Punto Lettura

Lorenzo Marsili: Un’altra Storia è possibile. L’Utopia diventa realtà!

di Ivano Mugnaini Montalianamente, inizio dicendo ciò che questo libro non è e non vuole. Non è un libro ideologico, o meglio, non è un libro fazioso costruito su granitiche certezze che vengono fatte cadere una dopo l’altra sulla testa del lettore per spaventarlo e convincerlo a dire sì, è tutto vero. Non è una prosa poetica e non contiene favole ben scritte ma impalpabili, esteticamente impeccabili ma vuote come certe acconciature cotonate e laccate ad oltranza. Non è un libro che vuole farci ingurgitare pozioni magiche e panacee, non somiglia né ad una lunga predica né ad una di quelle televendite a metà strada tra l’Oroscopo del mago cialtronescamente improvvisato e l’elisir di lunga vita che fa campare fino a centoventisei anni e fa anche ricrescere i capelli. È un libro (e finalmente siamo al segno più, alla pars construens) che ci racconta una storia vera, documentata. Una storia di cui tutti noi siamo personaggi, siamo parte integrante della vicenda e dell’azione ed ogni gesto, ogni scelta, che lo vogliamo o meno, ha un peso sulla trama, la influenza, la orienta, la determina. Queste pagine ci dicono, anzi ci fanno vedere, tramite i racconti e i resoconti basati su fatti oggettivi, dati e statistiche, che mentre il presente si crogiola nella sabbia melmosa di minuscole beghe di potere per una sedia in più e mentre i politici si azzuffano, verbalmente e non solo, in misere sfide all’Ok Corral, il mondo, letteralmente, crolla. Fisicamente e metaforicamente. Si sfaldano i ghiacciai e franano i terreni, collassano i mercati e le finanze di intere nazioni, si dissolvono modi di vita, di convivenza, di solidarietà tra esseri umani. E loro litigano per un selfie o per un aggettivo scritto in un tweet.  Qualcuno potrebbe dire, lasciamoli nel loro brodo. Lasciamo che si azzannino tra di loro e sbraitino e sbavino, tanto alla fine escono di scena uno dopo l’altro. Atteggiamento psicologicamente comprensibile ma estremamente deleterio e con un micidiale effetto boomerang. È qui che entra in ballo il titolo del libro, La tua patria è il mondo intero. Ci è utile come punto di riferimento, è la nostra stella polare mentre scorriamo le pagine. Serve sia a ricordarci costantemente la nostra posizione sia a tracciare una rotta, la sola possibile. Se la nostra patria è il mondo intero, non possiamo lasciarli nel loro brodo. Non possiamo osservare il mondo come spettatori distratti o come turisti per caso. Perché non c’è un altro luogo dove andare, non c’è un continente diverso, ancora vergine, inesplorato. Siamo noi questo mondo, questo attimo che viviamo. E il nostro mondo e il nostro tempo sono il risultato di una lunga serie di azioni e reazioni che si sono susseguite nel corso dei secoli, sono ciò che è stato generato e plasmato dagli uomini che hanno osato dire e pensare che le cose non potevano restare come erano, e che loro, i potenti, non potevano essere lasciati a divorare e ad avvelenare un brodo che in realtà non è il loro. Non è facile estrapolare brani da questo libro. Non perché non ve ne siano di rilevanti, ma, piuttosto, per il problema contrario: ogni pagina ha un peso, una rilevanza su un discorso che si estende gradualmente, partendo da apparenti dettagli che in realtà assumono una funzione esplicativa (e anche una forza emozionale) che li colloca in primo piano e così via, in un alternarsi costante di riferimenti e notizie che arricchiscono il discorso senza mai appesantirlo, senza diventare orpelli o ornamenti. Dopo il titolo del libro, non ci troviamo di fronte ad un paragrafo bensì ad un’immagine: la foto del Giardino Zoologico di Berlino. Veniamo informati immediatamente dopo che il Giardino è stato “aperto al pubblico nel 1906. Il cancello d’ingresso unisce colonne ioniche e inferriate belle époque a motivi tradizionali e a una pianificazione cinese dei giardini. Cinque anni più tardi, nel 1911, la dinastia dei Qing viene deposta da una rivoluzione popolare. La nuova Repubblica cinese sancisce il tramonto di tremila anni di storia imperiale”. I due elementi che emergono da questo primo impatto con il libro sono essenzialmente due: l’apparato iconografico, espressione visiva della volontà di documentarsi e di documentare, e, sul piano del contenuto, la descrizione immediata, tramite un esempio concreto, del tema, del focus del volume: il cambiamento, la trasformazione, costante, universale, nel tempo e nello spazio. “Ci troviamo, tutti quanti – sostiene Marsili – nel Giardino Zoologico di Pechino. Chi in una gabbia più grande, chi in una più piccola, chi in una gabbia più comoda, chi in una più sfortunata. Ma tutti quanti alla mercé di una straordinaria trasformazione storica, economica, morale e culturale che non siamo più noi, nessuno di noi, a guidare e governare. È un mondo divenuto colonia di se stesso, incapace di scegliere in autonomia e costretto ad inseguire eventi che paiono emanare da un oramai inesistente centro imperiale”. Il libro è diviso in capitoli, ciascuno a sua volta suddiviso in paragrafi o sottosezioni, contraddistinte da un titolo, quasi sempre sintetico, essenziale, sia nella forma che nella sostanza. C’è la determinazione, il desiderio sincero, di rendere la comunicazione schietta, sincera. Se ogni interazione dialogica è una partita a scacchi, o un incontro di scherma o di lotta libera, tra un’opinione e un’idea contrapposta, tra una visione del mondo e quella contraria, orientata da e verso prospettive altre, qui si tende a rendere il gioco più leale possibile, vige la regola aurea del fair play.  Non è un thriller, questo libro. O meglio non ci vuole spaventare per il gusto di farlo, così, per mero divertimento e gusto dello spettacolo. Assomiglia, piuttosto, ad una docufiction, i cui personaggi sono gli eventi e in cui gli eventi sono le decisioni, spesso tragiche, prese da personaggi messi al potere da un regista incapace o in malafede, o da milioni di registi ignari, tragicamente disinformati: “Oramai sappiamo non solamente che i cambiamenti climatici sono reali – prosegue Marsili – ma che da questi dipendono l’organizzazione e la sopravvivenza stessa della comunità umana. È evidente come nessuno Stato nazionale sia in grado di affrontare e governare tale sfida. Ma c’è di più. È lo stesso sistema internazionale ad accelerare il cammino verso il disastro. Non solamente, come è ovvio, perché le strutture di governo basate su accordi fra Stati sovrani, ciascuno con i propri interessi di breve periodo e le proprie gelosie, appaiono sempre più incapaci di affrontare comunemente una sfida planetaria di questa portata. Ma perché proprio il sistema degli Stati nazionali produce una folle rincorsa alla ricchezza e al potere che rende le nostre società e il nostro concetto di sviluppo tragicamente dipendenti dalla distruzione del mondo”. La distruzione del mondo. È giusto riflettere con adeguata cura e lentezza su queste parole. Non possiamo e non dobbiamo lasciarle scivolare via frettolosamente come i troppi slogan da cui siamo bombardati quotidianamente. Il punto è questo: fermarsi a riflettere e combattere prima di ogni altra cosa contro la tendenza alla disinformazione. Comoda per chi la impone e la nutre, perché gli consente di lasciare le cose come stanno, conservando poltrone comode e lussuose, e comoda anche per chi la subisce, per chi la ingurgita come un pastone insapore che però riempie lo stomaco e consente di dedicarsi a cose più lievi, più effimere, pensieri usa e getta. La posizione di Marsili è chiara, ben definita, appassionatamente esposta e sentita dal profondo delle sue convinzioni. Ma, è giusto ripeterlo, non si ha mai l’impressione di addentrarsi in discorsi deliberatamente avvolti da una di quelle foschie artificiali e artificiose tipo set cinematografico anni Cinquanta. Marsili (ed è questo uno degli aspetti di maggior rilievo del libro), le nebbie, semmai, tende a diradarle, a dissolverle. Espone parole che spesso sono cose, dati di fatto, anche nel senso letterale del termine. Attinge a piene mani alla Storia, ai discorsi registrati e trascritti degli uomini di stato, dei leader, dei ministri, di chiunque si sia trovato, in vari secoli, ad avere in mano le leve del potere, della programmazione economica e sociale, delle scelte fondamentali per le nazioni, i popoli, e il pianeta. Quel “mondo intero” che torna, ineluttabile, davanti ai nostri occhi e sulle nostre spalle di emuli involontari di Atlante. Alcuni libri, saggi e romanzi ma non solo, descrivono il cataclisma, in atto o in potenza, ma lasciano che sia il lettore a identificare la causa o un possibile sbocco, una qualche soluzione. A seconda di chi legge verrà chiamato in causa il Fato (che gli antichi germanici consideravano non meno forte degli dei) oppure qualche forma di Provvidenza. Non è questo, per fortuna, che fa questo libro. L’autore si espone in prima persona, ci mette la faccia ed ha il coraggio non solo di evocare la parola Utopia ma di dichiarare che tale Utopia a ben vedere è una realtà ed è la sola strada praticabile, rebus sic stantibus. La grande scommessa che abbiamo di fronte non è, solamente, quella di modificare un sistema economico e politico ingiusto, produttore seriale di miseria e ineguaglianza. Non è, semplicemente, quella di cambiare alla radice un modello di sviluppo che espelle sempre più persone dal diritto ad una vita degna e che sta portando il nostro pianeta al collasso. Ma è tornare a correre alla velocità della luce. È riuscire a inserire la politica, e la democrazia, dietro il dispiegamento delle ali del futuro. Dove si trova la radice di questo drammatico scarto di velocità? Si trova nella contraddizione fra una storia oramai mondiale e una politica rimasta ancorata alla dimensione nazionale. Ricucire lo scarto significa superare idee, pratiche e abitudini che ci trasciniamo dietro da centinaia di anni. È questo il punto, il nocciolo del libro. Passare da una dimensione nazionale della politica e del pensiero ad una dimensione che vada oltre, che superi tali ristretti e ormai antistorici confini. A sostegno della sua tesi, nel punto culminante della sua esposizione, Marsili cita Ernest Bloch il quale in The Utopian Function of Art and Literature afferma che: “Ciò che si è perso […] è molto semplicemente la capacità di immaginare la totalità come qualcosa che potrebbe essere completamente differente […]. La mia tesi a riguardo è che ogni persona, nel suo profondo, che lo ammetta o meno, è cosciente che ciò potrebbe essere possibile o potrebbe essere differente. Non solamente che potrebbero vivere senza penuria e probabilmente senza ansia, ma che potrebbero anche vivere come uomini liberi. Ma al tempo stesso, l’apparato sociale si è indurito e ritorto contro le persone, e così, tutto ciò che appare ai loro occhi come una possibilità raggiungibile, come la possibilità evidente di una soddisfazione, si presenta a loro come radicalmente impossibile”.  Si inizia da questo assunto, da ciò che sembra, o che qualcuno vuole fare apparire, impossibile, per poi arrivare al coraggio del salto, dello scarto, della trasformazione. Nel contesto specifico, così come nel libro nella sua totalità, Marsili parte dal nodo fondamentale dell’ecologia per poi arrivare a considerazioni di respiro più ampio: “Superare gli ovvi limiti di un’azione esclusivamente nazionale a favore del clima significa in prima battuta costruire un movimento globale capace di cambiare il senso comune sulla crisi climatica. Per quanto importanti saranno le azioni che alcuni Paesi o l’Unione Europea nel suo complesso potranno prendere, sappiamo bene che i cambiamenti climatici non verranno risolti in un Paese, neppure nel più importante”. Da qui, questo libro costruito tessera per tessera come un mosaico, o come un libro giallo di Simenon, giunge non solo a darci la visione d’insieme, svelando o ribadendo il movente, il delitto e i colpevoli, ma anche a suggerire uno scenario diverso possibile, ed è questo l’elemento di novità, il valore aggiunto.  Viviamo un momento storico particolare, in cui le categorie della modernità, prima fra tutte quella dello Stato nazionale, si squagliano dinnanzi ai nostri occhi. È un momento di incertezza, di insicurezza e di rabbia, come lo è ogni momento in cui sembrano mancare una direzione, un appiglio e un punto fermo. Ma è anche un momento di straordinaria opportunità. Il momento in cui …

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In esilio: una finestra spalancata e un bosco per salvarci

di Ivano Mugnaini Ci sono libri che gli autori scrivono per gli altri allo scopo di gratificare loro stessi. E ci sono i libri che gli autori scrivono per prima cosa per loro stessi. Gli altri ci sono, perché è così e non può essere diverso da così, ma l’impressione, leggendoli, è che chi li ha scritti lo abbia dovuto fare, perché ne aveva bisogno, come si ha il bisogno a volte di aprire la finestra e prendere una boccata d’aria, oppure di salire sulla macchina e andare verso un bosco, più lontano e isolato possibile. Ecco, queste cose le puoi anche chiedere a un altro, oppure le puoi fare insieme a qualcun altro, ma non è lo stesso. Leggendo In Esilio si percepisce che il libro è una finestra spalancata e un bosco. Con una finestra si possono fare solo alcune cose: ci si può mettere in mostra, tipo balcone di qualche palazzo, con raduno oceanico sottostante o senza; si può chiacchierare con il dirimpettaio, dei Mondiali o dell’offerta della settimana della Lidl, un contapassi a pile; si può calcolare cosa succede se uno si butta davanti al negozio del macellaio; oppure si può stare lì zitti, con un sorriso che contiene tutto e il contrario di tutto, e pensare alla vita, alle cazzate e alle cose essenziali, al passato e a qualche sogno tenace che resta, a dispetto di tutto. Rimane il bosco. E in un bosco si può solo scappare e nascondersi. Per fare l’amore con una donna o per evitare certa gente che ancora oggi domina le strade e le infesta. In entrambi i casi il bosco rappresenta la salvezza. Lo sapeva perfino Cappuccetto Rosso: il bosco è salvifico, perché il lupo è mille volte meno micidiale del cacciatore, e forse anche della nonna. Le prime parole che incontriamo nel libro sono queste. Sono di Antonio Gramsci e sono tratte dai Quaderni del carcere. Se restiamo fedeli alla teoria di base, o meglio all’impressione immediata che questo sia un libro necessario, per l’autore e non solo, le prime parole non possono essere casuali né messe lì tanto per fare show. Siamo implicitamente invitati a ragionarci sopra, a sentirle dentro, confrontandole con ciò che percepiamo e con il mondo che siamo e che viviamo. La parola “crisi” in giapponese si scrive con due ideogrammi: uno significa “pericolo”, l’altro “opportunità”. Non conosco purtroppo l’idioma nipponico e non sono certo che l’affermazione sia esatta. Ma mi piace pensare che lo sia. Se non è una verità assoluta è, perlomeno, una verità poetica. E la poesia ha molto a che fare con questo libro. Questo libro la contiene, ma senza mai farla esondare nella palude melensa della retorica, del patetismo o di qualche rivolo di parole scontate e stantie. Simone Lenzi ha senso del ritmo e orecchio, anche nelle dita con cui scrive. Appena percepisce che la frase sta virando un po’ troppo verso il lirismo deteriore corregge la rotta come un abile marinaio del porto di Livorno. Con un’imprecazione e un colpo di timone, un cambio di rotta fatto di realtà nuda e cruda, di facce da marciapiede o da televisione che peggiorano all’istante la gastrite e ti fanno correre via a cercare un paio di confezioni giganti di Maalox. L’epigrafe è tratta dai Quaderni del carcere. E questo libro ci dice, anzi ci ricorda, mostrandocelo, che il carcere non è una cosa lontana nel tempo e nello spazio. Non è un palazzone distante che non ci riguarda. Nel carcere ci siamo, tutti, ciascuno a suo modo, ogni giorno che campiamo. Sarebbe bello poter dire che non è colpa nostra e che siamo innocenti. In realtà nel carcere non ci siamo messi da soli, d’accordo, ma ogni giorno abbiamo consentito che aggiungessero uno strato di calce. Anzi, più di una volta abbiamo anche dato una mano, agevolando amabilmente chi ce lo costruiva attorno, con noi dentro a chiacchierare e a guardare “la storia dei ciccioni che non riescono più ad alzarsi dalla sedia. La storia dei nani che si amano (…) Delle reginette di bellezza assassinate nella provincia americana più profonda. La storia dei cuochi vagabondi che assaggiano una brodaglia in culo al mondo e cercano di spiegarti quanto è buona(…) La storia di quelli che si trasferiscono in Italia dall’Arkansas e scoprono che in Italia non usiamo l’asciugatrice per i panni, ma non importa, adoriamo questo Paese!” e mille altre meraviglie della nostra Mirabilandia globale. Fino a che l’elenco non sfocia in una frase che interrompe il riso corrosivo e ci dice non solo quello che ci è toccato in sorte ma anche ciò che sentiamo, davvero, nel profondo. Ci dice come siamo, non solo ciò che abbiamo. Ci svela quello che alla fine siamo arrivati a volere: “La storia delle grandi invenzioni umane e la storia dell’universo, dei buchi neri, delle galassie. La storia dei file segreti della CIA, dei grandi complotti, della vita su Marte, delle civiltà aliene, la storia del mondo fra cent’anni, dopo l’Armageddon di cui si ha sempre più desiderio e sempre meno paura”. Eccoci qua. Come la lettera rubata di Edgar Allan Poe, in bella vista, nell’elenco delle amenità micidiali è presente un sunto della situazione e un progetto di fuga. Giunti a questo punto, sommersi fino al collo da oggetti e immagini tanto innocui e insulsi da risultare annichilenti, l’Armageddon tutto sommato diventa un Luna Park, e l’impressione è che pur di scappare dalla simpatica routine che si strozza saremmo disposti a mangiare, altrove, quintali di zucchero filato avvelenato. Purché, appunto, sia lontano, sia da qualche altra parte, sia forma e spazio di esilio vivibile. La prima frase dell’autore che incontriamo in questo libro, quella con cui ci viene incontro e ci accoglie è: “Questa non è una storia. È un invito a guardare di nuovo il cielo di notte, in estate, come si faceva da ragazzi, quando cercavamo di riconoscere il disegno delle costellazioni. Non è una storia, perché le storie le abbiamo viste già tutte in televisione, per tutte le sere di questa nostra prematura vecchiaia in cui abbiamo smesso di uscire a guardare il cielo d’estate e siamo rimasti seduti sul divano ad ascoltare, a osservare milioni di storie che ci scorrevano davanti”. Una decina di pagine oltre, dopo avere elencato una quantità di scene prive di senso e di bellezza di cui ci nutriamo e a cui veniamo dati in pasto, Lenzi ci offre una chiave, o meglio ci dice di più, aggiunge un indizio, un segnale lungo la litoranea piena di curve che ci conduce verso il sogno o verso uno spazio sgombro e silenzioso: “alla fine non restava altro che la fine stessa in un cielo immensamente vuoto. Ecco, questo è un invito a indovinare la fine di un cielo immensamente vuoto in una notte d’estate”. Poco oltre, altre due indicazioni generose, di non scarso rilievo, come a lasciare una traccia per poter essere seguito, se non raggiunto, lungo il cammino: “Io non so che fine faccio – scrive Lenzi – e neanche so dire esattamente quando ho cominciato a fare la fine che faccio. Ma sono certo che sto facendo una fine. D’altronde, è quasi più facile capire che fine fanno gli altri”. Voilà: si è, anche nella fuga, sulla via dell’esilio, inesorabilmente soli e inesorabilmente in compagnia. Solo che è più difficile vederci vivere, come diceva Luigi da Girgenti , quello dei Sei personaggi e delle Maschere nude. È più difficile vedere la nostra stessa vita. Guardarla può voler dire rimanere risucchiati nell’abisso o in una risata sconfinata. Allora non resta che ragionare sulla mancanza di ragione che poi in fondo è il solo modo di sfuggire ai denti acuminati della logica, della consequenzialità: “Mi vengono in mente episodi apparentemente insignificanti, che forse non c’entrano l’uno con l’altro, ma che si presentano insieme alla memoria”, aggiunge. E qui entriamo in ballo noi. O meglio, tocca a noi provare ad accelerare il passo e cercare di cogliere un po’ più da vicino l’espressione di Lenzi, sempre a metà strada tra serietà e ironia; serissima l’ironia, e quanto mai amaramente ironica la serietà. Tocca a noi prendere tra le mani e soppesare quel vocabolo che sembra piccolo e accessorio e che invece è essenziale, nel paragrafo citato, nel libro intero e in tutta l’arte degna di tale nome. Il vocabolo formato mignon è quel “forse”. La parola quasi magica che ci fa rimuginare e pensare che, in realtà, gli episodi apparentemente insignificanti a ben vedere non sono insignificanti per nulla, e c’entrano, anzi “ci combinano”, l’uno con l’altro, e non solo l’uno con l’altro ma anche con noi, sì, noi, che inseguiamo a qualche passo di distanza, smarriti nel nostro personale percorso e con addosso la calce della nostra individuale galera di un colore appena diverso. Non avrebbe senso scrivere un libro che escluda chi lo legge, così come non avrebbe senso scrivere un libro in cui non venga messo, seppure tra filtri e dighe, qualcosa dell’autore, la parte più vera. E allora, dietro il filtro metaforico della storia di Lot che lascia Sodoma con moglie e figlie, ecco la frase che nasce dalla parte nuda e esposta, là dove ogni pensiero scava e fa male e bene, e uccide o salva sul serio: “Però una cosa in comune con la storia di Lot c’è, dissi a mia moglie, ed è che io devo andarmene sul serio da qui. Quindi bada bene che se ti volgerai indietro a rimpiangere la città, verrai trasformata in una statua di sale e io ti lascerò lì (…) Pensiamoci bene: devo andare in esilio, ma se tu non vuoi, possiamo anche non farne di niente. E tanto ormai esco di casa cinque minuti. Posso continuare”. Anche in questo caso l’espressione di Lenzi, sia della parola che dei lineamenti del viso che intuiamo, è di precisione millimetrica. Non dice “voglio andare in esilio”. Dice devo. E nello spazio che separa questi due verbi c’è tutto il mondo, il suo e il nostro. Si perché anche molti di noi ormai escono di casa cinque minuti al giorno. E anche molti di noi, a questo punto, non hanno una vita sociale neppure su Facebook. L’umorismo di Lenzi non fa mai sconti. Non assomiglia a quello del guascone del bar che urla e sbraita e ti prende a pacche sulle spalle mentre ti spinge verso il bancone raccontandoti una specie di barzelletta sconclusionata di cui tutto sommato capisci poco e ti frega ancora di meno. L’umorismo di Lenzi, al contrario, ti fa ridere quel tanto che basta per farti capire che da ridere c’è poco o niente. E quella che ti racconta Lenzi non è una barzelletta, almeno che non si voglia considerare barzelletta la vita. Ma forse è più corretto definirla freddura, o meglio ancora fregatura. Lenzi non ti trascina verso alcun balcone, non cerca applausi e risate a cuor leggero, assordanti e stordenti. Parla, piuttosto, con voce nitida ma senza urlare. Per farsi ascoltare solo da chi è realmente interessato, chi si ritrova nel tono, nella trama, nelle maglie della stessa rete, della stessa inferriata della stessa prigione. Sembra volerci dire, voi ridete, ma la mia voglia di fuggire è vera e nasce da cose che sono diverse dalle vostre, anche se in fondo vogliamo scappare tutti. Io non vi voglio insegnare niente, tranne una storia che non è una storia e che è tutto ciò che ho. La condivido con chi come me pensa che ognuno è soltanto se stesso ma è anche tutti gli altri, tutti i sentieri che attraversano altri terreni ma in fondo nascono dalla stessa palude e sognano la stessa radura più sana e pulita. Per far questo, lo strumento di Lenzi, anche nel senso musicale del termine, qui in queste pagine è la capacità di modulare i registri, passando dal colto al quotidiano, non per scelta, per necessità. Perché la complessità del mondo richiede di saper cogliere e accogliere dentro di sé il sublime, l’etereo e il tangibile, ciò che si tocca con le mani e fa …

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Giovanni Falcone: le parole che cambiarono il mondo

di Ivano Mugnaini Le motivazioni per scrivere un libro possono essere le più svariate. Si può scrivere per vanità, per fare soldi, per fare scena, per rendere ipertrofico il proprio ego e il proprio curriculum e per mille altri impulsi e sfizi. Si può scrivere però anche per necessità, per la volontà di fare chiarezza, fuori e dentro. Questo volume si inserisce nella categoria dei libri necessari, con alcune specificità di rilievo. In genere chi scrive tende a farsi ascoltare. Perfino gli scrittori più riservati ad un certo momento salgono sopra un palcoscenico, se non addirittura in cattedra, ed espongono il proprio punto di vista sul mondo, la propria verità. Molto più rari sono quelli che rendono le proprie pagine un luogo di ascolto, prima che di discorso o di comizio. In questo volume Giommaria Monti ha saputo compiere un esercizio di non poco conto: mettere da parte il proprio ego per rendersi cassa di risonanza più attenta e più precisa. Di modo che ogni fatto, ogni ricordo, ogni emozione, risuonasse nitida, ineluttabile, inesorabile richiamo alla mente e al cuore, a quella coscienza che, in tali condizioni, diventa essa stessa concreta e vibrante, non più soltanto una bella e vuota parola. La chiave del libro forse è proprio in questo contrasto, questa battaglia che poi, in fondo, riassume bene il senso della vita e del lavoro compiuto dai due protagonisti: fare sì che le parole non siano soltanto vuote emissioni di fiato o grafemi posti in bella copia sopra un foglio di carta. La parola è un gesto, qualcosa che ha un effetto sulla realtà, sulla nostra vita. Questo vale per tutte le parole ma in particolar modo per quelle che hanno un maggior peso specifico: verità, libertà, giustizia e tutti i vocaboli ad esse correlati, semanticamente e nella pratica quotidiana del vivere civile. Monti, coerentemente, per rispetto alle persone che hanno ispirato il suo libro, ha fatto sì che anche il suo racconto fosse intessuto di parole vere. E di facce vere. Quelle che sono state autenticamente vicine a Falcone e Borsellino, quelle che non hanno mai cambiato lineamenti ed espressioni, anche quando tutto era contro i due magistrati, tutto, compreso lo Stato che avrebbe dovuto sostenerli. Leggendo il libro di Giommaria Monti cogliamo soprattutto queste due caratteristiche, le percepiamo in modo forte: la capacità di ascolto e il coraggio di metterci la faccia. Schierandosi, prendendo parte ad una lotta che non è mai finita, prosegue giorno per giorno, sulle strade e nelle teste, nella mentalità di ciascuno di noi. In molti romanzi l’eroe è solo. Perché deve costruire il proprio mondo, portare a termine quella Bildung che lo renderà un essere umano completo. Per rendere più ampio e intenso l’ascolto, questo libro estende il proprio raggio espressivo coinvolgendo altre forme di percezione e quindi di interazione, di confronto e dialogo interiore. Parte distinta ma integrante del libro è il CD con la cronaca sinfonica “Il coraggio della solitudine”. La parola si fa musica e voce. Al libretto scritto dallo stesso Monti si affiancano le note di Stefano Fonzi e la recitazione di Fabiana Sera e Luca Ward. Il richiamo all’ascolto è completo, evoca altri sensi, in ogni accezione possibile, favorisce e richiede l’emozione dell’immedesimazione, immersione in un tempo e in una realtà che diventano ineludibili, vicini, anzi, è opportuno ribadirlo, attuali. I “Dieci anni di solitudine” che campeggiano nel titolo del libro diventano nel CD “Il coraggio della solitudine”. È un modo più lirico per riassumere il concetto portante del libro, anzi, la sostanza, l’essenza. La solitudine si può subire oppure scegliere. Può capitare in sorte o essere un rifugio, un luogo di ritiro, buono oppure annichilente. Nel caso di Falcone e Borsellino la solitudine è stata un atto di coraggio. Una presa di posizione di cui sapevano, fin dall’inizio, di dover pagare le conseguenze. In molti romanzi l’eroe è solo. Perché deve costruire il proprio mondo, portare a termine quella Bildung che lo renderà un essere umano completo. È solo perché la solitudine lo rende fragile e tuttavia forte, riconoscibile, accattivante per il lettore. Questo libro però affonda le radici nella realtà, scava oltre la superficie, perfino di quella del mito e della narrazione. Ci sono vari richiami e riferimenti letterari e cinematografici, ci sono capitoli che hanno per titolo “Anonimo palermitano” oppure “Bersaglio mobile”, ad esempio. Ma qui tutto è in funzione della verità. La suggestione, il sogno, il mito, sono utilizzati per dare forza e colore a ciò che più preme: mostrare la micidiale efficienza di certi meccanismi del potere, criminale e non solo, nell’ostacolare chiunque osi provare a cambiare lo status quo, in modo fattivo, non solamente con proclami tanto altisonanti quanto innocui. La solitudine di Falcone e Borsellino nasce da questa loro diversità, potremmo dire dalla loro specificità genetica. Erano uomini di fatti, di azioni concrete. La parola era lo strumento del loro lavoro, l’utensile, il mezzo per arrivare a fare cose, per cambiare un scenario che chiunque, anche chi avrebbe dovuto combatterlo, considerava intoccabile, cristallizzato, assolutamente sacro nella sua incancrenita immobilità. Falcone e Borsellino sono vissuti, e morti, da soli, con a fianco quei pochissimi che li amavano e li proteggevano sul serio. Hanno osato affermare che le cose andavano fatte e non dette, per potere cambiare la situazione. Ecco perché, lo ricorda Franco Di Mare nella prefazione, Giovanni Falcone (ma il discorso vale anche per Borsellino) “fu calunniato, sbeffeggiato, umiliato nel suo lavoro”. Ed è emblematica la specificazione “nel suo lavoro”. In tal modo la dignità dell’uomo viene a combaciare con quello a cui si dedicava con tutto se stesso. Annientare lui, per i suoi nemici di ogni fronte, volevo dire uccidere l’idea stessa che le cose potessero essere modificate, diventando altro, qualcosa di nuovo. Il Gattopardo diventa Iena. La vicenda si ripete, solo in apparenza diversa da se stessa, nei decenni. La data è il 23 maggio 1992, il luogo è Capaci. Perfino la Storia sembra voler fare la romanziera, rivestendo tutto di un alone fittizio, pronto ad evaporare nella nebbia di un ricordo. Quel nome “Capaci”, scelto con cura, quasi un macabro messaggio, urlato, deflagrato. Siamo capaci di tutto, siamo in grado di distruggere tutto, anche i migliori dei vostri, i più coraggiosi, gli uomini non i quaquaraquà. Questo era e in fondo ancora è l’intento criminale. Ecco allora che questo libro conferma la sua utilità, il suo scopo e il suo senso. Nega la cancellazione. Sia quella dovuta all’azione del tempo, al potere corrosivo e in qualche modo edulcorante della memoria, e, con uguale vigore, nega che l’opera di distruzione abbia avuto successo. Anche dopo Capaci e via D’Amelio, Falcone e Borsellino restano, sono presenti, qui ed ora. Non per un dono generoso della nostra memoria, ma, al contrario, per il dono che hanno fatto loro a se stessi, a noi, al senso del loro lavoro e al concetto di Stato e di giustizia. Restano per quella tenace precisione e cura che hanno saputo mettere in ciò che facevano. Per quel rifiuto dell’approssimazione e dell’improvvisazione che da sempre sono il terreno di coltura di tutti i peggiori virus del nostro Paese. Sono stati chirurghi, ostacolati, colpiti nelle braccia ad ogni gesto, eppure in grado di non fermarsi, di proseguire l’opera di estirpazione finché hanno potuto, fino all’ultimo. La solitudine non creò mai a Giovanni momenti di ripensamento, la voglia di dire basta. Dobbiamo far presto, mi disse prima di morire. Perché è in gioco la nostra democrazia. Questo libro è utile per l’approccio che propone, è giusto ribadirlo. Le testimonianze di Maria Falcone e Rita Borsellino, e di molti altri, giudici e magistrati, sono lucide, mai patetiche, mai offuscate dal dolore. Di certo le loro voci sarebbero piaciute ai loro fratelli e ai loro amici e colleghi più veri. E probabilmente Falcone e Borsellino di questo libro avrebbero apprezzato la cura della documentazione, quella stessa precisione a loro cara, quella volontà di dare unitarietà a voci diverse, tendendo a raccogliere persone attorno ad un progetto condiviso da ciascuno. Il racconto di Giommaria Monti, e a fianco ad esso la cronaca sinfonica, come osserva ancora Franco Di Mare, servono a trasmettere quel “carico di emozione che rischia di diventare rabbia e incredulità”. Riflettere su ciò che è accaduto, o riviverlo, è un modo per ragionare su quell’epoca e, di riflesso, sulla nostra. Su ciò che grazie a quei due uomini è cambiato e su ciò che ancora deve cambiare. Questo libro contiene una narrazione di fatti, avvincente come un romanzo, un racconto in cui ogni singola voce è individuale e corale. È un mosaico di testimonianze e di documenti, date, giorni, sfumature del cielo e dell’umore, della mente e del cuore, passi compiuti sui pavimenti dei palazzi e sulle strade polverose. È composto da molti tasselli posti uno a fianco all’altro con lentezza e passione, direi con amore. Amore per il lavoro della scrittura e della cronaca e amore per la verità, per quello sguardo che alla fine emerge, una volta accostati con tutti con cura i lati e gli angoli. Un sguardo che lacera dentro ma squarcia anche il velo di menzogne e di accomodanti bugie imbellettate di retorica. Questa pagine sono costituite, anche, da questa opera figurativa posta in atto per restituirci due volti autentici e le loro voci. E il volume è sinfonico, proprio per fare da contrappunto a quella solitudine che campeggia nel titolo. La sinfonia è fatta di suoni, note differenti che si uniscono. Sono quelle degli autori dei testi e delle musica del libro e della cronaca ma sono anche quelle di chi, leggendo e ascoltando, si ritrova a dover esprimere una sensazione, uno stato d’animo, con se stesso e con gli altri. “Quando Falcone arrivò a Palermo si aprì una stagione di sangue senza fine, dove era necessario stare da una parte o dall’altra e, soprattutto, dirlo pubblicamente. (…) Nelle pagine che riportiamo, il consigliere istruttore racconta di come l’allora presidente della Corte d’appello (già procuratore generale) Giovanni Pizzillo fosse preoccupatissimo per questo giovane giudice arrivato da Trapani che stava “rovinando l’economia siciliana”. (…) Alcuni condomini di Falcone in via Notarbartolo (sì, proprio lo stabile dove adesso c’è “l’albero Falcone”) scrissero al Giornale di Sicilia per esprimere il loro timore che, in caso di attentato, ci potessero andare di mezzo loro che non c’entravano niente. Come se, quella di Giovanni Falcone contro la mafia, fosse una guerra privata. La lettera venne pubblicata senza commenti; mentre un’altra missiva, inviata da una signora che si premurava di far sapere che pagava regolarmente le tasse, fu corredata da brevi dichiarazioni di alcuni protagonisti, tra cui lo stesso Falcone. «Se ne dispiacque tanto, Giovanni, di reazioni come questa» racconta la sorella Maria al giornalista Francesco La Licata, nella splendida biografia di Giovanni Falcone, «che non erano poi poche o isolate e soprattutto furono utilizzate per orchestrare la campagna di discredito che sarebbe montata da lì a poco. Si rattristava per l’ostilità della gente. A quella dei politici, dei colleghi o degli avversari si stava abituando e la considerava inevitabile, ma, se gli attacchi venivano dalle persone comuni, gli pesavano. È per questo che penso sempre come, alla fine, mio fratello sia stato praticamente condannato a una vita triste. Era solo, in questa guerra» Come si ricava anche da questo brano, come da molti altri di cui è intessuto il libro, i fatti si intrecciano alle parole, fino a diventare un corpo unico: fragile, esposto, e tuttavia tenace. Ci si ritrova, leggendo questo libro, a confrontare la nostra solitudine con quella dei protagonisti del racconto. Concludendo, forse, che nel nostro bellissimo e peculiare Paese, il solo modo per andare avanti è quello di adottare la stessa “tecnica” di Falcone e Borsellino: la tenacia del lavoro, la coerenza, a qualunque costo, con quel gusto dell’esattezza, della precisione, della volontà di distinguere volto da volto, colore da colore. “La solitudine non creò mai a Giovanni momenti di ripensamento, la voglia di dire basta. Dobbiamo far presto, mi disse prima di morire. Perché è in gioco la nostra democrazia”. Ecco, queste …

Giovanni Falcone: le parole che cambiarono il mondo Leggi tutto »

Verginità Rapite, di Ismete Selmanaj, Bonfirraro Editore

Verginità rapite: storia di Mira

Il romanzo “Verginità Rapite”, adottato come testo di studio alla Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Palermo, oltre ad essere inserito come testo di lettura nelle decine di Istituti e scuole di Sicilia nell’ambito di un progetto del MIUR “Libriamoci, letture ad alta voce”, nonché finalista del Premio Letterario Giornalistico Piersanti Mattarella 2017. La storia racconta di una ragazza albanese, Mira, che diventerà molto presto donna. Mira trascorre l’adolescenza nell’Albania comunista tra la fine degli anni ’70 e l’inizio degli anni ’80. A seguito di una violenza da parte del segretario del Partito della scuola rimane incinta, ed è costretta ad allontanarsi dalla sua famiglia per non disonorarla. Queste situazioni le cambieranno radicalmente la vita ma non le impediranno, una volta diventata una donna, di perseguire i suoi progetti per costruirsi un futuro migliore. Quando molti anni dopo, ex compagno Estref, l’aguzzino di Mira, afferma che: “Mira è una donna che mette le ali alle donne”, questo è il più grande riscatto di Mira e di tutte le altre donne abusate e maltrattate. Questo è il momento del grande cambiamento; l’aguzzino che ha paura della sua vittima, la quale ha preso consapevolezza di non essere debole, fragile e sola, ma forte, vincente e coraggiosa.  […] In quel momento, Mira pensò che sarebbe stato meglio essere morta piuttosto che sentire una cosa simile. Non aveva ancora compiuto sedici anni ed era incinta. Anche se non si fosse suicidata sarebbe morta per mano di suo padre. Mira sapeva che l’avrebbe fatto. Ma, assieme a lei, sarebbe morto anche il bambino. In quegli anni l’omicidio per onore, che non era ammesso dalla legge, conferiva il diritto ai maschi disonorati della famiglia della ragazza di ripristinare l’onore immediatamente. Secondo un codice non scritto, l’onore della famiglia dipendeva dalla verginità o dalla castità della donna. Quando la perdita della verginità era evidente a causa di una gravidanza, uno dei maschi della famiglia poteva anche uccidere la ragazza. Vi erano stati casi simili e lo Stato si era limitato a punizioni minime. In tal maniera, questo gesto, veniva quasi legalizzato. L’onore veniva così subito riacquistato, mentre gli uccisori venivano visti come uomini veri che difendevano l’onore della famiglia. Le leggi scritte, di volta in volta, subiscono modifiche, mentre quelle non scritte non muoiono facilmente. Mira non pensava più a sé, ma al bambino. Avrebbe fatto il possibile per salvare quella creatura innocente. L’istinto più atavico e naturale del mondo le suggeriva di difendere anche con la propria vita la creatura che aveva dentro di sé. L’istinto della madre rappresenta ciò che ha condotto e che ancora conduce la vita da milioni e milioni di anni. I ricordi di Mira di quel giorno sono come avvolti dalla nebbia; prima l’arrivo a casa, l’entrata in stanza, il padre che si toglie la cintura dei pantaloni. Senza dire alcuna parola, aveva cominciato a colpirla. Mira, istintivamente, pensava solo a proteggere il suo ventre, il luogo ove stava suo figlio. Il padre la colpiva con quanta forza poteva. «Meglio che tu sia morta, che piena di vergogna! Ci hai rovinati, maledetta svergognata, eri così vogliosa di un uomo, ma adesso ti farò conoscere io il vero uomo» e continuava a colpirla. Mira pensò che la fine fosse vicina. La madre si avvicinò impaurita al marito. «La stai uccidendo, basta!» e si parò davanti a Mira. «Non hai ancora capito? Ammazzerò lei e quel bastardo che le ha fatto questo. Questa è una vergogna che non posso accettare. Preferisco marcire in carcere, ma solo dopo aver riottenuto il mio onore. Se vuoi rimanere lì, fa’ pure, ma vi giuro sugli ideali del Partito che vi ucciderò entrambe» e prese a colpire Mira e la madre che la stava proteggendo. L’istinto materno trionfò anche in quell’ambiente lugubre, in quella mentalità arretrata in seno ad un’ideologia folle. Mira, nel sentire il padre giurare sugli ideali del Partito, ebbe un colpo. “No, non è giusto”, pensò tra sé, “io e il mio bambino moriremo e il pervertito che mi ha procurato tutto ciò rimarrà vivo, mentre mio padre continua a urlare lodi al suo Partito”. Con uno sforzo notevole riuscì ad alzarsi in piedi. Il padre, quando la vide sollevarsi senza alcuna lacrima e con occhi rivolti verso di lui, ebbe un fremito alla mano. La osservò inebetito e forse solo in quel momento realizzò che veramente stava uccidendo la sua piccola Mira, la sua dolce Mira. «È il tuo Partito ad avermi fatto questo!» gli disse Mira con decisione. Sia la madre che il padre non capirono nulla. La madre parlò per prima, approfittando dell’esitazione del marito. Ella sapeva bene che il marito avrebbe dato anche la propria vita per il Partito. «Cosa vuoi dire con questo?» chiese a Mira; quindi mormorò al marito di sedersi. Mira pensò a come dirlo, ma in quel momento non aveva alcunché da perdere, doveva condurre la discussione alla sua fine. «Sono stata stuprata e violentata dal compagno Estref» dichiarò infine. Mira ebbe molte difficoltà ad interpretare le facce dei suoi genitori. Nei loro sguardi si potevano leggere sfiducia, stupore, odio e compassione. «Non può essere vero!» disse il padre per primo. Mira si aspettava quella risposta. La sua dedizione al Partito, ai suoi membri e soprattutto al Primo Segretario del Comitato di Partito nel distretto era piena e sincera. Non poteva aspettarsi una tale ricompensa. «Lo posso giurare… è accaduto nel suo ufficio, non sto mentendo» continuò Mira implorante. «Perché non l’hai detto subito?» proseguì il padre. «Avevo molta paura» disse Mira cominciando a tremare. «Paura? – intervenne la madre. – Paura di noi?». Per Mira era una domanda molto difficile e facile nello stesso tempo. La verità facile era che aveva paura dei suoi genitori, della loro possibile reazione per quello che le era successo, ma anche dei pettegolezzi delle persone. Alla gente non importava molto il fatto accaduto, ma il vergognoso risultato conseguito da una giovane ragazza. La verità difficile era un’altra. «Avevo paura del compagno Estref. Mi ha detto che, se l’avessi raccontato, si sarebbe vendicato». «E come si sarebbe vendicato?» domandò il padre. «Mi disse che si sarebbe vendicato così come aveva fatto con Nikoleta e la sua famiglia» rispose Mira e raccontò loro cosa Estref le aveva detto. Il padre ascoltava e, sebbene una parte di lui non volesse crederci, sapeva che tutto ciò che Mira aveva detto loro era vero. Ricordava piuttosto bene la storia di Nikoleta e della sua famiglia. Allora, quando aveva saputo che erano stati arrestati per agitazione e propaganda, era rimasto stupefatto, ma non aveva pensato che in quella storia Estref avesse avuto un ruolo. Si alzò in piedi e cominciò a camminare nella stanza come un leone in gabbia. «Ammazzerò quella bestia! ‒ esplose infine il padre con voce intrisa di odio – Così non farà più male a nessuno». «Sei impazzito? – urlò la moglie – Torna in te! Vuoi ammazzare il Primo Segretario del Comitato di Partito nel distretto. E tu poi dove finirai? Verrai condannato a morte!». «Non mi interessa che mi condannino a morte. Dopo quello che è accaduto, io sono già morto» mormorò il padre con disperazione. «Ma a noi non ci pensi? Finiremo tutti internati e nelle carceri!» e nel pronunciare quelle parole, la madre di Mira cominciò a piangere. Il padre di Mira sapeva che sarebbe andata a finire in quel modo. Se avesse fatto quello che aveva in mente, lo Stato-Partito l’avrebbe punito con la morte, senza nemmeno dargli la possibilità di certificare quello che era accaduto a Mira. La sua famiglia chissà dove sarebbe finita… Si sarebbe sentito una nullità poiché non sarebbe nemmeno riuscito a difendere la dignità di sua figlia pur sapendo chi l’avesse violentata. Per la prima volta vide come la dittatura del proletariato, che tanto aveva lodato e supportato, gli si stava rivoltando contro senza pietà alcuna. Questo era il mostruoso sistema che il regime aveva innalzato per tenere il popolo sottomesso. Prima o poi, anche coloro che avevano dato il loro contributo senza eguali per costruirlo, sarebbero stati annientati e schiacciati. Mira non aveva mai visto suo padre piangere. Lo vide quel giorno, ma si comportò come se non fosse successo. Il compagno Estref, in fondo, li aveva violentati tutti.

Raffaele Gaito.

Raffaele Gaito: il #GrowthHacker italiano

di Ivano Mugnaini Scrivere una nota di lettura su questo libro senza essere un addetto ai lavori è una scommessa che confina con la follia. Anzi, il confine lo supera serenamente senza curarsi delle urla delle guardie di frontiera. Scriverò qui le mie impressioni di lettore, di profano del settore ma utente del web, curatore di un sito e di un blog e appassionato di tutto ciò che è tecnologia. In genere scrivo recensioni per libri di narrativa o poesia. In questa occasione mi trovo a parlare di un libro che tratta di tecniche specifiche e di strumenti finalizzati alla crescita del business. Un noto magistrato e uomo politico avrebbe sicuramente esclamato “che c’azzecca?!”, a questo punto. La risposta che nasce spontanea è “niente”. Un’analisi più accurata invece tende a modificare notevolmente di segno la risposta fino a farla giungere all’estremo opposto. Dopo aver letto il libro di Raffaele Gaito mi è venuto spontaneo affermare che c’azzecca molto. Nel processo di modifica a cui si è fatto cenno, e nelle modalità con cui si è attuato, sono contenuti alcuni dei termini fondamentali della questione: l’analisi accurata, innanzitutto, e la capacità di sorprendersi, e di sorprendere, accogliendo l’inatteso, l’elemento fuori schema che sa essere catalizzatore e creatore di energie nuove, nuovi punti di vista e prospettive potenziali per le idee e per le azioni che le rendono fattive, adatte al contesto e, quindi, di successo.  Faccio un passo indietro per mettere a confronto alcuni dei cardini della scrittura letteraria con quello che ho trovato in questo libro incentrato sul Growth Hacking. La narrativa tende ad “affabulare”, a creare attesa, attenzione, concentrazione ed empatia. Ossia, si tende a immedesimarsi con ciò che accade, si confronta la propria esperienza personale con quella dei personaggi e si è portati a chiedersi costantemente come ci si sarebbe comportanti di fronte ad un problema identico o ad un simile esigenza e circostanza. La poesia, sia a livello di linguaggio che di pensiero, tende alla sintesi, a cogliere un aspetto o un simbolo che racchiuda in sé la conciliazione di due aspetti contrastanti, oppure coglie qualcosa di inatteso, scardina la routine e gli schemi consolidati e porta ad una comunicazione rapida e densa, una specie di cortocircuito. Ecco, nel libro di Gaito c’è la capacità di catturare l’attenzione e la volontà di suggerire percorsi nuovi, non per il semplice gusto di prendere strade traverse ma per la consapevolezza che quei percorsi possono rendere il passo rapido e condurre a terreni fertili e assolati.  Growth Hacker è un libro scritto con la necessaria chiarezza, in modo razionale e ben organizzato. Ma non è un libro noioso, non è un manuale freddo e distaccato. È, al contrario, un modo per trasmettere a chi legge lo stesso entusiasmo che ha consentito all’autore di scoprire quelle metodiche ma soprattutto quella forma mentale che lo hanno ispirato e guidato fino ad essere nelle condizioni di poter scrivere un libro sull’argomento specifico. La presente frase, complessa e ondivaga, mira ad esprimere in realtà un concetto molto lineare: Gaito parla con i propri lettori di ciò che sa fare bene, di ciò in cui ha avuto ed ha successo, con e grazie all’entusiasmo e alla passione che lo ha ispirato. Tutto ciò si percepisce. Il tono non è quello di chi tratta una materia fredda, aliena. È quello di chi ancora oggi scopre, sperimenta, e, starei per dire, anzi, lo dico, si diverte. Un gioco serio, in cui sono in ballo tanti soldini e la sorte di molti individui e aziende. Ma pur sempre un gioco nell’accezione più vera e più nobile del termine: la sfida, con se stessi e con il mercato, con gli ostacoli dell’immobilismo e della burocrazia, con la concorrenza vasta e agguerrita, con un sistema che non sempre tende a premiare intelligenza e capacità di innovazione. Eppure, si sa, quando il gioco si fa duro… Con estrema serietà, ma senza mai smettere di sorridere, Gaito chiama in causa i suoi lettori, li avverte che per vincere serviranno attenzione scrupolosa alle regole e alle strategie che le rispettano e le superano, li avvisa che ci vorrà molto coraggio e anche una giusta dose di faccia tosta, e, non ultimo, rende chiaro che nessun manuale potrà mai bastare se non c’è immensa passione, dedizione, tecnica e fantasia. Il linguaggio del libro è denso di termini in inglese, necessari, come strumenti specifici non sostituibili. Non c’è mai però un indulgere compiaciuto né un ammiccamento come a voler limitare il più possibile la cerchia dei “sacerdoti egizi” in grado di comprendere i sacri geroglifici. Ogni termine tecnico ha una sua funzione e viene sempre adeguatamente sviscerato ed esplicitato in modo da renderlo comprensibile e quindi fruibile a chiunque. Il libro ha, potremmo dire, nella successione accurata e progressiva dei paragrafi, una sua “trama”. Un punto di partenza e uno di arrivo, un esordio e un finale. L’epilogo, se tutto verrà accuratamente ed efficacemente assimilato, sarà la creazione di soggetti consapevoli e competitivi sul mercato. Accadrà la realizzazione di strategie di successo e la realizzazione di startup in grado di ritagliarsi spazi e conquistare i mercati. Una definizione, e quindi un fatto puramente linguistico e comunicativo, offre forse una delle chiavi più efficaci per interpretare lo spirito, l’intento e la natura del libro. Il termine “startup” non viene associato a nuova iniziativa o a realtà emergente e via dicendo. Viene esplicitato identificandolo in modo immediato con un concetto che è anche una realtà concreta: la crescita. Non si tratta di una distinzione di poco conto. Indica il focus del libro: non la limitata attenzione sullo scontato e sul già ampiamente metabolizzato ma, al contrario, la ricerca di un nuovo modo di vedere, puntando ad orizzonti più ampi. Il libro abbina precisione tecnica e capacità di comunicazione. La consapevolezza è che la sfida si svolge soprattutto dell’ambito del “come”. Non basta fare, necessita saper dire quello che si fa, perché e in che modo, appunto. La forma è sostanza. E altrettanto necessario è sapere innovare senza scordare la forza della tradizione, come diceva lo storico dell’economia Carlo Cipolla “L’Italia ha successo nel produrre all’ombra dei campanili cose che piacciono al mondo. Tuttavia, oggi per parlare con il mondo abbiamo bisogno di solcare nuove strade, nuove acque, cammini che potranno essere percorsi con sicurezza dai pirati della crescita”. In termini essenziali, questo libro parla di una rivoluzione; incruenta e in grado di offrire spazi e territori a tutti senza creare riserve indiane e stragi di nativi, e questa rivoluzione si chiama #growthhacking. Nato tra i coworking della Silicon Valley, dove startup con poche risorse erano costrette a fare numeri da capogiro per convincere i loro investitori, il growth hacking ha pian piano invaso aziende di ogni tipo. Piccole e grandi. Hi-tech e non. Ha portato all’interno di esse un approccio completamente nuovo al marketing, un approccio esclusivamente data-driven e basato al 100% su esperimenti. Questo libro, quindi, è il racconto di questa rivoluzione, ma è anche uno dei mezzi per realizzarla, uno strumento, un’arma incruenta con cui ogni lettore può portarla avanti. Tra i vari capitoli ci sono episodi realmente accaduti, storie vere di piccole startup che sono diventate colossi. Il valore è monetizzazione, vantaggio economico, ma è anche patrimonio di conoscenza, trasmissibile, ereditabile, un patrimonio personale e condivisibile. L’Odissea e l’Iliade dei nostri giorni. L’approdo è un ‘isola in cui condurre un commercio florido e di successo essendo allo stesso tempo al sicuro dai pirati e aperti alla comunicazione e allo scambio con tutte le rotte commerciali più vive e interessanti. Non è tuttavia un approccio favolistico e arcadico quello proposto da Gaito: il libro non nasconde che per giungere alla meta sono necessari impegno e volontà. E non descrive il Growth Hacking come panacea di tutti i mali o come la pietra di paragone. Descrive con oggettività le potenzialità dello strumento, indicando che se ben utilizzato può fornire vantaggi tangibili. Gaito ci informa che, a differenza di ciò che accade oltreoceano, nel nostro paese il growth hacking è un fenomeno relativamente recente e in progressiva crescita. Proprio per questa ragione comprenderne i meccanismi e utilizzarli adeguatamente può essere estremamente utile e proficuo: “Comprendere il growth hacking è, a mio avviso, uno step fondamentale per avere un concreto vantaggio competitivo nei confronti dei propri competitor e per lavorare alla crescita del proprio business in maniera metodologica, quasi scientifica, senza lasciare nulla al caso. Quello che ho fatto è stato di provare a mettermi nei panni del lettore e dargli uno strumento sia strategico che operativo basandomi sull’esperienza personale accumulata con progetti miei, quelli dei miei clienti e dei miei studenti. Avendo un unico obiettivo in mente: creare valore per chi lo legge!” Il valore è monetizzazione, vantaggio economico, ma è anche patrimonio di conoscenza, trasmissibile, ereditabile, un patrimonio personale e condivisibile. Questa considerazione ci riporta al dubbio iniziale di questa mia breve disanima: ossia se un profano possa o meno approcciarsi a questo libro. In termini più ampi riguarda la potenziale audience, i destinatari di questo volume. Con molta chiarezza ci viene detto, anzi raccontato anche questo. O meglio, viene messo in pratica: “questo libro è rivolto a chiunque abbia un business, non necessariamente digitale. È rivolto ai founder delle startup, ma anche agli imprenditori tradizionali. È rivolto ai marketer, sia ai free-lance sia alle agenzie. È rivolto a tutti quelli che nella propria azienda si occupano di marketing o di prodotto. È rivolto a tutti gli studenti che si affacciano ora al mondo del lavoro e vogliono investire su uno dei trend principali del marketing e del business”. In pratica, possiamo dire, questo libro è rivolto a tutti. E lo sarà ancora di più negli anni a venire, quando la tecnologia svolgerà un ruolo sempre più ampio e determinante, non solo nel commercio ma nella vita di tutti i giorni. Quando vita e business saranno legati in modo ancora più stretto dal filo del web, dalla connessione on line. Tutti noi abbiamo l’intento di promuovere un’idea, un prodotto, un’iniziativa. Non di rado quell’idea e quel prodotto siamo noi stessi. Non in senso metaforico ma in senso stretto. Promuoviamo ciò che pensiamo e ciò che facciamo, i pensieri resi intento comunicativo, metodica e strategia per incuriosire, attrarre, catturare attenzione e generare passione, entusiasmo. Questo libro parla di tutto ciò. È un lungo e dettagliato racconto su come trasformare le idee in qualcosa che cattura lo sguardo e la mente degli altri. Qui si parla specificamente di clienti, ma potremmo anche dire lettori, comunicatori, partner, ricettori all’altro lato del filo invisibile ma vibrante della comunicazione. Chiudo questo excursus facendo riferimento a un episodio narrato nelle pagine iniziali che rende bene il gusto (è il caso di dirlo) e il senso di ciò che il libro fa e invita a fare. L’episodio fa riferimento ad una gara, il Nathan’s Hot Dog Eating Contest, il cui vincitore è colui che riesce a divorare il maggior numero di hot dog in un tempo prestabilito. Per farla breve, Takeru Kobayashi, un giovanotto giapponese neppure troppo corpulento riesce non solo a sbaragliare la concorrenza ma a polverizzare tutti i record precedenti. Non diventando più veloce ma cambiando totalmente la tecnica: separando i wurstel dal panino e ammorbidendo il pane con l’acqua. Con un nuovo approccio e senza violare il regolamento, riesce a stravincere. Ecco, questo libro è una lunga, divertita, serissima e appassionata spiegazione del modo in cui imitare Takeru Kobayashi. Senza dannarsi ingoiando lavoro inutilmente fino a soffocarsi. Ma imparando piuttosto a capire come fare per comprendere a fondo le regole e inventando nuovi metodi per innovarle. Si vince con il cervello, non con i muscoli e le mandibole. Kobayashi ha masticato più con le meningi che con i denti. Lo stesso faranno i lettori di questo libro. Che si tratti di hot dog o di fette di mercato, imprese e business, lo scopo è lo stesso: battere la concorrenza. Ciò che conta è il mindset, la filosofia. E la storia, la trama di questo libro, riguarda proprio questo: il modo in cui rendere la filosofia pratica concreta. [/vc_column_text][/vc_column][/vc_row]

Vins Gallico - Fabio Lucaferri, La barriera, Fandango, Roma, 2017

“La barriera” il romanzo sull’inconsistenza della nostra mente

di Ivano Mugnaini Il primo e decisivo passo compiuto da Vins Gallico e Fabio Lucaferri è l’umanizzazione: far capire che in questo libro non si parla di numeri, di statistiche, di esempi astratti e proiezioni su grafici teorici. Non si parla di neppure di personaggi letterari. Si parla di uomini, esseri umani. In quest’ottica i dettagli, le minuzie, le caratteristiche in apparenza inconsistenti, le fragilità, i vizi, le manie, gli oroscopi, gli ascendenti, il gioco del calcio, i luoghi e le cose, contribuiscono a definire una persona, a fare da specchio, facendoci identificare per analogia o per contrasto, dando forma a un riflesso in cui possiamo e dobbiamo guardarci. Da queste infinite tessere differenti si delineano i contorni di un mosaico: il mondo così com’è. Sarebbe bello poter dire che è così solamente nella finzione, ma è proprio questo il nodo, la sfida e il senso di questa narrazione. C’è una data precisa, il 2029. Indicata con chiarezza, su un’agenda ipotetica ma ineludibile. Una data che appare lontana, eppure conosciamo i ritmi e le cadenze del tempo: quel traguardo è a un passo. C’è la descrizione di un pianeta che è una polveriera, e un solo luogo ancora conserva una parvenza di ordine e vivibilità: il più ricco potente d’Europa, la Germania. Si salva dal caos imperante, ma a quale prezzo? Cosa si si è costretti a pagare in termini di libertà e dignità umana per avere protezione? Lo sfondo del romanzo è quello descritto in questo breve sunto, arricchito da intrecci ulteriori di vite e di destini e dal vibrare di trame sotterranee, intrighi, astuzie e controastuzie, corruzione, scontri, fughe, ostacoli e macchinazioni di ogni genere. Mentre ci si muove rapidissimamente da un episodio all’altro, si assimila gradualmente, potremmo dire nel sudore della tensione e della rincorsa, il messaggio sottobraccio, la verità nascosta al di la della barriera, anche narrativa: il futuro apocalittico descritto nel romanzo in gran parte lo stiamo già vivendo. Lo intravvediamo, ci viene tatuato addosso una goccia alla volta, ogni volta che in televisione all’ora di cena assistiamo a quelle trasmissioni inesorabilmente mandate in onda ogni singolo giorno, ferragosto compreso. Quelle in cui in ci dicono, scrivendolo a caratteri cubitali sullo schermo del piccolo-grande-fratello, che siamo minacciati, che verremo schiacciati e che ci ammazzeranno tutti se le porte, tutte quante, non le chiudiamo. Se non ci chiudiamo. Per rendere questo senso di oppressione il romanzo adotta un ritmo che non lascia respiro: è la versione narrativa di un film d’avventura, con attraversamenti di terre desolate, città e confini, nuotate da campione olimpionico, corse di velocità e di resistenza, centometristi e mezzofondisti. Ma il vero protagonista, muto ed eloquentissimo, è lo sfondo: il mondo, il solo luogo che abbiamo, il giardino recintato a mo’ di gabbia. Il linguaggio è rapido, frenetico ma preciso. Nessuna frase è buttata là solo per fare conversazione, nessun dettaglio è meramente descrittivo. Tutto è finalizzato a fornirci i dati essenziali di un manuale di sopravvivenza, un docufilm girato a ritmi serrati in cui si mostrano mosse e contromosse, lo scontro tra le regole annichilenti del potere e la volontà di restare vivi. I diritti naturali nello scenario descritto non sono più garantiti, devono essere riconquistati in una corsa da maratoneta e il premio finale, i diamanti da salvare, sono la dignità e la libertà. Gli aguzzini qui non sono meno appariscenti di quelli descritti nel film di John Schlesinger con Dustin Hoffman e Laurence Olivier. Sono burocrati in apparenza scialbi, e questo li rende perfino più temibili. In questo romanzo si arriva a far sì che siano le vittime a dover anelare di essere marchiati. Il tatuaggio l’identity matrix, è la meta per cui si è disposti a fare di tutto. Ci si getta da soli nella gabbia camuffata da luogo stabile e sicuro. Si procede nel libro, guardandosi anche alle spalle: la Germania, il Muro, Schindler’s List, Le vite degli altri e mille istantanee immagazzinate nella memoria riprendono vita e si intrecciano ad un futuro che è ipotesi più che plausibile e a un presente che è già dato di fatto vissuto. In un circolo che avvolge e soffoca: con la burocrazia che uccide la dignità senza neppure sporcarsi le mani. I capitoli del libro sono nomi di persona, luoghi e date. Quasi a confermare che ciò che ancora conta è l’equazione spazio-tempo, la possibilità di continuare a conservare la nostra identità a dispetto del mutare delle epoche e dei luoghi. O, meglio, saperla conservare lottando giorno dopo giorno per l’evoluzione, la sopravvivenza della specie autentica, quella specie umana che è costretta a difendere il proprio diritto alla diversità, al pensiero autonomo, alle scelte fondamentali, non ultime la sete di giustizia e di amore. Moltissimi sono i riferimenti a situazioni che conosciamo bene e con cui interagiamo quotidianamente. Nel 2029 ci sarà ancora Facebook e ci saranno tatuaggi, ma diventeranno macabre immagini di una gigantesca schedatura collettiva. Ci sarà ancora il sesso. Ma quello descritto nel libro è rapido e quasi incolore. La passione e la gioia sono al di là della barriera. Una delle sensazioni che le pagine trasmettono è che si potrà tornare ad assaporare tutto davvero fino in fondo solo quando la corsa per la sopravvivenza potrà essere interrotta. Coerentemente, nel libro c’è poco spazio per le divagazioni “liriche” e perfino per le pause descrittive. La solo poesia possibile nel contesto raffigurato è quella dei gesti, degli sguardi rapidi d”intesa, come quelli dei naufraghi, dei fuggiaschi. Come quelli delle spie, gli infiltrati in un mondo nemico. Le occhiaie rapide di chi si riconosce affine ma non può fermarsi, per non destare attenzione. Berlino è la scenografia ideale per questa narrazione di impronta cinematografica, rapida, intensa. La Berlino di questo romanzo è una città senza cielo, riflessa nei colori scuri di un passato di ferro e di sangue, ma anche nei vetri lucidati a specchio dei palazzi altissimi e dell’arte solenne e geometrica che atterrisce e attrae, inglobando corpi e menti nelle sue strade e nelle immense periferie livide. La bellezza è cupa. Non è morta ma deve essere risvegliata. Nel momento in cui torneremo ad essere armonici, aperti e davvero liberi, ritroveremo anche le luci, i riflessi fascinosi del sole del nord. Con abilità e in modo quasi subliminale vengono messi in atto parallelismi fondamentali. L’anno descritto si colloca a distanza di un secolo esatto da quello della grande crisi finanziaria, dal crollo di Wall Street e dell’economia globale. Il futuro è adesso e il passato è uno spettro che ancora si aggira nelle case, negli uffici, nelle officine. La Germania nel 2029 ha lineamenti in comune con quella nazista, ma anche con parenti insospettabili, la Calabria del secolo scorso e con lei il Meridione attuale e tutte le mafie di ogni genere e tipo, ad ogni latitudine. Leggendo questo libro si respira a fondo, si è coinvolti anche noi in una corsa vitale, nel senso letterale del termine. La posta in palio è la più preziosa, il nostro diritto a restare umani, con tutto il bene e il male che ciò importa, con il libero arbitrio, la capacità di riconoscerci affini a chi è diverso da noi. La sfida è ardua, lo scopriamo pagina dopo pagina. L’unico spiraglio è quello offerto dal riferimento all’ideogramma orientale che esprime il concetto di “crisi” facendo riferimento simultaneamente all’idea di pericolo e a quella di opportunità. Ciò che viene descritto e collocato in un futuro prossimo è profezia che già sconfina nella realtà. La vicenda narrata ci prepara, ci invita a mantenere tonici i muscoli delle gambe e del cuore fin d’ora, anzi, proprio ora, nel presente su cui possiamo agire, mutando noi stessi, per poter guardare negli occhi il nostro volto in un volto altro, arrivato da qualche luogo del pianeta di fronte a una Barriera che esiste, ed esisterà, solo se avrà consistenza nella nostra mente.

Guido Mina di Sospiro "Sottovento e Sopravvento"

Il poliedrico e multiforme teatro della vita: un romanzo di mari, amori e misteri

di Ivano Mugnaini Mina di Sospiro gioca con le parole, con il loro mistero, con il senso e l’assenza di senso, con la vita, fatta di codici astratti e di carne palpabile e danzante, folle e assetata, a volte perfino saggiamente folle. È attratto da tutto ciò che porta e indossa la vita, sopra e sottovento, sopra e sotto i vestiti, i gesti, i sorrisi ammiccanti, l’invito a esplorare i confini e a fare un passo oltre. La vita lo incuriosisce, lo attira, gli pone di fronte uno spettacolo variegato fatto di contrasti e chiaroscuri, il sublime e il becero, il pensiero e il salto ad occhi chiusi in un vortice o in un baratro. E allora lo scrittore la osserva, la corteggia, la fa bere e la fa parlare. Ha la conferma di quanto lieve e complessa sia, la vita, e che il suo significato è una sciarada con troppe soluzioni, o forse con nessuna, o entrambe le cose assieme. Non ha bisogno del re scozzese shakespeariano per confermare e confermarci quanto la vita sia “a tale told by an idiot”. Lo sa, ne ha preso atto da tempo, ma non si è fermato, non ha rinunciato a mettere le vele al vento. Anzi, si è ripetuto, come Hölderlin, che “l’uomo è un dio quando sogna, un mendicante quando riflette”. Ma non è sceso neppure a questo porto. Con la forza dell’istinto e di un possente vitalismo ha compreso che mischiando le due componenti in giuste dosi l’uomo può essere meno misero quando pensa e meno asceticamente incorporeo quando sogna. Basta rendere vivo il sogno, aggiungendo una porzione di follia, di avventura, di sudore, di adrenalina, di paura e attrazione: tramite un viaggio, un’esplorazione, una sfida, quindi, ancora, un gioco. Sempre sapendo, con un sorriso, che non c’è niente di più intrigante e divertente del gioco, e, al tempo stesso, non c’è niente di più serio. E che il gioco non è mai gratuito, impone attenzione, coinvolgimento assoluto, per capirne le regole sancite e soprattutto quelle nascoste, le più importanti. Alla fine, bisogna essere anche disposti a perdere, a capire che non c’è niente da capire, come cantavamo negli Anni Settanta, oppure che tutto ciò che si deve comprendere è che non tutto può essere compreso, è questo è il più secco e il più dolce dei colpi di vento. La narrazione di Mina di Sospiro vive di accostamenti e contrasti. Unisce oggetti, azioni e idee come un artista materico, e non si lascia abbattere se non combaciano gli angoli, anzi, ne esulta. Sconfina con gusto, deborda e ci trascina con forza gioiosa ed esuberante a bordo di una fantasia onnivora, poliedrica, multiforme, un teatro nel teatro della vita. Il susseguirsi delle scene, delle azioni, degli spunti e degli stimoli è rapido, incalzante. L’autore mette in pratica ciò che ha scritto in suo fortunato libro sul ping pong e sulla metafisica che ne è alla base; o, meglio, applica alla scrittura anche di questa polimorfa creatura letteraria l’istinto e la ragione del gioco da lui preferito: la necessità di correre e pensare allo stesso tempo. Fino a far coincidere le due istanze, senza distinguerle, senza separarle dalla naturalezza del respiro. Perché quell’istante di riflessione fuori tempo e fuori luogo farebbe cadere a terra la pallina e con essa la magia folle della passione che tutto assorbe, dell’affabulazione che rende tutto credibile, irreale nella realtà a cui scegliamo di dare corpo. Racconto di pirati, a tratti di moderna cappa e spada, tra malviventi e personaggi ambigui, bizzarri e disperati, ma senza resa né tregua, il romanzo è mille cose insieme, mille generi, toni, rimandi e allusioni, senza compiacimento, senza ammiccamenti. Quindi, è soprattutto anzi unicamente se stesso, un pezzo unico, originale. Non da collocare in qualche museo o catalogo ma da porre costantemente in un flusso, sia esso quello della lettura che della fantasia. Romanzo on the road, sulla strada del mare, ha bisogno di moto costante, non può sostare. Racchiude posti e volti inventati e al contempo è un documento ricco di riferimenti a luoghi esistenti, il Jackson Memorial, Palm Beach, la Florida, le Antille, i Caraibi, Cuba e mille altri luoghi collocati a metà strada tra il mare e il mito. Tra le righe, ma anche dentro, nelle pieghe più sensibili, è il resoconto di un mondo che siede sulle sdraio a strisce multicolori in luoghi di lusso tra il sole e l’ombra densa di sotterfugi e intrighi, la zona morta, ma brulicante di umanità, tra legalità e crimine, disperazione, fantasia e il sogno costante di un altrove risolutivo, una mossa a sorpresa che cambia le carte e rovescia i tavoli.  Il destino, lo si sa, si nutre di logiche sbalestrate. Nella seconda parte del libro Mina di Sospiro lo fa condurre da una nave senza timone, ricca di assonanze e richiami fascinosi: “Durante questa unica e irripetibile settimana astrale, gli eventi di ogni giorno saranno influenzati e talvolta addirittura decretati dalle divinità pagane. Quali? Quelle della mitologia latina e sassone, le due culture che hanno colonizzato il nuovo mondo e che evidentemente presiedono alla pari sul mar dei Caraibi. Le stesse divinità, infine, che hanno ispirato il nome dei giorni della settimana, sia nelle lingue d’origine latina, fra le quali lo spagnolo, che in quelle d’origine sassone, fra le quali l’inglese”. Un escamotage accattivante, del tutto coerente con lo spirito e l’animo che orientano il romanzo: lo scambio costante di colpi d’approccio e di schiacciate fulminee e secche tra il caso e l’uomo, tra il rischio, la pena e il piacere di non sapere mai se saremo sopravvento o sottovento, con la sola certezza del mutare costante. Consapevoli solo che, per dirla con le parole di una delle epigrafi del libro: “Non ci sarà sortita. Tu sei dentro e la fortezza è pari all’universo dove non è diritto né rovescio né muro esterno né segreto centro”. (Jorge Luis Borges, Labirinto). Questo romanzo ci chiede una cosa difficile ed esaltante: lasciarsi andare alla corrente. Chiudere gli occhi e abbandonarsi alle onde, oppure spalancarli, ma lasciando spazio a ciò che non si vede immediatamente, a quel senso di mistero che è, la trama ce lo indicherà gradualmente, un oro che non si può afferrare con le dita, ma che non per questo è privo di peso, anzi, contiene in sé il peso del tempo e dello spazio di tutti i secoli e tutti i sogni che abbiamo fatto e che ancora saremo in grado di fare. La narrazione sui generis di Mina di Sospiro ha un potere straniante, ci porta in un luogo che non c’è ma che, improvvisamente, con un sorriso, riconosciamo come nostro: un posto dove siamo già stati, o, più esattamente, dove abbiamo immaginato di andare, e, quindi, dove siamo stati veramente. Il romanzo ci fa lo stesso effetto che Christopher Foley, uno dei personaggi del libro, esercita su Ruth, una delle partecipanti alla spedizione: “Era venuta a sapere di lui indirettamente, investigando la storia del Belize e della  barriera corallina che Chris aveva aiutato certi oceanografi a esplorare. Da quanto aveva sentito e in seguito letto su di lui, l’aveva colpita come un essere umano tanto illogico che, prima ancora d’averlo conosciuto, ne era già stranamente attratta. ≪Un tuffo nell’irrazionale≫  pensò mentre si convinceva della bontà della propria decisione, ≪ecco cosa fa per me. Ci sarà da divertirsi≫”.

Hollyweed

America, questa sconosciuta

“Hollywood” Tratto dalla serie di vignette “L’America, questa sconosciuta” dello scrittore italo-americano Guido Mina Di Sospiro, noto autore di romanzi come “La metafisica del ping-pong” e dell’ultimo “Sottovento e sopravvento” in uscita in Italia il 25 maggio con l’editore Ponte alle Grazie. Il produttore cinematografico, chiamiamolo Jack, ci accoglie sulla soglia della sua villa a Beverly Hills. Con lui un’amica, bionda e cordiale. Gli è piaciuto un mio romanzo e vuole conoscermi. Ci aspetta un Dom Pérignon ghiacciato e un’intera forma di Parmigiano-Reggiano, divisa in due. Jack è pimpante; versa champagne, taglia formaggio, racconta aneddoti, ride, scherza. Propone un giro della villa, grande e con una vista strepitosa, mia moglie con la sua amica, io con lui. Nel suo studio, fra posters di films, copioni e computers, mi fa vedere delle foto. “La mia ragazza,” spiega, una modella emergente, aspirante attrice. “La amo da morire,” aggiunge; “non è bellissima?” Ne convengo. “Ha il più bel derrière al mondo, non trovi?” “Non saprei, non li ho visti tutti.” Insiste, “È il più bel derrière del mondo, non c’è dubbio,” e mi fissa con occhi lucidi e sdrucciolevoli. Glielo concedo, come posso ripetere che non lo so? Poco più tardi, a cena in un ristorante à la page, sembra un Jack-in-the-box: continua a zompare in piedi per poi risedersi come se fosse azionato da una molla. Il motivo? Le tante stelle e stelline che saluta in modo calorosissimo. Senza volerlo, penso, quest’uomo è dotato d’una notevole vis comica. Ma ci sta riservando un trattamento di favore, e prima o poi parlerà anche del mio romanzo. Il trattamento di favore non finisce con la cena, prolungata per incontrare il maggior numero di celebrità possibile. “Vi porto nel miglior club di Hollywood,” fra Hollywood Boulevard e Vine Street, come scopriamo, angolo famoso, o famigerato. Ci aspetta una lunga coda composta principalmente da donne che sembrano uscite da Playboy. Ma, con nostro sollievo, la saltiamo: i colossali buttafuori gli fanno i salamelecchi. Interessante come in America le code siano osservate con devozione religiosa, ma come, al contempo, coloro in coda accettino di buon grado che un VIP la salti. È un effetto collaterale della venerazione delle celebrità: gli italiani provano invidia, dal latino “in-video”, che è poi il malocchio; gli americani, l’esatto opposto: ammirazione per la gente di successo, che vedono di buon’occhio, il che, incidentalmente, elimina sul nascere ogni conflitto di classe. Il club è cavernoso, con soffitti molto alti. A metà strada tra pavimento e soffitto, una rete sulla quale strisciano in perpetuo delle donne seminude. La musica tecno, piuttosto forte, scoraggia la conversazione. Il locale è pieno di gente pittoresca e le donne, come abbigliamento, non si discostano di molto da quelle sopra le nostre teste. Ci sediamo all’unico tavolo riservato. Jack ordina vodka e caviale (dopo cena?). Il caviale, mi fa notare con orgoglio parlandomi in un orecchio, “in America non si può più importare.” “E lei come fa ad averlo?” gli domando intuendo che s’aspetta proprio tale domanda.   “Ho certi contatti… ” I suoi occhi mi sembrano ancora più lucidi e sdrucciolevoli. Si alza e mi fa cenno di seguirlo. Dopo quattro passi si ferma, si gira e mi domanda: “Ti piacciono le nere?” Stavolta mi prende alla sprovvista. Sono palesemente sposato, con mia moglie a pochi metri di distanza. Ma non voglio passare per il guastafeste; rispondo: “Nere, bianche, gialle, pellirosse—le donne mi piacciono tutte.” Dev’essere la risposta giusta: mi guarda con occhi più sdrucciolevoli che mai e sorride. “Seguimi.” Poco dopo ci troviamo in una “saletta privata,” mi spiega con ammiccamenti pirateschi. Ci raggiunge un uomo. Si salutano e parlottano fra loro. “Vediamo dove si va a parare,” penso. “Senti,” mi dice Jack, “qui puoi chiedere qualunque cosa.” “Che cosa intendi dire?” “Qualunque cosa, anche la cosa più proibita, e la ottieni. Poi noi ti lasciamo in pace. Che cosa ne dici? Chiedi e ti sarà dato!” L’altro personaggio mi fissa a sua volta. Ci penso un po’ su e poi dico, “È da quando abbiamo finito di cenare che ne ho voglia…” Con lo sguardo m’incoraggiano a continuare. “Visto che me lo domandate, una richiesta l’avrei.” “Dicci.” “Vorrei fumarmi un bel sigaro.” Si guardano, spiazzati. Jack infine dice: “Non so se ci siamo capiti: ti possiamo procurare quello che vuoi, e te lo puoi godere qui, indisturbato…” “Grazie; mi basterebbe un sigaro, ce l’ho in tasca.” L’altro personaggio interviene, con voce stentorea:  “Spiacente, ma è vietato fumare, vedi?” e indica un cartello. “Sì,” rispondo, “l’ho visto, ma pensavo che una fumatina—” “Spiacente,” dice il personaggio, “ma è vietato fumare, ed è la legge. È chiaro?” Il “Vietato Fumare” in America è legge, religione, dogma. Nella saletta privata sono offerte sostanze di tutti i tipi; donne (o uomini) di tutte le razze, e chissà cos’altro. Ma fumarsi un sigaro in santa pace, è chiedere troppo.

Melania Trump

La lettera che Melania Trump forse non scriverà mai

New York, 8 novembre 2036 Cara Storia, sono Melania Knauss Trump, e all’imbrunire dei miei giorni, ti lascio le mie parole, perché i fatti sono già tuoi. Io, dal canto mio, sono sempre stata fuori tempo; le mie parole non ti sono conosciute, perché scelsi di essere ciò che volevi, sicché per principio non scelsi me. Scelsi perfino di addomesticare me stessa, per poi ritrovarmi come polvere nei tuoi libri. Mi sono arrampicata sui miei sogni, sono salita sulle passerelle di questo mondo, ho scalato le torri del potere. Ma quando ero sulla vetta, non ho più potuto nascondermi; ed è lì, che iniziò la discesa: la casa, che era bianca, finì; la torre, di cui porto il cognome, crollò; quell’infanzia povera, che con tante speranze lasciai, tornò il mio presente dall’altra parte del mondo. Sono stata disposta a essere qualcosa, per poter essere qualcuno. Ora tu mi chiedi, perché vuoti il sacco? Mi chiedi se sto cercando redenzione? Io almeno ho scelto di portare un cognome che non era il mio, stando a fianco alla scrivania del potente, e non ho accettato che qualcuna ci stesse sotto. Ma in fondo, oggi, chi se ne importa di questi piccoli dettagli; come Salomone, anche a me tutto appare vanità, per amore della mia vanità. Perché la mia vanità si formò nell’assenza della mia “non” identità. Non ho mai spiccato per qualità, ma sapevo che la bellezza è un dono, e io avevo capito bene che effetto faceva il mio corpo, che effetto facesse il mio sorriso quando posava per l’attenzione di chi mi offriva il suo valore per scambiarlo col mio. E ora tu hai anche il coraggio di presentarmi il conto? Mi dai la responsabilità di questo Mondo allo sfascio? Di questo Paese impoverito, economicamente e culturalmente? Ma è la mia vita ad essere povera e allo sfascio. Ho già pagato. Oggi nemmeno la plastica riesce a nascondere le pieghe che rigano il mio volto, e con cui ho già saldato il conto. Il mio passo è stato all’altezza della mia gamba, ma non abbastanza all’altezza del tuo appetito, perché il tuo palato raffinato si nutre soltanto delle storie dei puri, e per i quali sei disposta a farti vanto; ma io resto la virgola con cui spezzi i periodi, e per cui tu poi vai a capo. Gli antagonisti sono i veri depositari del sapere, perché accettano di portare sulla propria soma il peso concreto delle azioni, che vedono come vincitori morali i tuoi protagonisti, le cui vite tu trascrivi al fine di rendere quella storia un’azione morta; e tu, matrigna, pietrifichi quei uomini e donne rendendoli idoli, e i servi idolatri. Tu pensavi di svelarmi? Ma io con le parole che mi sono sempre negata oggi ti svelo. Per una cosa piego il capo: per non essere stata all’altezza della vita che si offriva di vivermi senza compromesso, e così che ho confuso la vita da sogno che speravo, con un reality show, ossia il sogno di qualcun altro. Melania Trump (forse)

Il migrante metafisico

“Un buon viaggiatore non sa dove va; un perfetto viaggiatore non sa da dove viene”. Questo aforisma di uno scrittore cinese è il perfetto compendio della “Metafisica del ping-pong – Un’introduzione alla filosofia perenne“ di Guido Mina di Sospiro. Guido Mina di Sospiro nato a Buenos Aires in Argentina, da famiglia italiana emigrata dopo la guerra per poi successivamente rientrare, a Milano, nel periodo del boom economico, dove ha trascorso i primi vent’anni della sua vita per poi trasferirsi nei primi anni ’80 in America, è autore bilingue di libri di successo quali “Il Libro Proibito” co-scritto con Joscelyn Godwin, “Il Fiume”, “L’albero” e altri. Nella “Metafisica del Ping-Pong – Introduzione alla filosofia perenne” Guido Mina di Sospiro si racconta “in avventure olistiche e globali in un viaggio fisico intellettuale palleggiando con Sun Tzu, Aristotele, Henry Miller, che giocò con Bob Dylan, e Arnold Schönberg, che giocava con Gershwin”. Il cammino intrapreso dall’autore in questo nuovo lavoro letterario è un cammino metafisico “un’iniziazione sciamanica” come avveniva nel XV e XVI per i Cavalieri e i Trovatori. Raimon Panikkar sosteneva in “Vita e Parole” che “la mistica come esperienza della Vita ha una valenza di genitivo sia oggettivo che soggettivo: l’esperienza (che abbiamo) della Vita e l’esperienza della Vita (che sta in noi)” e questo concetto riflette alla perfezione il viaggio che l’autore Mina di Sospiro compie nel suo “Metafisica del ping-pong” poiché “…ogni vero artista, è anche un artigiano e sa che la tecnica viene prima di tutto. Dopotutto, la parola greca téchne si traduce come “arte””. (pag. 156) L’arte opzionata come arma sacra dotata di personalità propria e psyché in questo libro è la “racchetta perfetta” che conduce l’autore a speculare con la metafisica di Platone fino ad arrivare a Benvenuto Cellini. “La differenza tra i giocatori di tennistavolo occidentali e quelli dell’Estremo Oriente consiste nel fatto che i secondi cercano il Tao consapevolmente, o almeno ci provano. Ma l’evocazione consapevole di uno stato di grazia non e un’impresa facile ed è per questo che di rado viene conseguita a comando, altrimenti tutte le partite ad alto livello sarebbero “epiche”, e non lo sono” (pag. 225) Il viaggio poliedrico di Guido Mina di Sospiro induce il lettore a meditare non utilizzando il solo linguaggio di una determinata spiritualità e portandolo ad una mutua fecondazione tra le differenti tradizioni umane. L’incontro dialogo tra ideologie e concezioni del mondo è un imperativo dell’autore che viaggia come un immigrato 2.0, un’Ulisse contemporaneo, tra culture e tradizioni senza pretendere di condurre a termine la vasta gamma dell’esperienza umana. Il dialogo come attività religiosa inteso nel senso più profondo quale la pienezza ossia il progetto della salvezza.