neanche. In aula viene esposta la nuova bandiera, su uno sfondo blu compare il profilo della nazione di colore giallo, sopra il quale vi sono sei stelle bianche che simboleggiano le sei comunità etniche presenti sul territorio: albanesi, serbi, turchi, bosniaci, rom e gorani. Un richiamo diretto all’Europa. Inoltre, per la prima volta in assoluto, viene intonato anche l’inno nazionale, che non prevede alcun testo. Il Kosovo entra ufficialmente nella Storia, diventando uno Stato indipendente. Il Kosovo è uno Stato orgoglioso, indipendente e libero. Hashim Thaci Trascorsi dieci anni dalla sua nascita, il piccolo Stato balcanico ha ricevuto, ad oggi, 115 riconoscimenti diplomatici come Stato indipendente. Andando nel dettaglio dei riconoscimenti, questi sono arrivati dal 58% degli Stati che fanno parte delle Nazioni Unite, per quanto riguarda invece l’Unione Europa, sono cinque i Paesi che non lo hanno ancora riconosciuto, e quattro sono membri della NATO. Col passare degli anni sono arrivati riconoscimenti importantissimi da enti internazionali, due su tutti, FIFA e UEFA, che hanno permesso agli atleti kosovari di partecipare a competizioni come le qualificazioni per il mondiale di calcio, le Olimpiadi di Rio de Janeiro del 2014, nelle quali è arrivata la prima, storica, medaglia d’oro. Conquistata dalla judoka Majilinda Kelmendi. E pochi giorni fa la bandiera kosovara ha sfilato anche alla parata d’inaugurazione dei giochi olimpici invernali che si stanno tenendo in Corea del Sud. Il caso della Catalogna ha fatto riemergere in molti l’attenzione sulla questione del Kosovo. Motivo principale per il quale da Madrid non è ancora arrivato il riconoscimento per Prishtina, in quanto dalla Spagna vedono una certa somiglianza tra la condizione catalana e quella kosovara. Proprio pochi giorni fa la Spagna ha ribadito alla Commissione Europea la propria visione sul Kosovo, dichiarando che “Il Kosovo non fa parte del processo di allargamento, ma va trattato come un caso particolare“. Occorre innanzitutto ricordare che la popolazione albanese del Kosovo è stata vittima di una guerra, 1998-99, nella quale l’intenzione di Milosevic era quella di fare della ex-regione autonoma parte della Serbia, liberandosi così della popolazione maggioritaria albanese, che ne costituisce il 90%. Fatti, questi, che non sussistono al momento a Barcellona e dintorni. Sulla dichiarazione di indipendenza kosovara si è dichiarata la Corte di giustizia internazionale, affermando che essa non viola né il diritto internazionale, né la risoluzione 1244, né tantomeno il quadro costituzionale vigente dal giorno della proclamazione stabilito dall’UNMIK. Lavoro della Corte che si è concluso in questo modo, senza che l’organo abbia dichiarato nulla per quanto riguarda il quesito se il Kosovo sia uno Stato legittimo, allo stesso tempo non ha dato alcun via libera agli altri stati per riconoscere Prishtina. Noi oggi siamo accettati da 115 paesi come Stato indipendente. Questo è un successo notevole. Ma per quanto riguarda la coesione interna, siamo ben lontani dalle aspettative. Albin Kurti Per la nascita del più giovane Stato d’Europa un ruolo decisivo e fondamentale, è stato quello degli Stati Uniti, sin dai tempi della guerra. Molto probabilmente il Kosovo non sarebbe sopravvissuto, senza l’intervento statunitense. Impegno che viene tutt’oggi ricordato dalla popolazione, con strade intitolate ad esponenti americani e la statua nella capitale in onore all’ex presidente americano Bill Clinton. Supporto nei confronti degli USA che non ha è diminuito neanche dopo l’elezione di Donald Trump. Posizione, quella di Washington, che però non è sempre stato di appoggio nei confronti di Prishtina e dintorni. Basti ricordare che prima del conflitto gli Stati Uniti consideravano l’Uçk (l’esercito di liberazione kosovaro) un’organizzazione terroristica, per poi cambiare idea e diventarne partner. Significativo cambio di rotta che venne chiarito dalle azioni di Washington nel piccolo Stato dopo la fine della guerra, con l’installazione di quella che è la base americana più grande del mondo, Camp Bondsteel, ben 955 acri di terreno. Successivamente è iniziata una politica di privatizzazione, che ha visto gli USA protagonisti di primo piano, i quali tentarono inizialmente di accaparrarsi la PTK, la società di telefonia pubblica del Kosovo, ma poi si tirarono indietro, senza però lasciarsi scappare altre occasioni come le risorse minerarie e l’oleodotto. Insomma, per gli americani la strada in Kosovo è sempre aperta. Quello della privatizzazione è un argomento cruciale per il destino del Kosovo, infatti, dal giorno dell’indipendenza, è stata adottata questa politica di vendita delle principali proprietà statali a prezzi di saldo, come se queste appartenessero ai politici, più che essere delle risorse per lo Stato e soprattutto per i cittadini. Teoricamente, laddove avviene una privatizzazione, la compagnia dovrebbe avere un miglioramento in termini di efficienza e produttività, cosa che però non sta avvenendo. L’investimento privato sembra essere diventata una scusa per poter vendere a prezzi più bassi e nei tempi minori possibili, in maniera tale che quei soldi finiscano nelle tasche degli uomini che si trovano al potere. Un processo che ha due problemi principali, il primo è la mancanza assoluta di ricerche o analisi per comprendere se la privatizzazione in un determinato caso, sia la scelta migliore; il secondo è il fatto che le caratteristiche e le differenze delle industrie e/o compagnie non sono state minimamente prese in considerazione. L’attenzione è stata data esclusivamente alle offerte degli acquirenti, per comprendere quale di queste sarebbe stata la più redditizia in termini di guadagno. Una politica che ha portato nelle casse dello Stato una cifra che si aggira intorno ai 400-500 milioni, la quale, teoricamente, sarebbe dovuta essere l’offerta per una sola delle proprietà statali. Ad oggi, la privatizzazione avrebbe dovuto portare 1-2 miliardi di euro nelle casse statali, e non la cifra irrisoria citata poc’anzi. Gli esempi più lampanti di questa politica sono le privatizzazioni della compagnia elettrica, venduta dal governo nel 2012 al gruppo turco Limak-Calik alla cifra di 26,3 milioni di euro. Una cifra irrisoria, ma che non è il punto più assurdo di questa storia, in quanto dal momento del passaggio in mano ai turchi, i cittadini kosovari hanno visto un aumento del costo della corrente elettrica e soffrono ancora di problemi con questa considerando che non hanno ancora la completa disponibilità giornaliera. E poi dell’aeroporto di Prishtina, dato in concessione per i prossimi venti anni alla cordata Limak & Airport de Lyon MAS, dal cui intervento sono previsti 100 milioni di investimenti e un allargamento di 25 mila metri quadri. Gli investimenti arrivati dall’estero in questi anni sono stati numerosi e piuttosto generosi, tanto per citarne qualcuno: Germania 292 milioni, Regno Unito 250 milioni, Svizzera 115 milioni, Slovenia 195 milioni, Austria 130 milioni. Soldi arrivati nonostante gli incentivi siano veramente pochi per investire in un paese caratterizzato da una costante instabilità politica, da un piccolo mercato domestico e da una corruzione altissima, il Kosovo si posiziona infatti al 95° posto su 197 Paesi presi in considerazione nella classifica di Transparency International. Un Paese che ha a disposizione un’enorme forza giovanile, la quale però tocca il 50% di disoccupazione. Un dato ancora peggiore è quello che riguarda le donne senza lavoro, ovvero l’80%. Numero condizionato anche da una mentalità retrograda, che vede la figura della donna soltanto come responsabile del mantenimento della casa e della crescita dei figli. Secondo il rapporto dell’agenzia statistica del Kosovo, lo stipendio medio netto nel 2016 era di 450 euro, 337 nei settori privati e 586 nei settori pubblici.Con la paga minima per gli under 35 di 130 euro e per gli over 35 di 170 euro. Per crescere economicamente il Kosovo dovrebbe concentrarsi sulle proprie infrastrutture, cercare di produrre il più possibile, per cessare di dipendere dalle importazioni. Migliorare il processo di privatizzazione, cercare di equipaggiare la propria gioventù con le abilità e le capacità richieste dal mercato. Lo Stato più giovane e uno dei più poveri d’Europa. La costante di questi dieci anni di vita è stata l’instabilità politica e la formazione di governi insicuri e incoerenti, uno su tutti l’ultimo di Ramush Haradinaj, il quale è passato dall’essere imprigionato in Francia su mandato di cattura da parte della Serbia, rischiando prima l’estradizione a Belgrado, per poi essere liberato e diventare Presidente del Consiglio dei Ministri, proprio grazie ai voti della minoranza serba, dopo che questi avevano ricevuto l’ok proprio da Belgrado. Impossibile trovare un filo logico e coerente a questa vicenda. Un Presidente del Consiglio che dalla sua dispone di 21 ministri e 82 sottosegretari e ha deciso di alzarsi il proprio stipendio a 3000 euro.  Gli ultimi tempi hanno visto una condotta rischiosa da parte delle forze al potere kosovare, le quali infatti si sono permesse di minacciare l’abrogazione della Corte Speciale per i crimini commessi dall’Esercito di Liberazione del Kosovo. Se c’era da dare un segnale che avessero qualcosa da nascondere, non avrebbero potuto fare di meglio. Sono stati 43 i deputati di maggioranza a votare la richiesta di una sessione straordinaria del Parlamento affinché fosse revocata la legge che creò la Corte nel 2015. L’intervento internazionale è stato immediato e ha permesso che la proposta venisse bloccata. Atteggiamento questo inaccettabile e spaventoso, come definito dall’Unione Europea. La classe politica sta giocando con il fuoco, in quanto sono ormai anni che non riesce a raggiungere ciò che gli è richiesto, come la definizione dei confini con il Montenegro, l’accordo di stabilizzazione con la Serbia e ora questa iniziativa non fa altro che attirare su Prishtina le ire degli attori internazionali, i quali hanno il coltello dalla parte del manico, questo è bene ricordarlo al governo Haradinaj. Dieci anni fa le speranze e i sogni erano tanti, ma poco di ciò che ci si augurava è accaduto. Il Kosovo rimane una questione che divide, a partire dalla sua indipendenza per finire alla situazione politica attuale, e soprattutto a come gli investimenti stranieri stiano conquistando il territorio, con il lasciapassare delle forze politiche. Quasi che un classe dirigente corrotta e con più di uno scheletro nell’armadio faccia comodo. Nel frattempo a subire tutto ciò, non può che essere la popolazione. Un numero altissimo di persone che negli ultimi anni ha tentato di lasciarsi alle spalle una situazione disastrosa, per cercare di costruirsi un futuro migliore in Europa, con tutte le difficoltà del caso considerando che un cittadino kosovaro necessita di un visto per poter uscire dai propri confini. Il sogno europeo è una vera e propria utopia, ed è un errore, in primis da parte di Bruxelles, dare anche la minima fiducia a Prishtina, in quanto la classe politica in questi anni non ha fatto altro che riempirsi il proprio portafoglio, lasciando in secondo piano la crescita e il miglioramento delle condizioni di vita. Dieci anni fa si urlava “New Born” e si festeggiava. Oggi le urla sono colme di rabbia e da festeggiare, è rimasto ben poco.

Oprah Winfrey.

Time’s Up: oltre le verità

di Irisa Bezhani Il premio alla carriera dato da Hollywood Foreign Press Association ad Oprah Winfrey, ed il suo successivo discorso di ringraziamento, hanno segnato un momento importante nella notte dei Golden Globes di quest’anno. Un momento di cui si continua a discutere ancora molto. Addirittura c’è chi ha osato scherzando su una ipotetica corsa alla Casa Bianca. Ma andiamo con ordine. Durante la notte dei Golden Globe 2018, tenuto il 7 gennaio al Beverly Hilton Hotel di Beverly Hills, Reese Witherspoon introduce il Premio Cecil B. de Mille alla famosa ed amatissima Oprah Winfrey, per capirci meglio la Maria de Filippi della televisione americana. Durante il discorso, Oprah sottolinea l’importanza della rappresentazione delle minoranze nei media, proprio perché si ricorda di quando da ragazzina aveva assistito agli Oscar del 1964 che videro premiato come miglior attore protagonista Sidney Poitier, il primo uomo di colore ad aggiudicarsi la statuetta nella storia del cinema, tra l’altro in un’anno importante per il movimento dei diritti civili degli afroamericani negli Stati Uniti d’America. Diciotto anni più tardi, la storia si ripete e  Poitier viene premiato con lo stesso premio, correva l’anno 1982. Il 2018 vede protagonista la Winfrey, e la signora della TV americana sa bene quanto questi momenti siano importanti ed incisive per le giovani donne nere, che come lei sognano ancora oggi dinanzi alla televisione. Una Oprah visibilmente commossa racconta nel suo elogio alle grandi figure del mondo black la storia di Recy Taylor, morta il 28 dicembre 2017, la quale nel 1944 era stata rapita, violentata da sei uomini bianchi armati per poi essere abbandonata  bendata sul ciglio di una strada, mentre faceva ritorno a casa dal gospel. Fu proprio Rosa Parks, che lavorava al NAACP (l’Associazione nazionale per la promozione delle persone di colore),  ad investigare sul suo caso; purtroppo però, gli uomini che la violentarono non vennero mai puniti. “Raccontare la propria verità è lo strumento più potente che tutti noi abbiamo” sostiene Oprah durante il suo discorso, evidenziando inoltre di come ci siano tantissime altre vittime di abuso sessuale di cui non si sapranno mai i nomi e che proprio attraverso il movimento Time’s Up che si prefigge di aiutare con un supporto economico le spese legali per tutte le vittime. Il discorso di Oprah Winfrey è stato quindi positivo, inclusivo anche nei confronti degli uomini, e con un messaggio di speranza per il futuro della società non solo americana ma anche quella di tutto il mondo. Durante la trasmissione dell’evento però, nell’account twitter di NBC, la rete che ha trasmesso la cerimonia, è comparso un tweet che riportava la scritta “Nient’altro che rispetto per il NOSTRO futuro Presidente. #Golden Globe” Il tweet è stato poi subito rimosso con la spiegazione da parte dell’emittente che si trattava di uno scherzo e che non era un commento politico. Ma poco importa, ormai il danno è fatto. Subito i giornali hanno preso a parlare di una futura corsa alla Casa Bianca di Oprah nel 2020 nonostante che durante il discorso la stessa Winfrey non avesse fatto cenno alla politica o ad una sua futura candidatura. Oprah insomma non ha dichiarato nulla in merito, ma sappiamo che due fonti anonime vicine alla magnate della televisione americana le hanno per mesi suggerito di candidarsi. Speculazioni a parte,  Oprah non si candiderà in politica. Dunque perché queste insinuazioni? Forse per preparare il pubblico ad una battaglia tra Oprah e Trump nel 2020? Il punto non è questo, piuttosto le sue parole che hanno trascinato e avvalorato il movimento #MeeToo , influenzando ed incendiando ancora il dibattito pubblico sul famoso caso Weinstein, e più in generale dei diritti civili per le donne. Il movimento #MeToo infatti prende piede dopo un famoso tweet dell’attrice Alyssa Milano che invitava le persone a rispondere con un “#meetoo” (anch’io) al suo tweet per dimostrare quanto questo problema delle molestie sessuali sia in realtà molto diffuso, e che non è solo prerogativa di Hollywood. Alyssa Milano Tweet Ma bisogna ricordare, per dovere di cronaca, che questo movimento è stato istituito nel 2007 dall’attivista Tarana Burke, la quale  presenziava ai Golden Globe. L’organizzazione no-profit, Just Be Inc. aiuta le vittime di violenza sessuale. L’opinione pubblica italiana non è stata immune all’ondata di rinnovata consapevolezza su questo tema, e così anche da noi si è parlato di molestie sessuali sia dentro che fuori l’ambiente lavorativo. Il movimento #MeToo ha avuto il merito di smascherare finalmente moltissime persone potenti e autorevoli, o presunte tali, nel proprio settore che hanno goduto dell’impunità delle loro azioni soltanto grazie alla loro fama e alla loro influenza. Si è anche parlato di una caccia alle streghe, e questa affermazione ha una sua verità, nonostante alluda ad un immaginario un po’ troppo estremo. Condannare una persona  ancor prima che sia un giudice a farlo è piuttosto pericoloso per diverse ragioni: prima di tutto si perde quel fantastico concetto giuridico che si chiama presunzione di innocenza, una volta collegata la parola molestia, o anche solo si siano levate accuse di molestia sessuale ad una persona, la sua immagine, e molto probabilmente anche la sua carriera, vengono irreversibilmente distrutte. Capita spesso che leggendo una storia, di qualunque genere essa sia, ci si sia trovati a crederla, per quanto esagerata o “gonfiata” ci sia apparsa. Ebbene, accade però che quella storia era falsa, che era stata scritta senza verificare le fonti o che era stata messa in circolazione  in mala fede, in modo da avallare la visione politica del mondo di quell’autore, pur essendo consapevole della sua infondatezza. Ma ormai il danno è fatto, per quanto quel giornale possa pubblicare tweet di correzione al proprio articolo, ormai quella storia si è insediata nella nostra mente e nessuno si metterà a leggere la correzione dei fatti. La stessa cosa accade per queste accuse: una volta letto che una donna, spesso anche protetta dall’anonimato, accusa un attore di Hollywood per molestie, si chiude lì la faccenda e si associa il nome di quell’attore allo stupro e non ci si informerà più se magari quell’accusa era fondata, se le storie erano concordate o se un processo le ha condannato o meno. Bisogna fare attenzione a questo meccanismo mediatico e fare attenzione al materiale che leggiamo magari facendo fact-checking da soli e attuando un pensiero critico per ogni singola vicenda. In secondo luogo, condanna nell’immediato una persona, che probabilmente potrebbe anche risultare innocente, porta a sminuire gli episodi veri e supportati da prove di abuso e molestie sessuali, e a buttare tutte le storie in un unico calderone senza distinguere caso per caso la gravità delle azioni perpetrate, equivalendo così la gravità di uno stupro ad una barzelletta a sfondo sessuale detta inopportunamente al lavoro. Le interazioni di tipo romantico o sessuale al lavoro esisteranno sempre, è inutile negarlo. Molte persone infatti trovano il proprio partner proprio durante le loro ore lavorative. Questo dibattito pone perciò moltissime domande: è giusto porre sullo stesso piano, dal punto di vista penale ed anche di condanna da parte dell’opinione pubblica, un commento indesiderato sull’aspetto di una persona ad una richiesta di favore sessuale in cambio di avanzamento professionale? Quanto è appropriata l’interazione sessuale o romantica sul luogo di lavoro? Credo che una forte comunicazione all’interno dell’azienda ed una dirigenza reattiva e sensibile, che sia in grado di accogliere dai dipendenti lamentele riguardanti comportamenti inappropriati da parte di una collega senza che questo temi una ritorsione o la possibilità di non essere creduto, sia fondamentale. Un intervento tempestivo potrebbe persino risolvere la questione. Ma la questione, in ultima analisi, è molto più culturale che altro. Agli uomini è sempre stato insegnato, sia direttamente che indirettamente, che è lui a dover fare il primo passo, a mandare segnali sessuali diretti. È lui il “predatore”,  è lui che dovrà insistere fino a quando quel “no” si trasformerà in un “sì”, e sarà quindi sempre lui che si prenderà le conseguenze del suo operato, che sia un rifiuto, a cui diciamocelo, noi donne siamo state abituate molto meno, oppure un’accusa di comportamento molesto a sfondo sessuale, se non sa intercettare il consenso dell’altra persona. Al contrario, alle donne è stato insegnato ad aspettare, ad essere “preda” e di conseguenza a mandare segnali sessuali indiretti, e persino quando vorremmo dire di sì, diciamo comunque no, perché non vogliamo sembrare troppo “facili”, qualsiasi cosa questo voglia dire. Ci prendiamo personalmente, quindi, molto meno rischi rispetto agli uomini, ma allo stesso tempo siamo noi, per la maggior parte, a determinare se un comportamento è molesto o no, ed è quanto basta per considerare quel comportamento molestia secondo la legge. Insomma, il discorso è complesso, ogni persona in campo si deve prendere le proprie responsabilità e gli uomini che abusano del proprio potere e status, imponendo anche in forma consensuale una donna a fargli dei favori sessuali, e più gravemente in forma non consensuale, danneggiano non solo la propria azienda, ma anche tutti gli altri lavoratori e lavoratrici che lavorano per lui che si vedono quindi tolta una possibilità di promozione leale e basata sul merito. Il problema delle molestie sessuali sul luogo di lavoro riguarda tutti. Questo sistema non è giusto per nessuno, uomini compresi.

Albania durante gli anni '70.

Albania 1970: le donne e il comunismo

di Ismete Selmanaj Mi chiamo Ismete Selmanaj, sono una cittadina italo-albanese. Sono nata a Durazzo, e come tanti miei connazionali sono emigrata in Italia nell’ormai lontano 1992, subito dopo la caduta del regime comunista di Enver Hoxha. Messina è la città che mi diede ospitalità in quegli anni bui, nella città siciliana sono nati e cresciuti i miei tre figli. Sono trascorsi più di 25 anni da quei fatti terribili che videro protagonista il mio Paese, il mio popolo, e solo oggi riesco a focalizzare in maniera nitida quel passato di cui sono stata testimone. Il partito sceglieva per me, per noi, per tutti noi. Ognuno di noi aveva un destino prestabilito, un destino che lo Stato sceglieva, e che noi tutti dovevamo compiere per il bene della collettività. Ho sempre amato la letteratura, e quando frequentavo il ginnasio in Albania ho scritto poesie e racconti riuscendo a vincere anche concorsi letterari. Ho smesso la mia passione per intraprendere gli studi universitari che il partito scelse per me. Durante il regime comunista nessuno dei giovani aveva la possibilità di compiere una scelta libera. Il partito sceglieva per me, per noi, per tutti noi. Ognuno di noi aveva un destino prestabilito, un destino che lo Stato sceglieva, e che noi tutti dovevamo compiere per il bene della collettività. Lo Stato decideva di quanti ingegneri, fisici, matematici, chimici, biologi, architetti, scienziati, economisti, pittori, e giornalisti avesse bisogno. Era chiaro a tutti che il regime focalizzava la sua attenzione sulle materie tecniche, mentre quelle umanistiche erano quasi del tutto ignorate. Gli scrittori che non si allineavano alle volontà del Partito venivano perseguitati, esclusi, denigrati, abbandonati. Lo Stato dava molta rilevanza al numero degli scrittori presenti sul territorio, quelli che obbedivano, gli scrittori del regime, venivano idolatrati, premiati affinché la loro opera fosse un encomio al regime stesso. Gli scrittori, che oggi definiremmo borderline piuttosto che non si allineavano alle volontà del Partito, venivano perseguitati, esclusi, denigrati, abbandonati in una specie di oblio. Questi scrittori venivano addirittura minacciati, oppressi dal regime molti di loro si suicidavano poiché era l’unico modo per manifestare il loro dissenso. In tutto questo quasi nessuno menziona le condizioni della donna albanese, del suo ruolo nella società, e io di questo voglio parlare. Mi chiamo Ismete Selmanaj e sono l’autrice di “Verginità Rapite”, e della storia di Mira, la protagonista del romanzo, che vi voglio raccontare.  

“Where the crows would have sung”, Photo & Reportage Elton Gllava.

I bambini di Bulqizë: se qui non ci fosse stato il cromo, i corvi avrebbero cantato!

di Gëzim Qadraku Non molti sanno che l’Albania è ricchissima di risorse minerarie quali nichel, carbone, rame e cromo, quest’ultima è in quantità e qualità molto elevata. L’Albania è stata sino al 1990 il terzo produttore mondiale mentre oggi è l’unico Paese dell’area europea che possiede giacimenti così rilevanti di cromo. Secondo l’AKBN (Agenzia Nazionale delle Risorse Naturali dell’Albania), la quantità di cromo presente sul territorio supera i 10 milioni di tonnellate. Inoltre, l’Albania, è tra i Paesi dell’area mediterranea a possedere i più importanti giacimenti di fosfato e bauxite, piuttosto le riserve lapidee. Ad oggi le attività estrattive vengono concesse dal Governo albanese a società private albanesi che fanno da ponte a quelle straniere. C’è una città in particolare in Albania, Bulqizë, al confine con la Macedonia dove la presenza di cromo è maggiormente elevata. Negli ultimi dieci anni le attività estrattive sono aumentate notevolmente, così come è aumentato il numero dei lavoratori morti sul luogo di lavoro. Ma è di un altro fatto di cui vi voglio parlare, e riguarda lo sfruttamento sul lavoro dei bambini. A Bulqizë le manifestazioni da parte della cittadinanza non mancano ma spesso queste voci vengono taciute, così come vengono taciute alla cronaca internazionale le responsabilità da parte del Governo albanese, piuttosto la mancata presa di posizione da parte delle Organizzazioni Internazionali per quanto riguarda i diritti civili e quelli del bambino. Elton Gllava, fotografo albanese che vive in Italia dal 1992, ha lavorato per quattro anni ad un reportage fotografico in cui ha denunciato le condizioni dei lavoratori, del territorio e soprattutto dello sfruttamento del lavoro minorile. Una città distrutta e ribattezzata dai suoi cittadini come la valle della morte. Le prospettive di vita di chi nasce in questo territorio sono bassissime a causa della presenza eccessiva del cromo esavalente. L’unica possibilità sarebbe quella di abbandonare la città ma le condizioni di miseria generale in cui vive quasi tutta la collettività hanno piegato questi uomini e i loro bambini al lavoro di estrazione in questi giacimenti dove molti sono coloro che trovano la morte. Nonostante Bulqizë sia un piccola città, che conta intorno ai 15 mila abitanti, la città è un punto cruciale per la ricerca e lo smistamento del cromo, grazie al quale le persone riescono a sbarcare il lunario ogni fine mese. Il 25%  del Pil albanese dipende da questa pietra, della quale vengono esportate 120.000 tonnellate l’anno, per un fatturato che si aggira intorno ai 42 milioni di dollari. Una cifra enorme, che teoricamente dovrebbe permettere a chi lavora nelle miniere di permettersi una vita piuttosto agiata, ma purtroppo non è così. Il salario dei minatori si aggira intorno ai 15 euro al giorno, cifra assolutamente insufficiente per badare a tutte le spese. Il cromo viene estratto e inviato a Durazzo, dove poi i grossisti lo vendono ad Europa e Cina. Questo  metallo viene utilizzato per creare l’acciaio inox o per cromare gli oggetti, dando loro quell’aspetto lucido. Gllava racconta attraverso le immagini le condizioni di vita dei cittadini, e quelle dei bambini che invece di vivere la loro infanzia e andare a scuola sono costretti a lavorare e aiutare i loro genitori. I bambini, come gli adulti, iniziano il turno di lavoro nelle prime ore del mattino. Nell’ultimo anno, i giornali albanesi hanno cominciato a evidenziare le problematiche che interessano l’area dei giacimenti ma senza trapelare fatti e dati che raccontano di una realtà drammatica in cui i diritti civili sono del tutto ignorati. I minatori albanesi hanno organizzato più volte manifestazioni in cui denunciavano le loro condizioni chiedendo più tutela alle istituzioni, l’aumento di salario e l’abbassamento dell’età pensionabile a 50 anni. Le proteste servono ai lavoratori per esprimere il loro dissenso al governo albanese invitandoli a prendere posizioni a riguardo di un settore che incide  in una percentuale importante sul Pil del Paese. I minatori non denunciano direttamente le morti sul lavoro poiché, come alcuni giornali albanesi sostengono, ricevono continue minacce di morte e ricatti. Elton Gllava è rimasto a stretto contatto con i cittadini di Bulqizë, instaurando con loro un rapporto di amicizia. Ne è nata così una mostra fotografica, dal titolo: “Dove i corvi avrebbero cantato”. Scelta questa, condizionata da una frase che un vecchio disse al fotografo aspettando il passaggio di un corteo funebre: “Se qui non ci fosse stato il cromo, i corvi avrebbero cantato”. Parole che danno ulteriore riprova di come questa pietra sia fondamentale per la gente di questa città e per lo stato albanese. Allo stesso tempo, fortunatamente, il lavoro onesto di professionisti Elton Gllava ci permette di comprendere a pieno la situazione ingiusta che la gente del posto e soprattutto i bambini stanno vivendo. L’auspicio è che le condizioni dei minatori possano migliorare, e che i bambini possano ritornare sui banchi di scuola, a fare ciò che dovrebbero fare a quell’età, ovvero studiare e sognare.

Anna Politkovskaja

Anna Politkovskaja, forte come la verità

di Gëzim Qadraku Il 7 ottobre scorso è stato l’undicesimo anniversario della morte di Anna Politkovskaja. La giornalista russa venne freddata a colpi di pistola mentre si trovava nell’ascensore dell’edificio nel quale abitava, a Mosca. Anna scriveva per il periodico indipendente Novaja Gazeta, e si era sempre impegnata per la difesa dei diritti umani, contro la deriva autoritaria del governo di Vladimir Putin e per la verità dei conflitti, come quello in Cecenia. Questo suo impegno le era valso premi come il Global Award di Amnesty International e il premio dell’Osce per il giornalismo e la democrazia. Oltre a questi riconoscimenti però, la realtà che lei raccontava tramite il suo superbo lavoro, l’aveva resa la giornalista da screditare e da uccidere per i signori protagonisti delle sue inchieste.  Il processo nei confronti degli esecutori materiali dell’omicidio si è concluso tre anni fa, con condanne molto dure e due ergastoli. In tutto questo però, nessuno è stato in grado di capire chi fossero stati i mandanti. Di lei rimarranno i suoi libri-inchiesta come “La Russia di Putin”,  la sua tenacia e il coraggio di cercare sempre la verità, nonostante la piena consapevolezza che questo desiderio avrebbe potuto portare alla morte. Mentre il mondo ricordava e piangeva Anna, nove giorni dopo su tutti i media rimbalzava la notizia della morte della giornalista Daphne Caruana Galizia. Una fine inaccettabile per il modo in cui è arrivata, ovvero una bomba installata sulla sua auto, che è esplosa pochi istanti dopo che la cronista si era messa in moto. Che qualcuno la volesse morta non ci sono dubbi, ora il compito molto difficile per gli investigatori è capire chi siano stati i mandanti. La Galizia aveva partecipato all’importantissima inchiesta dei Panama Papers, la quale aveva rivelato anche la corruzione del mondo politico di Malta. Le sue ultime e più importanti rivelazioni, riguardavano proprio il primo ministro maltese, Joseph Muscat e due suoi collaboratori, che sarebbero coinvolti in vendite di passaporti maltesi e soldi ricevuti dal governo dell’Azerbaijan. Ma proprio il governo maltese ha dichiarato che chiunque sarà in grado di dare informazioni certe sull’accaduto verrà premiato con un milione di dollari. Forse, questo, un semplice modo per mostrarsi volenterosi di scoprire la verità, dopo le forti pressioni ricevute dai media internazionali. La ricerca della verità ha portato ad un’altra vittima, una persona che provava a svolgere il proprio lavoro nel migliore dei modi. Esattamente come stava cercando di fare Giulio Regeni in Egitto, prima che venisse torturato e ritrovato qualche giorno dopo sul ciglio di una strada ormai privo di vita. Un ragazzo di soli 28 anni, ricercatore alla Cambridge University, che si era trasferito al Cairo per portare avanti i suoi studi sulle attività sindacali egiziane. Anche lui, sicuramente, aveva scoperto qualcosa che non doveva essere saputo ed era diventato un personaggio scomodo. Una persona da uccidere prima che rivelasse la verità, una persona per la quale non si è ancora stati in grado di scoprire chi ne abbia voluto la morte. “Una verità, quella letteraria, che è nella parola non nella persona. La verità delle parole nel nostro tempo si paga con la morte. Ci si aspetta che sia così. Ti addestri la mente che sia così. Ne sono sempre più convinto. Sopravvivere a una forte verità è un modo per generare sospetto. Le verità della parola e dell’analisi non hanno altro riscontro che la morte. Sopravvivere a una verità della parola significa sminuire la verità. Una verità della parola porta sempre una risposta del potere se è efficace. Il potere è una parola generica e sgualdrinesca. Potere istituzionale, militare, criminale, culturale, imprenditoriale. E se questa risposta non viene, la parola della nuova verità non ha ottenuto scopo. Non ha colpito. E la prova del nove per aver colpito al cuore del potere è esserne colpito al cuore. Una reazione eguale e contraria. E feroce. O si porta una verità condivisa e tutto sommato accettabile. O si porta la verità delle immagini, quella delle telecamere o delle fotografie. Verità estetiche, verità morali supportate dalle prove. O non porti verità”. Roberto Saviano, Espresso, 27 aprile 2006. Fare il giornalista è diventato un lavoro pericoloso, nel 2016 ben 9 corrispondenti sono stati uccisi, 205 aggrediti, 347 detenuti o arrestati. Si sono verificati 178 rapporti di accuse e di denunce penali; 390 rapporti di intimidazione, come abusi psicologici, molestie sessuali, trolling / cyberbullying e diffamazione; i professionisti dei media sono stati oggetto di attacchi alla proprietà 143 volte; giornalisti o fonti sono stati bloccati 299 volte e il loro lavoro è stato alterato o censurato 102 volte. Questi sono i numeri agghiaccianti del report effettuato da Mapping Media Freedom. “Lo spettro delle minacce sta crescendo, la pressione sui giornalisti è in aumento e il diritto pubblico ad un’informazione trasparente è sotto assalto. Le persone che cercano di svolgere semplicemente il proprio lavoro, vengono bersagliate come mai prima d’ora. Queste tendenze non sono di buon auspicio per il 2017”. Hannah Machlin, responsabile del progetto Mapping Media Freedom. La libertà di stampa ha raggiunto il suo punto più basso nel 2016, solo il 13% della popolazione mondiale vive in un Paese dove vige un totale libertà per i media, mentre il 45% della popolazione risiede in Stati considerati not free, alcuni di questi sono: Azerbaijan, Crimea, Cuba, Eritrea, Corea del Nord, Siria,Turkmenistan e Uzbekistan. Mentre i Paesi nei quali si stanno riscontrando i maggiori declini della libertà di stampa sono: Polonia, Turchia, Serbia, Venezuela e Ungheria. Lo scandalo del governo Azero, che avrebbe pagato in questi anni fior fior di soldi ai media di tutto il mondo e la morte della giornalista Caruana Galizia, hanno sottolineato, in questo 2017, come il mondo dell’informazione abbia sempre di più un ruolo determinante nel mondo politico e si stia trasformando in un luogo pericoloso, dove chi decide di scrivere la verità muore.