albanesi

#RollingStoneRispondi: quando a rotolare è solo il fango.

È trascorsa una settimana da quando il terremoto in Albania si è portato via per sempre la casa di molti miei connazionali, inclusa quella dei miei nonni. Sono tante le persone che in queste ore e giorni vivono il dramma di vivere in tenda, lontani dalle proprie case, per chi ce l’aveva, che dovranno prima o poi ricostruire di nuovo. Le scuole sono chiuse e l’inverno è dietro l’angolo. In Italia conosciamo molto bene questo dramma.  Un terremoto, come ogni cataclisma di questa portata, ferisce profondamente, lacera tutte le nostre certezze e ci catapulta inesorabilmente in quella dimensione di fragilità dove tutti ci interroghiamo mettendoci in discussione. Ognuno nel proprio piccolo tenta di fare qualcosa, di dare il proprio contributo. Ma spesso in queste occasioni ci si imbatte anche in chi cerca di fare cattivo uso della disgrazia altrui. Accade che siamo proprio noi giornalisti e comunicatori a sfruttare gli eventi per cavalcare la notizia per fare lo scoop piuttosto il miglior tweet della giornata.  Ed è successo esattamente questo il 21 settembre quando Rolling Stone Italia posta il seguente Tweet, che alcuni minuti dopo cancella.  Ma si sa che in rete si scrive con la penna, e quello che scrivi rimane per sempre. In questo caso rimangono gli screenshot di alcuni utenti che subito esprimono la loro indignazione sui rispettivi account.  Chi ha postato questo tweet probabilmente pensava di scrivere qualcosa che potesse far sorridere, un messaggio che è stato concepito con la stessa velocità con cui è stato cancellato. Alcuni utenti postano che Rolling Stone Italia non è nuovo a questo genere di tweet provocatori e denigranti. Ma torniamo al squallido tweet di Rolling Stone Italia sul terremoto in Albania. La cosa che mi fa rabbrividire e che non riesco proprio a digerire è l’uso che si è fatto della parola “denutriti”. Come potrebbe far ridere una frase del genere? Chi potrebbe ridere? Io non riesco a ridere quando penso a me stessa, alla mia famiglia, agli albanesi denutriti che affollavano il porto di Bari. Non mi fa ridere pensare alla pelle attaccata alle ossa che ti avvolge come fosse un velo. Non mi fa ridere pensare al volto ossuto di quegli uomini, donne e bambini che svenivano e morivano di fame. Alcuni sono morti durante la traversata e gettati direttamente in mare. E pensarmi che avevo fame, che avevamo fame, privi di forze e attaccati alla volontà più grande: quella di vivere. Un corpo denutrito è una piazza vuota, dove neanche i pensieri sono più spettatori. Un corpo denutrito è un uomo, una donna, un bambino in preda al panico. Un corpo denutrito è un deserto che invoca la pioggia. Un corpo denutrito è una casa senza luce. Un corpo denutrito è un insulto silenzioso a quella parte dell’umanità che coltiva se stessa in parole lebbrose, di parole criminali e che si illude che non pagherà dazio. Io ero quella bambina denutrita, scavata, ma cosciente del fatto che chiunque di voi è arrivato a leggermi fin qui, vorrà andare insieme a me un po’ più lontano rispetto a questa miseria e insensibilità che ci affolla.   Chi ha concepito, scritto e pubblicato quel tweet ha lo stesso cuore feroce di quelli che pubblicavano articoli descrivendo gli italiani come “I peggiori rifiuti dell’Europa, Pigri, Venali, Camorristi. Detentori del record di criminalità. Mandrie di ignoranti viziosi. Mendicanti per professione e per piacere. Fannulloni, Invadenti come locuste”. Rolling Stone Italia, aver cancellato il tweet pulirà forse la vostra coscienza, la traccia di fango che ha lasciato continuerà a sporcare la testata che l’ha ospitato.

L’Albania ha bisogno di albanesi e di Europa!

Il fatto che il Primo Ministro Edi Rama scelga il salotto di Porta a Porta di Bruno Vespa per discutere dei disordini avvenuti nelle ultime settimane in Parlamento a Tirana potrebbe far pensare che la situazione sia più grave di come possa sembrare. Eppure, trovo che sia normale che questi dissidi trovino luogo in un Paese che ha una democrazia così giovane. Trovo fisiologico che ci si scontri, piuttosto che l’opposizione faccia la sua battaglia anche fomentando e portando il suo elettorato in piazza. L’Albania sta facendo un grande percorso di ricostruzione, iniziato 28 anni fa, e da imprenditrice che ha aperto un’azienda nel Paese, una società che si occupa di informatica, penso che il Paese delle aquile sia interessante e che offra dei vantaggi fiscali considerevoli. Il viaggio verso l’Unione Europea è ancora lontano visto che dobbiamo ancora adempiere i requisiti per l’ingresso in UE, ma non è più un sogno impossibile. Da giornalista invece trovo necessario l’intervento del Primo Ministro nella Tv italiana, visto i rapporti economici fra i due Paesi, come trovo curioso il fatto che il capo dell’opposizione Lulzim Basha, il pupillo di Sali Berisha, faccia delle accuse così pesanti invece di presentare e informare l’UE in merito ai presunti brogli elettorali piuttosto dello stato attuale sul cartello dei narcotrafficanti. Winston Churchill diceva che “I Balcani producono più storia rispetto a quanto ne riescano a digerire” e questa affermazione trova la sua veridicità in quanto la naturale degenerazione della politica albanese in questi giorni, che ha visto l’opposizione abbandonare e minacciare il Parlamento è una situazione complessa da spiegare, quanto difficile da dimostrare in quanto mancano documenti che attestino i fatti concreti. Il problema principale degli albanesi è la tanto agognata adesione all’Unione Europea per vedersi facilitare l’emigrazione verso Stati europei più promettenti rispetto alle possibilità di vita che ci sono attualmente in Albania. Se è vero che da una parte il lavoro svolto negli ultimi trent’anni è stato ingente, dall’altra parte l’Albania non è stata capace ancora di sradicarsi completamente dal cordone ombelicale con il passato. Il problema è culturale, perché in quel silenzio assordante che ha caratterizzato il mezzo secolo del regime hoxhaista sono stati un po’ tutti complici, senza stare troppo a sottilizzare sulle impossibilità dovute alle pressioni che facevano quelli della Sigurimi. Penso che oggi più che mai sia necessario aprire un tavolo di discussioni e riflettere sullo status quo delle cose perché è così che avviene in democrazia. Sento spesso dire dai miei connazionali che in Albania vige una dittatura, e allora io mi chiedo cosa è la vera dittatura? Ci siamo già dimenticati gli anni di Enver Hoxha? Qualora aveste ragione, come mai, mi chiedo, sia possibile che la vostra voce arrivi fuori, come è possibile che riusciate ad opporvi senza essere deportati nelle carceri dello Stato come avveniva sotto il regime di Hoxha. Non è che i disordini in Albania siano voluti e che ci siano forze oscure dietro che hanno come obiettivo la destabilizzazione dell’area balcanica al fine di indebolire il progetto e l’area europea? Non sarebbe l’ora di planare questi disordini e controversie per rimettersi in carreggiata e magari vedere negli altri Stati dell’area balcanica una opportunità per creare una Unione economica forte piuttosto che continuare ad alimentare e perpetuare politiche di stampo sovraniste? Non vorrei che, come accadde con le piramidi finanziarie, ci illudessimo che gli aiuti possano venire da fuori, perché l’Albania ha bisogno degli albanesi, perché l’essere europei non è un luogo, ma uno stato dell’essere. Ed è da lì che dovremmo cominciare noi.

Bambino kosovaro che rovista nella spazzatura per cercare vestiti e avanzi di cibo.

Kosovo: l’indipendenza corrotta

di Gëzim Qadraku È il 17 febbraio 2008, quando a Prishtina il Parlamento kosovaro, riunitosi in una seduta straordinaria, dichiara la propria indipendenza dalla Serbia. Da ex regione autonoma della Jugoslavia, il Kosovo diventa uno Stato indipendente. La dichiarazione viene sottoscritta da tutti i deputati presenti in aula, eccezion fatta, ovviamente, per i rappresentanti della minoranza serba, i quali decidono di non presentarsi neanche. In aula viene esposta la nuova bandiera, su uno sfondo blu compare il profilo della nazione di colore giallo, sopra il quale vi sono sei stelle bianche che simboleggiano le sei comunità etniche presenti sul territorio: albanesi, serbi, turchi, bosniaci, rom e gorani. Un richiamo diretto all’Europa. Inoltre, per la prima volta in assoluto, viene intonato anche l’inno nazionale, che non prevede alcun testo. Il Kosovo entra ufficialmente nella Storia, diventando uno Stato indipendente. Il Kosovo è uno Stato orgoglioso, indipendente e libero. Hashim Thaci Trascorsi dieci anni dalla sua nascita, il piccolo Stato balcanico ha ricevuto, ad oggi, 115 riconoscimenti diplomatici come Stato indipendente. Andando nel dettaglio dei riconoscimenti, questi sono arrivati dal 58% degli Stati che fanno parte delle Nazioni Unite, per quanto riguarda invece l’Unione Europa, sono cinque i Paesi che non lo hanno ancora riconosciuto, e quattro sono membri della NATO. Col passare degli anni sono arrivati riconoscimenti importantissimi da enti internazionali, due su tutti, FIFA e UEFA, che hanno permesso agli atleti kosovari di partecipare a competizioni come le qualificazioni per il mondiale di calcio, le Olimpiadi di Rio de Janeiro del 2014, nelle quali è arrivata la prima, storica, medaglia d’oro. Conquistata dalla judoka Majilinda Kelmendi. E pochi giorni fa la bandiera kosovara ha sfilato anche alla parata d’inaugurazione dei giochi olimpici invernali che si stanno tenendo in Corea del Sud. Il caso della Catalogna ha fatto riemergere in molti l’attenzione sulla questione del Kosovo. Motivo principale per il quale da Madrid non è ancora arrivato il riconoscimento per Prishtina, in quanto dalla Spagna vedono una certa somiglianza tra la condizione catalana e quella kosovara. Proprio pochi giorni fa la Spagna ha ribadito alla Commissione Europea la propria visione sul Kosovo, dichiarando che “Il Kosovo non fa parte del processo di allargamento, ma va trattato come un caso particolare“. Occorre innanzitutto ricordare che la popolazione albanese del Kosovo è stata vittima di una guerra, 1998-99, nella quale l’intenzione di Milosevic era quella di fare della ex-regione autonoma parte della Serbia, liberandosi così della popolazione maggioritaria albanese, che ne costituisce il 90%. Fatti, questi, che non sussistono al momento a Barcellona e dintorni. Sulla dichiarazione di indipendenza kosovara si è dichiarata la Corte di giustizia internazionale, affermando che essa non viola né il diritto internazionale, né la risoluzione 1244, né tantomeno il quadro costituzionale vigente dal giorno della proclamazione stabilito dall’UNMIK. Lavoro della Corte che si è concluso in questo modo, senza che l’organo abbia dichiarato nulla per quanto riguarda il quesito se il Kosovo sia uno Stato legittimo, allo stesso tempo non ha dato alcun via libera agli altri stati per riconoscere Prishtina. Noi oggi siamo accettati da 115 paesi come Stato indipendente. Questo è un successo notevole. Ma per quanto riguarda la coesione interna, siamo ben lontani dalle aspettative. Albin Kurti Per la nascita del più giovane Stato d’Europa un ruolo decisivo e fondamentale, è stato quello degli Stati Uniti, sin dai tempi della guerra. Molto probabilmente il Kosovo non sarebbe sopravvissuto, senza l’intervento statunitense. Impegno che viene tutt’oggi ricordato dalla popolazione, con strade intitolate ad esponenti americani e la statua nella capitale in onore all’ex presidente americano Bill Clinton. Supporto nei confronti degli USA che non ha è diminuito neanche dopo l’elezione di Donald Trump. Posizione, quella di Washington, che però non è sempre stato di appoggio nei confronti di Prishtina e dintorni. Basti ricordare che prima del conflitto gli Stati Uniti consideravano l’Uçk (l’esercito di liberazione kosovaro) un’organizzazione terroristica, per poi cambiare idea e diventarne partner. Significativo cambio di rotta che venne chiarito dalle azioni di Washington nel piccolo Stato dopo la fine della guerra, con l’installazione di quella che è la base americana più grande del mondo, Camp Bondsteel, ben 955 acri di terreno. Successivamente è iniziata una politica di privatizzazione, che ha visto gli USA protagonisti di primo piano, i quali tentarono inizialmente di accaparrarsi la PTK, la società di telefonia pubblica del Kosovo, ma poi si tirarono indietro, senza però lasciarsi scappare altre occasioni come le risorse minerarie e l’oleodotto. Insomma, per gli americani la strada in Kosovo è sempre aperta. Quello della privatizzazione è un argomento cruciale per il destino del Kosovo, infatti, dal giorno dell’indipendenza, è stata adottata questa politica di vendita delle principali proprietà statali a prezzi di saldo, come se queste appartenessero ai politici, più che essere delle risorse per lo Stato e soprattutto per i cittadini. Teoricamente, laddove avviene una privatizzazione, la compagnia dovrebbe avere un miglioramento in termini di efficienza e produttività, cosa che però non sta avvenendo. L’investimento privato sembra essere diventata una scusa per poter vendere a prezzi più bassi e nei tempi minori possibili, in maniera tale che quei soldi finiscano nelle tasche degli uomini che si trovano al potere. Un processo che ha due problemi principali, il primo è la mancanza assoluta di ricerche o analisi per comprendere se la privatizzazione in un determinato caso, sia la scelta migliore; il secondo è il fatto che le caratteristiche e le differenze delle industrie e/o compagnie non sono state minimamente prese in considerazione. L’attenzione è stata data esclusivamente alle offerte degli acquirenti, per comprendere quale di queste sarebbe stata la più redditizia in termini di guadagno. Una politica che ha portato nelle casse dello Stato una cifra che si aggira intorno ai 400-500 milioni, la quale, teoricamente, sarebbe dovuta essere l’offerta per una sola delle proprietà statali. Ad oggi, la privatizzazione avrebbe dovuto portare 1-2 miliardi di euro nelle casse statali, e non la cifra irrisoria citata poc’anzi. Gli esempi più lampanti di questa politica sono le privatizzazioni della compagnia elettrica, venduta dal governo nel 2012 al gruppo turco Limak-Calik alla cifra di 26,3 milioni di euro. Una cifra irrisoria, ma che non è il punto più assurdo di questa storia, in quanto dal momento del passaggio in mano ai turchi, i cittadini kosovari hanno visto un aumento del costo della corrente elettrica e soffrono ancora di problemi con questa considerando che non hanno ancora la completa disponibilità giornaliera. E poi dell’aeroporto di Prishtina, dato in concessione per i prossimi venti anni alla cordata Limak & Airport de Lyon MAS, dal cui intervento sono previsti 100 milioni di investimenti e un allargamento di 25 mila metri quadri. Gli investimenti arrivati dall’estero in questi anni sono stati numerosi e piuttosto generosi, tanto per citarne qualcuno: Germania 292 milioni, Regno Unito 250 milioni, Svizzera 115 milioni, Slovenia 195 milioni, Austria 130 milioni. Soldi arrivati nonostante gli incentivi siano veramente pochi per investire in un paese caratterizzato da una costante instabilità politica, da un piccolo mercato domestico e da una corruzione altissima, il Kosovo si posiziona infatti al 95° posto su 197 Paesi presi in considerazione nella classifica di Transparency International. Un Paese che ha a disposizione un’enorme forza giovanile, la quale però tocca il 50% di disoccupazione. Un dato ancora peggiore è quello che riguarda le donne senza lavoro, ovvero l’80%. Numero condizionato anche da una mentalità retrograda, che vede la figura della donna soltanto come responsabile del mantenimento della casa e della crescita dei figli. Secondo il rapporto dell’agenzia statistica del Kosovo, lo stipendio medio netto nel 2016 era di 450 euro, 337 nei settori privati e 586 nei settori pubblici.Con la paga minima per gli under 35 di 130 euro e per gli over 35 di 170 euro. Per crescere economicamente il Kosovo dovrebbe concentrarsi sulle proprie infrastrutture, cercare di produrre il più possibile, per cessare di dipendere dalle importazioni. Migliorare il processo di privatizzazione, cercare di equipaggiare la propria gioventù con le abilità e le capacità richieste dal mercato. Lo Stato più giovane e uno dei più poveri d’Europa. La costante di questi dieci anni di vita è stata l’instabilità politica e la formazione di governi insicuri e incoerenti, uno su tutti l’ultimo di Ramush Haradinaj, il quale è passato dall’essere imprigionato in Francia su mandato di cattura da parte della Serbia, rischiando prima l’estradizione a Belgrado, per poi essere liberato e diventare Presidente del Consiglio dei Ministri, proprio grazie ai voti della minoranza serba, dopo che questi avevano ricevuto l’ok proprio da Belgrado. Impossibile trovare un filo logico e coerente a questa vicenda. Un Presidente del Consiglio che dalla sua dispone di 21 ministri e 82 sottosegretari e ha deciso di alzarsi il proprio stipendio a 3000 euro.  Gli ultimi tempi hanno visto una condotta rischiosa da parte delle forze al potere kosovare, le quali infatti si sono permesse di minacciare l’abrogazione della Corte Speciale per i crimini commessi dall’Esercito di Liberazione del Kosovo. Se c’era da dare un segnale che avessero qualcosa da nascondere, non avrebbero potuto fare di meglio. Sono stati 43 i deputati di maggioranza a votare la richiesta di una sessione straordinaria del Parlamento affinché fosse revocata la legge che creò la Corte nel 2015. L’intervento internazionale è stato immediato e ha permesso che la proposta venisse bloccata. Atteggiamento questo inaccettabile e spaventoso, come definito dall’Unione Europea. La classe politica sta giocando con il fuoco, in quanto sono ormai anni che non riesce a raggiungere ciò che gli è richiesto, come la definizione dei confini con il Montenegro, l’accordo di stabilizzazione con la Serbia e ora questa iniziativa non fa altro che attirare su Prishtina le ire degli attori internazionali, i quali hanno il coltello dalla parte del manico, questo è bene ricordarlo al governo Haradinaj. Dieci anni fa le speranze e i sogni erano tanti, ma poco di ciò che ci si augurava è accaduto. Il Kosovo rimane una questione che divide, a partire dalla sua indipendenza per finire alla situazione politica attuale, e soprattutto a come gli investimenti stranieri stiano conquistando il territorio, con il lasciapassare delle forze politiche. Quasi che un classe dirigente corrotta e con più di uno scheletro nell’armadio faccia comodo. Nel frattempo a subire tutto ciò, non può che essere la popolazione. Un numero altissimo di persone che negli ultimi anni ha tentato di lasciarsi alle spalle una situazione disastrosa, per cercare di costruirsi un futuro migliore in Europa, con tutte le difficoltà del caso considerando che un cittadino kosovaro necessita di un visto per poter uscire dai propri confini. Il sogno europeo è una vera e propria utopia, ed è un errore, in primis da parte di Bruxelles, dare anche la minima fiducia a Prishtina, in quanto la classe politica in questi anni non ha fatto altro che riempirsi il proprio portafoglio, lasciando in secondo piano la crescita e il miglioramento delle condizioni di vita. Dieci anni fa si urlava “New Born” e si festeggiava. Oggi le urla sono colme di rabbia e da festeggiare, è rimasto ben poco.

Tirana, Albania.

Il patriottismo è l’ultimo rifugio di un farabutto

di Irisa Bezhani Samuel Johnson aveva ragione nel pensare che il patriottismo fosse l’ultimo rifugio di un farabutto. Dire di essere patriottici in questo momento storico, equivale a dire di essere nazionalisti. Prova a dire a qualcuno che sei patriottico, e quello subito ti guarderà con occhio diverso, cercherà di cogliere tutti quei dettagli, che prima della tua affermazione aveva ignorato, che dimostrano quale spregevole persona tu sia e poi deciderà se classificarvi come un nemico populista. In realtà la mia è un’innocua esternazione. Patriottico per me significa ben altro da quanto uno possa pensare; in un mondo dove il famigerato populismo prende sempre più piede, dove le tendenze sovraniste e isolazioniste si fanno sempre più forti a discapito delle inclinazioni più favorevoli alla globalizzazione e al multiculturalismo, dire di essere patriottici automaticamente ti inquadra nella prima categoria, e di conseguenza in quella dei “cattivi”. Allora forse bisognerebbe chiarire meglio cosa uno intende per patriottismo, o cosa io intendo per patriottismo. In un Paese come l’Albania, dove la dittatura comunista per quasi mezzo secolo ha creato una società totalmente asservita, piegata dal peso dell’ideologia e della propaganda, il sentimento patriottico ha chiaramente un legame col passato, nel quale lo Stato era Dio. Ma questo sentimento di appartenenza, inteso comunemente con la parola patriottismo, non è, per quello che intendo io, quello malato del regime di Enver Hoxha, ma uno più romantico; una visione della propria patria slegata da complessi di superiorità o da sentimenti negativi verso chi non è uguale a te, anche perché alla fine siamo tutti stranieri per qualcuno; anzi, io trovo che sentirsi sia patriottici che sostenere il multiculturalismo non sia qualcosa di ossimorico. Ovviamente uno può chiaramente obiettare dicendo che non si sceglie il posto dove si nasce, così come non si sceglie in quale famiglia venire al mondo. Sono d’accordo. Nascere in questo mondo è un caso, ti becchi quello che ti capita. Ma allo stesso tempo c’è quel sentimento di appartenenza, di familiarità che ti lega al luogo in cui cresci. Puoi amarlo, o puoi cercare di distanziartene il più possibile, sono scelte entrambe comprensibili. Come infatti scriveva Fosco Maraini nel suo “Segreto Tibet”, citando un vecchio canto himalayano “La patria è soltanto un campo di tende in un deserto di sassi.” I confini sono soltanto linee convenzionali tracciate per separare la terra che in fondo è una. Io sono patriottica, io amo il mio Paese, l’Albania, e poiché lo amo voglio che stia bene, che sia un posto bello in cui vivere. La mia relazione d’amore con l’Albania ha subìto diverse fasi. Quando da bambina sono venuta in Italia, la terra delle aquile mi sembrava come un pagina del passato di cui dimenticarsi. Ero proiettata sul presente e sulla mia vita da italiana cresciuta da genitori albanesi. Ma più avanti ho iniziato ad avere quel senso di nostalgia per l’infanzia, per le estati passate al mare, per l’odore delle strade, ed anche quello più sgradevole della spazzatura. Quando si dice che amare significa anche accettare i difetti dell’altro, allora il mio rapporto con l’Albania è un rapporto d’amore anche per questo. In Albania quasi tutti sono patriottici. Potrai vedere mille bandiere svolazzare tra le grate dei balconi, sentire canzoni che esaltano la nostra terra e le nostre usanze. Bisogna però anche dire che la cultura albanese è, soprattutto in alcune zone del paese, molto arretrata e poco aperta. Siamo un popolo che è fortemente legato all’onore, alla famiglia, un popolo che ancora deve fare i conti con una società patriarcale, che vede la donna utile solo al matrimonio. Ci sono mille difficoltà in Albania, ma proprio per questo mi sento in dovere di fare qualcosa. Sono molti gli albanesi della diaspora che dopo un periodo di tempo passato all’estero tornano in patria e mettono così a disposizione le loro competenze che hanno imparato altrove. Anche per questo ammiro l’Albania, siamo un popolo migrante, un popolo che vive ai quattro angoli del globo nonostante il nostro sia un piccolo Paese di appena tre milioni di abitanti. Non dobbiamo però farci soffocare da un orgoglio malsano, un orgoglio che rende ciechi alle nostre zone d’ombra. Il senso critico è fondamentale se davvero amiamo il nostro Paese. Io sono orgogliosa di essere albanese, perché il profumo di quella terra piena di contraddizioni mi affascina e mi fa sentire a casa. Sono legata al Paese, nonostante ci sia l’Adriatico a separarci, ed è proprio per questo che ho voglia di cambiarlo, e di migliorarlo. La mia generazione di albanesi, nella quale ripongo molta fiducia, sarà il futuro del dell’Albania. Siamo la generazione che non ha vissuto la dittatura, e per questo è meno schiacciata dal passato opprimente, siamo la generazione figlia di immigrati, la generazione dei sognatori che ha l’urgenza di creare un’Albania diversa, per tutti.