Editoriale

Basterebbe cambiare prospettiva sull’Europa

Ci sono popoli che continuano a guardare all’Europa come faro di civiltà, come motivo di ispirazione per condurre una terribile lotta di emancipazione dall’oppressione: il nostro problema è che invece di rispondere con orgoglio a questa chiamata, restiamo chiusi in bagno a guardarci insicuri allo specchio “Ogni grande crescita porta di fatto con sé un enorme sbriciolamento e deperimento: la sofferenza, i sintomi della decadenza appartengono alle epoche che fanno enormi passi in avanti; ogni potente o tremendo movimento dell’umanità ha creato nello stesso tempo un movimento nichilista”. Così scriveva Nietzsche. Per Gramsci invece “la crisi consiste appunto nel fatto che il vecchio muore e il nuovo non può nascere” e che, nello spazio della crisi, “si verificano i fenomeni morbosi più svariati”. È interessante leggere il presente con in mente due pensatori tanto distanti fra loro, eppure perfettamente consapevoli, ciascuno per il suo tempo, di stare vivendo un’accelerazione imprevedibile della Storia. Per noi, l’era che segue la globalizzazione, è soprattutto l’occasione di sperimentare un cambiamento per il quale le categorie interpretative con le quali abbiamo sin qui maneggiato il mondo, non sembrano più funzionare. Stiamo vivendo di fatto una profonda e repentina trasformazione, mentre sembra che nessuno abbia la ricetta giusta per rispondere ai grandi quesiti che, prima ancora di farsi specifici (modelli economici, sostenibilità, crescita demografica globale in opposizione a un invecchiamento drammatico del continente europeo, flussi migratori), interrogano il nostro stesso essere umani in una dimensione che sembra contrapporre a questo nostro stesso essere umani una sorta di dominio del non essere: siamo, per dirla con Byung-chul Han, circondati da non-cose, abbiamo non-relazioni sociali su piattaforme virtuali, investiamo in non-soldi estratti nelle non-miniere di internet, ci nutriamo di non-informazioni che non raccontato storie ma sono frammenti di uno story-telling orientato al marketing di prodotti o della politica stessa, per cui votiamo per non-partiti, per non-candidati la cui sorte è spesso quella di offrirsi, nel giro di una stagione, prima come doni della provvidenza e infine come capri espiatori. Da questo, la tentazione di uno sguardo apocalittico sul destino dell’Occidente è sicuramente seducente, per quanto non tenga conto del fatto che forse l’Occidente stesso, come terra del Tramonto, è costitutivamente destinato a un’apocalisse continua. Che anzi, paradossalmente, proprio questo essere l’Occidente come la Fenice che ricompare ogni volta dopo gli “ultimi giorni dell’umanità”, ci induce piuttosto a pensare che qualcosa ancora manchi alla riflessione di questi ultimi anni perché la politica possa tornare a parlarci seriamente del nostro destino. La mia impressione è che, nel frattempo in cui “il vecchio muore e il nuovo non può nascere”, due siano i rischi che si presentano alla riflessione che voglia tradursi in azione politica: da una parte cedere alla nostalgia, al vagheggiamento di un ritorno a mondi trapassati (un esempio che ne vale mille: l’amaro risveglio degli inglesi dopo il sogno della Brexit), dall’altra indulgere nel tipico narcisismo del senso di colpa dell’Occidente che ci porta dritti in quella notte in cui tutte le vacche sono nere. Una dimensione di relativismo etico, tanto stupida quanto autolesionista, per cui l’odio verso noi stessi ci porta a tentennare (altro esempio che ne vale mille) davanti allo scempio delle sanguinose repressioni della polizia morale di Teheran. Troppo occupati a guardarci allo specchio dei nostri compiaciuti esami di coscienza, non abbiamo più il coraggio di affermare che, molto semplicemente, una società che garantisce libertà di espressione a tutti è superiore a quella che organizza una polizia morale per vegliare sul corretto posizionamento del velo sulla testa delle donne. Mentre dunque sperimentiamo “la sofferenza” e “i sintomi della decadenza” che “appartengono alle epoche che fanno enormi passi in avanti”, ci sono popoli che continuano a guardare all’Europa come faro di civiltà, come motivo di ispirazione per condurre una terribile lotta di emancipazione dall’oppressione. Il nostro problema è dunque che invece di rispondere con orgoglio a questa chiamata, restiamo chiusi in bagno a guardarci allo specchio, come una bella donna insicura, mentre l’amante ci aspetta per strada sotto la pioggia. Basterebbe allora cambiare prospettiva per un attimo e pensare le cose per quello che sono davvero, oltre le pose intellettuali, oltre il divertimento filosofico delle profezie di sventura. Basterebbe forse comprendere che non viviamo certo nel migliore dei mondi possibili, ma si può essere abbastanza orgogliosi che tutti gli altri, al momento, se la passano peggio di noi e che, quindi in definitiva, il nostro problema non può più essere il pessimismo della ragione, ma semmai quello della volontà. In una parola, la fatica terribile di alzare il culo, e la consapevolezza che, intanto, darsi così da fare per ottenere così poco è sempre e comunque molto meglio di niente.

La sinistra del Monk

La candidata alla guida del Pd Elly Schlein ha sciolto le riserve al Monk di Roma, quartiere Portonaccio. Come a dire che con lei il Pd esce dalla Ztl e si avventura in periferia, purché la periferia si allontani un po’. La she/her/their Elly Schlein, senza tessera del PD, si è finalmente candidata alla guida del Pd. Forse non farà piacere a qualche bravo amministratore locale tesserato che, religiosamente, ha versato i suoi sette/ottomila euro nelle casse del Partito ogni anno, ma pare serva anche lì il Papa che viene da lontano. Schlein ha sciolto le sue riserve al Monk di Roma, quartiere Portonaccio. Come a dire che, con lei, il Pd esce dalla Ztl e si avventura in periferia. È una buona notizia, certo, per quanto quella del Monk sia una periferia ben gentrificata, una replica di quella comfort zone che, per la gente che piace, a Roma si incarnò nella trasformazione del Pigneto. E, infatti, al Monk non si mangia pasta al burro, ma, stando al Menu, “spaghetti artigianali al burro di bufala campana con parmigiano 36 mesi e pepe di Sichuan”. Non ci vado da anni, ma il ristorante deve essere fantastico. Il Monk si presta dunque alla narrazione del “nuovo” Pd: andare in periferia purché la periferia si sposti un pochino più in là… e non ci si mischi mai con quelli che mangiano la pasta in offerta col burro del discount. Comunque, è da lì, dal Monk, che Schlein ha tracciato la sua rotta per la nuova sinistra, tuonando innanzitutto contro il (neo)liberismo. Mi resta difficile comprendere dove la Schlein abbia visto la deriva neoliberista in Italia, considerando che oltre un quarto del valore complessivo espresso in Piazza Affari è coperto da aziende pubbliche (escludendo da questo calcolo le municipalizzate!). Ma questa è la parola d’ordine, questo è il nemico. Nel marketing politico, del resto, il neoliberismo sta alla sinistra come i migranti stanno alla destra: quando non sai che pesci prendere, se sei di sinistra te la prendi col neoliberismo, se sei di destra te la prendi coi migranti. Ed è un peccato, perché sia da una parte sia dall’altra, tutto fai pur di non cominciare a comprendere la realtà per quello che è davvero e, magari, cominciare a proporre soluzioni imperfette e sostenibili, come del resto sono e saranno sempre tutte le soluzioni umane ai problemi umani. E siccome il problema della redistribuzione della ricchezza è un problema serio, qualcosa che conoscono bene soprattutto quelli che mangiano la pasta in offerta col burro del discount, ecco che alle idee fondanti del nuovo Pd, per come dovrebbe essere secondo Schlein, si aggiunge anche la “redistribuzione dei saperi”, che non vuol dire niente, ma riempie la bocca. Alla fin fine, il punto è sempre quello ben noto a chiunque si sia occupato di impresa a qualunque livello: il marketing è indispensabile, ma ci vuole il prodotto. Se non hai il prodotto, il marketing non serve a niente. Schlein aprì infatti la strada verso la sua candidatura già durante la campagna elettorale delle politiche, quando rispose a Giorgia Meloni con la nota parodia: “Sono una donna, non sono una madre. Ma non per questo sono meno donna“. Vista da fuori, Schlein appare dunque come l’anti-Meloni studiata a tavolino. Il problema è che non si capisce cosa sarebbe in sé, chi rappresenterebbe insomma (a parte quelli che mangiano la pasta artigianale al burro di bufala campana) se non ci fosse la Meloni a farle da specchio. In fondo, dispiace che il Pd non abbia imparato niente dall’esperienza fallimentare dell’antiberlusconismo, che non abbia ancora capito che, prima di essere contro qualcuno, bisognerebbe essere per qualcosa. Ma cosa sia questo qualcosa resta ancora avvolto nella nebbia più fitta.

La dittatura, un ballo in maschera

Compagno Hoxha, Ti scrivo perché è di questi giorni un dibattito che ti ha richiamato da quell’oblio nel quale la Storia sembrava averti relegato. Tuttavia lasciami dire subito che persino l’inizio di questa lettera è, per me, piuttosto problematico: ti chiamo “compagno” per un riflesso condizionato che mi deriva dall’infanzia, ma è certo che Tu non sei mio compagno, né io voglio esserlo per te. Meglio: diciamo che, per quanto mi riguarda, avendo avuto ogni valido motivo per disilludermi per sempre della bontà di qualunque ricetta politico-sociale ispirata ai dettami del leninismo, so già che se qualcuno pretende che tu lo chiami “compagno”, è perché, nonostante i migliori propositi, ha già congegnato per te una sofisticata macchina statale in grado di tenerti in vita umiliandoti un po’ ogni giorno. Soprattutto, compagno Hoxha, quello che ancora oggi mi infastidisce del sistema che rappresentavi era l’ipocrita credenza di aver raddrizzato il legno storto dell’umanità una volta per tutte, di aver creato una società di uguali che, in realtà, erano uguali solo sulle carte della burocrazia. Vi erano infatti i ricchi e i potenti, esattamente come nell’Occidente debosciato che tanto ti terrorizzava, e i contadini che si spezzavano la schiena nei campi per mantenerli tutti. Solo che, di ricchi e potenti, ce ne erano meno, ed erano più assoggettati al sistema di potere che rappresentavi, più pronti a chinare il capo per mantenere i loro privilegi. Ad esempio, l’aristocrazia ottomana, che di aristocratico aveva poco ma che tale si sentiva, mandava i figli a studiare all’estero per poi farli tornare in Patria a ingrassare le file dell’apparato (la maggior parte di loro, ha poi trovato il modo, dopo una rapida abiura, di riciclarsi nel mondo nuovo). Noi figlie di contadini del distretto di Durazzo, invece, andavamo a prendere l’acqua alla diga col somarello, scalze, alle sei di mattina. Credo sia per questo che noi figlie di contadini del distretto di Durazzo, non sentiamo affatto la tua mancanza, compagno Hoxha. Ed è sempre per questo, immagino, che siamo anche disposte a sopportare con più pazienza le storture del sistema liberale, le mille aberrazioni dell’Occidente, contentandoci di provare a raddrizzare un po’ quel legno storto di giorno in giorno, consapevoli che si tratta di un lavoro che non avrà mai fine. E anche se non siamo esperte di Filosofia politica, di macroeconomia o di sistemi complessi, noi figlie di contadini nullatenenti di Durazzo siamo semplicemente contente di non andare più in giro col somarello alle sei di mattina, nella neve, per prendere l’acqua alla diga. Soprattutto, siamo felici di non aggirarci per le strade di polvere di una campagna disseminata di centinaia di migliaia di Bunker che tu, compagno Hoxha, avevi eretto per farci capire che eravamo soli e in guerra contro un mondo al quale di noi, in realtà, non importava assolutamente nulla. Quelle centinaia di migliaia di bunker, compagno Hoxha, erano la reificazione della paura che avevi del popolo del quale dicevi di essere il supremo difensore. Erano il pervasivo monumento in cemento armato ai demoni della cattiva coscienza, tua e dei tuoi sodali. Vedi, Compagno Hoxha, sono venticinque anni che vivo lontana dalla mia Patria, in esilio in Italia.  Sono venticinque anni che mi cerco nelle parole degli altri perché in Albania, le parole, ce le aveva sequestrate tutte la Sigurimi. Ho sempre vissuto con il pensiero costante che all’imbrunire le silhouettes dei nostri fantasmi, quelli che non abbiamo mai scacciato, possano tornare, vestite di nuovo, di rosso o di bruno, animate ancora una volta di quelle migliori intenzioni a cui fanno finta di credere e di cui è invece lastricata la strada per l’inferno dal quale sono scappata venticinque anni fa. Certo è però che, se ti scrivo, è perché la Storia sembra adesso riproporsi come farsa (sì, Compagno, sto citando Marx): se penso ai tuoi piani quinquennali per l’energia, che realizzavano il sogno autarchico dell’autosufficienza, non posso non constatare che è quello che temiamo di dover vivere adesso per non aver realizzato in tempo un vero Green New Deal, per non aver diversificato le fonti di approvvigionamento, per aver confuso l’ecologia col rifiuto tanto velleitario quanto ipocrita della modernità in nome di ogni sorta di nostalgia romantica. Così alla fine ho imparato che non c’era alcun sol dell’avvenire nella tua Albania, compagno Hoxha, e sono dovuta scappare. Qui invece ho imparato che non esiste il sogno americano, e non esiste qui perché dubito che sia mai davvero esistito anche in America. Qui ho imparato che il capitalismo italiano è piuttosto familista e relazionale, ed è difficilissimo farsi ascoltare se anche tu non sei figlia di una qualche aristocrazia ottomana (o di quella che Carlo Emilio Gadda chiamava “la migliore società Assiro Babilonese”). Vivendo in esilio, ho però imparato che la mia libertà, come donna e essere umano, vale tutta la pena di una democrazia imperfetta come questa. Diciamolo meglio: non è certo il migliore dei mondi possibili questo. È soltanto il migliore fra quelli che mi è stato dato conoscere.

Le parole hanno un peso diverso a seconda di chi le usa

Io non sono uguale a voi, sono diversa. Ma sia chiaro: ciascuna di voi può dire lo stesso. Perché siamo tutte diverse per il bagaglio personale che ogni donna si porta con sé ovunque vada: nel lavoro, nelle comunità dove risiede, in una relazione. Io sono diversa intanto perché vengo da oltre mare e mi sono dovuta conquistare una cittadinanza in un paese, questo, che adesso è il mio paese, quello dove vivo, lavoro e nel quale pago le tasse: tutte le tasse. E tuttavia sono diversa anche oltre questa circostanza, perché nessuna di noi, e neanche io, può determinarsi soltanto sulla base delle esperienze che ha fatto, o magari ha subito. Piuttosto, sono le scelte che ha fatto a determinarla. Perché questo siamo: le nostre scelte, il prezzo che paghiamo per compierle. Le parole stesse che usiamo per esprimerle. Le parole. Come italiana che abita nel fashion district milanese ad esempio posso usare la parola “guerra” o “dittatura” in tutta libertà e leggerezza sui social, ma pure voglio ricordarvi che le stesse parole hanno un peso diverso a seconda di chi le usa: io la guerra l’ho vista quando avevo undici anni, in Albania, e lì ho visto anche la dittatura. Purtroppo, quando uso queste parole, so esattamente di cosa parlo anche se avrei preferito non saperlo. Così, ad esempio, conosco la differenza fra esibire il green pass per cenare in un ristorante al chiuso e tremare alla sola vista della polizia in un paese preda dell’arbitrio di uno psicopatico che fece costruire 170.000 bunker per difendersi dai demoni della propria ignominia. Conosco la differenza fra l’iperbole retorica, insomma, e la realtà della distruzione e dell’umiliazione sistematica degli esseri umani. Conosco cosa vuol dire nascere e crescere dalla parte sbagliata della storia e la fatica che si fa per attraversare il mare e arrivare dall’altra parte. Da questa parte, insomma, in cui si gode della libertà per cui altri e altre hanno combattuto. Altre che sono ormai lontane nel tempo e nel ricordo. Questa parte in cui si crede che la libertà, come bene ereditario, sia data una volta per tutte e in cui si fatica ormai a comprendere che se nessun conflitto sorto fra gli uomini è fra bene e mali assoluti, pur tuttavia, ogni volta, c’è una parte giusta dalla quale stare e una sbagliata da combattere. Vorrei allora concludere testimoniando che noi siamo qui, come donne, a fronteggiare le mille iniquità e le troppe storture di quella che è e resta la parte più giusta della storia.

Donne, il nostro tempo è arrivato: e non possiamo accampare scuse o voltarci dall’altra parte

Il progetto dell’Associazione “L’Abbraccio del Mediterraneo” si pone come obiettivo quello di creare una rete informata di donne che, collaborando e facendo informazione, sensibilizzano sul tema della violenza domestica e di genere. Il libro “100 Donne per Tutte”, primo frutto di questo lavoro, è una raccolta di autobiografie di donne che hanno raggiunto obiettivi importanti sul piano lavorativo. La rete che ne è nata successivamente è fatta di attività, collaborazioni e convegni al fine di educare al cambiamento e al concetto di rispetto e non violenza. Davvero ce ne era bisogno e credo si siano trovati i mezzi e i modi giusti per tornare a parlare di questi temi da una prospettiva nuova. Almeno, questo è il mio auspicio. A proposito di donne infatti, tanto è stato fatto ma tanto, lo sappiamo, resta da fare. Perché, se dobbiamo la nostra presenza qui a coloro che con spirito di intraprendenza e coraggio negli ultimi due secoli si sono opposte allo status quo che le relegava ai margini, e pur vero che il fatto stesso di esserci significa che restano ancora troppi vuoti da riempire: c’è ancora del marcio in Danimarca, diciamo così. Solo che, questa volta, non può essere lo spettro di un vecchio Re a investire il primogenito della missione di rimettere di rispondere alla domanda di giustizia che, per usare le parole di Shakespeare, ci pone davanti agli occhi “questo tempo scardinato” Ecco, questa volta dovrà essere invece lo spettro di Ofelia a parlare. Perché è chiaro che Ofelia ha subito una sorte persino peggiore di quella del lunatico principe di Danimarca, e sarebbe il caso di occuparsene seriamente. Ofelia, ne sono certa, tornerebbe allora a dirci che stavolta le donne lascerebbero volentieri agli uomini il compito di morire per amore, accontentandosi del trono di Danimarca. E non perché basti essere una donna per fare la differenza, o perché le donne abbiano da portare un tocco più gentile nell’amministrazione del potere, come spesso si sente dire, ma semplicemente perché hanno la forza, ovvero la formazione e la cultura necessarie, per assumersene la responsabilità. E una forza che ha finalmente coscienza di sé non può fare a meno di essere esercitata. Da questo punto di vista, ho trovato magistrale il discorso della Ferilli a Sanremo: perché, ci ha detto, dovrei essere qui come testimonial di un problema? Perché, insomma, non dovrebbe bastare la mia storia, quello che ho saputo fare? Perché, se mi permettete la perifrasi, dovrei iscrivermi in un paradigma vittimistico di qualche tipo per meritare la vostra attenzione? Non basta ciò che ho già dimostrato? Ecco, nel mio piccolo, io sono qui, arrivata in Italia a 12 anni, senza una lira e senza sapere una parola di italiano, in fuga da una guerra civile e da orrori che non potete neanche immaginare: se avessi perso tempo a piangermi addosso adesso dovrei ricorrere alla voce di qualcuno per dirvi quello che invece oggi posso dirvi con la mia, e con la massima serenità. Ovvero che il nostro tempo è arrivato, e non possiamo accampare scuse o voltarci dall’altra parte.

Kaja Kallas, Primo Ministro dell’Estonia, ha bruciato tutte le tappe divenendo una delle figure chiave della politica nell’Est Europa

Ultimamente si è parlato dell’est solo a proposito dei paesi dell’area Visegrád. Di quanto le loro politiche in tema di questione femminile e di migranti siano lontane dalle linee guida dell’Unione Europea. Ma l’Est Europa ci rivela anche delle sorprese, proprio in quell’area, i paesi Baltici, dove i dissidi territoriali, linguistici e politici, non sono mai mancati né possono ritenersi risolti. L’Estonia è un ex Paese dell’area Urss che oggi conosce una fase di potente emancipazione impersonata dalla figura di Kaja Kallas. Filo atlantista ed europeista convinta, la Kallas ha le idee chiare in termini di politica interna ed estera. Se dovessi votare per la donna dell’anno, ora che Angela Merkel si gode un meritato riposo, voterei sicuramente per Kaja Kallas. Leader del partito riformatore estone dal 2018, è stata eletta primo ministro a Tallinn a gennaio 2021. Il suo mandato è iniziato non senza difficoltà: oltre ai problemi derivanti dalla gestione della pandemia, la neo Premier ha dovuto dimostrare le sue capacità in termini di strategia politica, opponendosi alle pressioni di Mosca. Le mire espansionistiche della Russia sull’Estonia (indipendente dall’Urss dal 1991), per farla rimanere in posizione ancillare rispetto ai suoi interessi geopolitici, si sono fatte in questi mesi sempre più pressanti, complice anche la crisi dei migranti innescata da Lukashenko al confine con la Polonia. Ma anche su questo fronte la Premier estone sembra non scomporsi: attacca duramente la “matrigna” Russia rispetto alle sue mire in Ucraina, rivolgendosi a Putin con una fermezza di cui sembrano piuttosto difettare molti paesi del continente europeo. OPINIONI / L’Europa è in guerra (di A. Likmeta) Ma chi è davvero questa donna, ostile al Cremlino e decisa a raccontarci una nuova storia dell’Estonia e quindi dell’Europa? La Kallas è una figlia d’arte, se così si può dire. Suo padre, Siim Kallas, è stato membro del Consiglio Supremo dell’Urss, Direttore della Banca Centrale della Nuova Repubblica Indipendente Estone. È stato Ministro degli Esteri e Premier dal 2002 al 2003. Infine è approdato a Bruxelles, dove è stato Commissario Ue e Vicepresidente della Commissione Europea. La Kallas è inoltre nipote di Eduar Alver, fondatore della Repubblica nel 1918, mentre sua madre fu una delle tante deportate nei gulag siberiani, quando lei aveva appena 6 mesi. Una storia incredibile, e fortemente simbolica: la storia personale di Kaja Kallas incarna la storia nazionale di un paese dell’Est che fa di tutto per emanciparsi dall’influenza russa, cercando – e trovando – i suoi modelli di riferimento a Ovest. Così, per genealogia, carattere e intenzioni, la Kallas rappresenta la figura chiave per il contrasto alle mire espansionistiche di Putin in Europa. Non a caso, è stata proprio lei a posizionarsi con tanta decisione contro il North Stream, il gasdotto pensato per connettere la Russia alla Germania. La Kallas, che ha lo sguardo rivolto a Washington in funzione atlantista, ha da subito stigmatizzato il progetto coma la riedizione in chiave energetica del patto di Molotov-Von Ribbentrop. Un patto dove però l’Europa potrebbe, proprio per sudditanza energetica, dover derogare ai propri principi fondanti in cambio di forniture. Chiusi i rubinetti, insomma, una riedizione post-moderna del “generale inverno” potrebbe congelare i principi etici fondanti dell’Europa aprendo la strada al nuovo autoritarismo che avanza da Est. In definitiva, il Primo Ministro Estone, rappresenta allo stato attuale un piccolo ma indispensabile baluardo europeo contro l’involuzione politica del continente. Ella, forse unica fra tutti i leader europei, non si è mai lasciata intimidire. Forse perché la sua storia personale le ha insegnato a distinguere uno stratega, come, nel male, fu certamente Stalin, da un buon tattico, quale è sicuramente Putin. In altre parole, sa che un militare, finita la battaglia, è solo un uomo che cammina verso la fine dell’orizzonte degli eventi, accompagnato dal suo cappello.

La rabbia e l’umiliazione. La Pornografia Non Consensuale è la nuova piaga sociale

Rabbia, silenzio, e umiliazione. Oggi è la giornata per l’eliminazione della violenza contro le donne, e proprio oggi è opportuno parlare di una forma di violenza in aumento costante, dai numeri allarmanti. Una forma di violenza che è difficile combattere, è difficile accertare nella sua presenza concreta, ma di certo è sempre più diffusa. Sto parlando della Pornografia Non Consensuale (in inglese NCP, non consensual pornography), vale a dire la diffusione di foto e filmati a carattere pornografico senza che il soggetto abbia dato l’assenso. La conosciamo come “revenge porn”, la classica situazione in cui il fidanzato o il marito, abbandonato, mette online foto o filmati della propria ex. Molto spesso i filmati sono corredati da nome, cognome, profilo social della vittima. E le conseguenze sono devastanti: Secondo una ricerca Eurispes (2019) le vittime di “Revenge Porn” sono nel 90 per cento dei casi donne, con ricadute durissime sulla vita personale. Il 50 per cento delle vittime pensa al suicidio. Anche le conseguenze professionali sono pesantissime: oltre il 70 per cento dei candidati ad un posto di lavoro viene escluso a causa della web reputation. Secondo una ricerca del 2020 del servizio analisi della Polizia Postale In Italia il fenomeno è in aumento e sta raggiungendo picchi preoccupanti, con due episodi di revenge porn segnalati al giorno, e un migliaio di indagini in corso a fine 2020. L’associazione “Permesso negato”, che si occupa del problema, in una ricerca di questi giorni ha evidenziato che negli ultimi 12 mesi i gruppi Telegram dedicati allo scambio di questo tipo di materiale sono passati da 89 a 190. Raddoppiati. Si tratta di una vendetta simbolica – ma dalle tragiche ricadute pratiche- dell’uomo, del maschio, nei confronti della donna. Una versione moderna, hi tech (ma sappiamo che non c’è fenomeno contemporaneo che non abbia una sua chiave mitologica vera, forte e viva) del mito di Apollo che sputa sulle labbra a Cassandra, condannandola a non essere mai più ascoltata. Una forma di carachter assassination non meno reale di quella che a volte, purtroppo, avviene nei fatti. E non sono solo le donne a dover portare il peso dell’aspetto selvaggio, violento, del mondo digitale, che si rivela come una specie di nuova giungla pronta ad inghiottire i più deboli. Il revenge porn è solo una delle facce della pornografia non consensuale. Le altre sono, ad esempio, la “sextortion”, ovvero il minacciare di rendere pubblici i filmati e i video a meno che la vittima – donna, uomo, ma in particolare minore- non paghi un corrispettivo. Di questi giorni la notizia dell’arresto di un uomo a Scafati che individuava vittime -spesso minori disabili- si procurava con l’inganno foto intime e tentava di ricattarli. In altri casi la diffusione di materiale pornografico non consensuale avviene a semplice, ma non meno odioso, scopo di bullismo cibernetico. Il lato cyber-rape della nostra cultura esiste, insomma. Non se ne parla abbastanza, e non si fa abbastanza per contrastarlo. Anche se, di recente, il Garante della Privacy ha deciso di abbassare la soglia per possibili denunce anche ai maggiori di 14 anni, e ha costruito un protocollo di intesa con Facebook, Instagram, Whatsapp perché i video vengano fermati anche prima della loro diffusione online. Esistono anche realtà come ealixir.com, azienda specializzata in reputazione digitale, che consente, a chi ne faccia richiesta, di cancellare gratuitamente foto e video compromettenti. Sono iniziative necessarie e meritorie, ma non risolutive. Perché l’idea stessa di screditare o meglio “sputtanare” una vittima più debole usando il ricatto sessuale rappresenta non solo la faccia oscura di un’epoca, ma anche il lato oscuro di un’identità maschile sempre più incerta, oltre che un meccanismo antropologico – quello del debole che paga per il forte- ancora troppo consolidato in una società a cui piace definirsi progressista, ma che, evidentemente, non ha ancora scardinato meccaniche di dominazione tribali. Ancora siamo all’uomo che zittisce la donna. Nell’epoca in cui, con la morte di Dio, gli uomini sono diventati dei “gli uni per gli altri”, ciascuno può arrogarsi il diritto di sentirsi come il dio Apollo che zittisce la vittima umana. Lasciandola, come capro espiatorio, in balia del silenzio e della riprovazione generale. Rabbia dunque, silenzio e umiliazione.

L’Europa è in guerra

C’è una guerra in Europa. Una guerra nella quale a morire sono solo i migranti, scappati dalla parte sbagliata della storia e ammassati in migliaia al confine tra la Polonia e la Bielorussia. Stanotte è morto un bambino di un anno, assiderato nei boschi polacchi, mentre i suoi genitori erano feriti. Ora sentiremo le dichiarazioni commosse di tutti i capi di stato europei, esattamente come accadde con Aylan, il bambino morto sulle coste turche nel 2015. Una storia che si ripete e che affonda le sue radici nella perenne, sempre rinnovata guerra fredda tra USA e Mosca. Una storia antica, quasi un archetipo che torna allo scoperto ogni volta che le contingenze politiche e geopolitiche ne fanno affiorare la struttura. Come l’Ucraina, anche la Bielorussia è un paese cuscinetto della Russia, parte integrante prima dell’URSS e ancor prima dell’impero zarista. La storia si ripropone nell’estate 2020, quando in Bielorussia viene eletto Lukashenko, nonostante le fondate accuse di brogli elettorali. Da quel momento, i movimenti di liberazione bielorussa, come accadde in Ucraina e in Georgia, furono stroncati dalla Russia che ad oggi continua a elargire fondi e aiuti mantenendo vivo il governo Lukashenko, e mantenendo la Bielorussia all’interno della sua area di influenza. Mosca è riuscita dunque a creare uno stato cuscinetto che le è indispensabile non solo a fini difensivi, ma anche per mettere in atto la sua tattica di destabilizzazione in Europa. A questo fine, con l’aiuto della Turchia, la Russia ha favorito e permesso il trasporto di migliaia di migranti fino al confine con la Polonia. La morale di questa triste storia è che la lotta fra i due imperi, quello Russo e quello Americano, trova infine un punto strategico comune: indebolire l’Europa per avere campo libero negli scenari mediorientali. I governi destrorsi che tanto stanno destabilizzando l’Europa a Est, sono funzionali alla politica estera degli Stati Uniti, che cerca di sovrastare l’espansione russa verso quest’area avendo tutto l’interesse a contrapporre i nazionalismi esacerbati del Gruppo di Visegrad all’aggressività politico economica russa. In breve, mentre Mosca cerca di operare una politica di penetrazione in Europa, gli USA tentano di limitarne le manovre e di farla arretrare a Est. Come sempre, la partita si gioca naturalmente sulla pelle degli ultimi. Di questi paria della terra che si trovano schiacciati fra due fuochi, come scudi umani di cui in realtà a nessuno importa. In termini tattici l’Europa ha l’opportunità di gestire questa situazione utilizzando i Balcani Occidentali, ad esempio l’Albania che può diventare la chiave di volta n quest’area a tutti gli effetti europea, in grado di garantire un tempo sufficiente a distendere i rapporti e temporeggiare sulle scelte da intraprendere nelle prossime settimane e mesi. E poi è ora che l’Europa -tanto attiva a parole ma che non si è dotata di una politica comune sulla questione migrazioni- si dia da fare su un problema tragico e urgente. Fino ad ora l’Europa ha mostrato poca sostanza proprio sul terreno che dovrebbe appartenerle: quello dell’accoglienza, dei diritti, dell’attenzione agli ultimi. Nella grande, e spietata, partita geopolitica l’Unione Europea, fa la parte dell’inetto sveviano o musiliano, se non quella dell’assente beckettiano. Assistiamo dunque a una guerra di posizione e logoramento, che prende forma giorno dopo giorno, favorita dall’incapacità dell’Europa di contrapporre una politica estera comune e sostanziata da mezzi effettivi e deterrenti tali da scoraggiarne il perseguimento. Fa bene, il presidente del Parlamento europeo, David Sassoli a commentare su Twitter: «Lo sfruttamento dei migranti e dei richiedenti asilo deve cessare, la disumanità deve cessare». È un appello e una presa in carico di responsabilità. Ed è ora che alle parole seguano i fatti.

#Tech4Women. Yo soy Anita, soy una mujer, soy una migrante

Se oggi faccio l’imprenditrice è anche grazie alla mia storia di migrante. Ho conosciuto il mare aperto. E lì, ti piaccia o no, devi imparare a nuotare. Yo soy Anita, yo soy una mujer, yo soy ebrea, yo soy albanese di nascita e italiana di adozione e formazione, perché sono stata una migrante. Io, soprattutto, sono figlia della mia storia: figlia di due diaspore, quella ebraica della mia bisnonna prima e quella del mio popolo albanese dopo. Sono molto onorata di essere stata la madrina di #Tech4Women, un evento organizzato da Techfugees che si distingue per il giusto impegno di riconoscere nella diversità un bene comune e nel buon senso l’unica strada percorribile affinché possano delinearsi nuove traiettorie capaci di includere e far crescere un’economia sostenibile e declinata al femminile. Femminile, sì. Perché voi li vedete ogni giorno i migranti, questi esseri umani che il mondo della disuguaglianza e della iniquità sta spingendo verso il nord. Vedete ogni giorno come la questione stia generando un problema strutturale nei rapporti tra Italia e Francia, tra Italia e Germania, tra Italia e Unione Europea. La maggior parte sono maschi. Dai luoghi delle rivolte, della guerra civile e delle dittature scappa soprattutto il genere maschile. La percentuale di femmine è davvero molto bassa. Perché le donne restano a casa, nelle zone di guerra, rimangono ad affrontare da sole quello che resta delle rivoluzioni, delle rivolte, delle persecuzioni, a ricostruire dopo la morte, a rinascere, aspettando magari un giorno il ritorno dei loro uomini. Le donne che sono rimaste indietro assolvono da sole il compito di rifondare la società, di farla uscire dallo stato semi tribale o dittatoriale. Ma da loro, le più, che sono rimaste indietro, come da quelle che hanno osato attraversare il Mediterraneo giunge una nuova sfida: fare i conti con i luoghi comuni, con l’idea che siccome le cose sono sempre andate così, allora nulla potrà mai cambiare. Perché una volta che anche prendessero la via del mare, c’è da fare i conti con la traversata e quello che ti aspetta sull’altra sponda. Penso a me, per esempio. Con una laurea in Filosofia presa in Italia da immigrata, le mie prospettive come lavoratrice erano davvero limitate. Come tanti giovani, concluso il percorso di studi, il mio lavoro, nei mesi successivi la laurea, fu quello di cercarmene uno. Ricordo centinaia di curriculum inviati, una parte infinitesimale dei quali, mi portò a dei colloqui di lavoro che in qualche modo finivano tutti alla stessa maniera: “sei troppo preparata”, oppure “ma che ci fa una ragazza come te qui”, o infine, ça va sans dire,: “Perché non ne riparliamo a cena?”. Ed è così che mi sono trovata dinanzi all’urgenza di una decisione: se nessuno mi sceglieva, io dovevo scegliermi. E mentre cercavo di sapere di più su tutto, intanto, facevo tutti i lavori possibili: babysitter, badante, modella, cameriera, ripetizioni di latino e greco, interprete nelle fiere, traduttrice di testi (ovviamente dovendo anche combattere per essere pagata). Mi è toccato capire che il meccanismo che teneva in piedi l’Italia si era inceppato. Non c’erano politiche per i giovani e, più nello specifico, per le donne. In breve, sembrava che le ragazze, per assicurarsi un lavoro, dovessero ogni volta svendersi al peggior offerente. Ebbi proprio la sensazione fisica di essere ancora in alto mare e che non avevo toccato terra. Se oggi dunque faccio l’imprenditrice non è solo perché ho avuto più coraggio delle mie coetanee italiane, ma semplicemente perché ho conosciuto il mare aperto. E, in mezzo al mare, ti piaccia o no, devi imparare a nuotare.

“Mario, come here!”. Vieni fra noi, prima che sia troppo tardi

Il G20 è stato un successo insomma, tutti per uno e Draghi per tutti. Ma sì, siamo stanchi. Rilassiamoci un po’, mentre le signore fanno shopping in Via Condotti. La dolce vita, la grande bellezza! Tanto pericoli non ce ne sono: abbiamo ottomila macchine di scorta, servizi segreti, legioni di poliziotti e tiratori scelti. E voi siete tutti lì a chiedervi cosa ne è stato di questo G20. A saperlo… È una di quelle domande inutili che ormai si ostina a fare solo il Vaticano, con la solita incomprensibile preoccupazione per gli ultimi della terra. Noi di fatto abbiamo lavorato, ci siamo impegnati a salvare questo mondo ripiegato su se stesso. Sono la Cina e la Russia che non ci hanno messo la faccia. Noi invece abbiamo recitato la nostra parte, ciascuno con la sua maschera: chi per il clima, chi per la pesca, chi per i dazi. E poi lo abbiamo chiamato “bene comune”. È stato un successo insomma, tutti per uno e Mario per tutti. Che aria tirerà sui nostri continenti nei prossimi mesi? Certamente non spariranno le guerre, i femminicidi, la fame, la pandemia, le deforestazioni, le inondazioni, le mancanze dei diritti civili e di lavoro. E non basteranno la monetine gettate nella fontana a rimettere in sesto il debito degli ultimi. Ma è stato proprio mentre la limo si allontanava, che abbiamo sentito una voce levarsi dalla folla che seguiva il corteo: “Mario, come here!” Perché lo sapete: amiamo l’Italia, la sua strepitosa cucina. Amiamo Roma, il cinema italiano dell’età d’oro. Anita nella fontana, Mastroianni, il grande Fellini. “Mario, come here!”. Sì, vieni qui Mario, scendi fra noi, prima che sia davvero troppo tardi.