anita likmeta

Grazie a tutti gli italiani di buona volontà

Io non so come andranno queste elezioni, ma voglio, sin da subito, cogliere l’occasione per ringraziare un po’ di persone. Si dice che nessuno si salva da solo e mai come oggi per me questo è vero. Di questi tempi non si fa che parlare di come è cambiata l’Italia. Non si fa che parlare di questo Paese, che, almeno stando ai giornali, è diventato intollerante e incapace di reagire ai problemi che ogni giorno lo affliggono. Eppure, quando nel 1997, arrivai in Italia, avevo dieci anni e i problemi erano già tutti lì. A quei tempi, ad essere visti con sospetto, non erano gli africani, ma gli albanesi. Ricordo perfettamente la paura che avevo di prendere il telecomando e aprire quella finestra sul mondo: nel discorso pubblico, noi albanesi eravamo i cattivi, gente senza scrupoli che vendeva figli e sorelle. Ladri e prostitute. Mi ricordo ancora quando un professoressa, al Liceo Classico, mi disse che noi albanesi eravamo un popolo selvaggio, del tutto irrecuperabile. Ma per quanto difficili fossero quegli anni, per me che ero una bambina, nei miei ricordi ho lasciato spazio solo alle persone di buona volontà. Ricordo ad esempio quando, durante l’ora di religione, lasciavo la classe per prendere lezioni di italiano da Don Cleto, il parroco di un paesino in provincia di Pescara. Don Cleto era un uomo perbene e capiva il mio disagio: aveva sempre un sorriso da regalare e delle buone speranze che mi riempivano il cuore. Mi donava i libri che aveva nella parrocchia: “prendili tu, hanno bisogno di essere letti”. E poi la bidella, una signora bionda, minuta,  che ogni mattina mi regalava la merenda. E una ragazza di Villanova che si era laureata in Lingue e Letteratura inglese: mi regalò un’enciclopedia. Poi, con mia madre, ci trasferimmo a Cepagatti (che si chiama così perché fu terra di mercanti e, quindi, dal latino captus pagus, passando per il volgare Ce pagate). La prima cosa che feci lì, a Cepagatti, fu visitare la Chiesa di San Rocco e Santa Lucia, dove conobbi Don Agostino. Un parroco taciturno, un uomo di pochissime parole e di tantissime buone azioni. Si spese per la mia famiglia con ogni mezzo. A casa nostra, così, non mancava mai niente, perché il parroco e le suore si ricordavano sempre di noi. E poi la signora Lara, una imprenditrice che aveva una fabbrica che produceva camicie, dove mia madre trovò lavoro e amicizia. E infine le signore Jolanda, Lea, Franca e suo marito Francesco che avevano una gioielleria. E l’assistente sociale Francesca. Queste persone furono per noi come un salvagente. Ci tennero a galla. Poi sono cresciuta, e tra mille avversità ho conseguito la maturità classica. Mi sono trasferita a Roma per continuare gli studi e anche qui ho avuto la fortuna di vivere e crescere grazie alle cure delle suore dell’istituto Mater Mundi che si trovava sul Casaletto. Ecco, io oggi voglio ringraziare tutte queste persone. Questi uomini e queste donne semplici e vitali. Loro non lo sanno, e forse nemmeno si ricordano di me e della mia famiglia, ma io voglio ringraziarli per non avermi lasciata in mezzo a una strada. Voglio ringraziarli per l’amore e per la cura. E voglio dire a loro che se oggi sono candidata a queste elezioni è perché anch’io volevo dare il mio contributo al Paese che mi ha accolto. E testimoniare, con la mia presenza, tutto il loro amore disinteressato e la bellezza del loro cuore.

“La nostra libertà non è un incidente della storia: è tempo di sognare le vite delle generazioni future”

“L’Europa non è un incidente storico”: con queste parole il compianto presidente David Sassoli ci ha lasciato la sua più grande eredità. Mi chiamo Anita Likmeta, sono arrivata in Europa 24 anni fa e sono l’incarnazione di quelle parole. Sono una immigrata, proprio come quegli egiziani, libici, somali, etiopi che vediamo ammassati in centri di accoglienza che tanto accoglienti non sono. Sono una fra le migliaia di persone che anni fa hanno attraversato il mare Adriatico su una nave, sperando di trovare in Europa qualcosa di meglio rispetto allo scenario di morte che si lasciavano alle spalle. Vengo dall’Albania. A casa mia c’era la guerra civile: nessuno di voi qui, per fortuna finora, sa più cosa sia una guerra civile. Nessuno di voi qui sa cosa voglia dire ammazzarsi tra fratelli, tra cugini, tra vicini di casa. Sono oggi alla plenaria di aprile del Parlamento Europeo per dirvi che neanche io sono un incidente della storia. Figlia della diaspora ebraica prima, e di quella albanese poi, l’Occidente per me ebbe da subito i colori dell’Italia: quel paese che sbirciavamo in televisione e che ci sembrava così pieno di promesse e di opportunità, per noi che facevamo i conti con la miseria più assoluta e con la devastazione morale di una dittatura spietata e paranoica. Trovai in Italia un paese pieno di contraddizioni e di chiusure, ma straordinariamente capace di poesia e generosità. L’Italia è riuscita così a darmi quella possibilità di riscatto che non avevo avuto per nascita. E dopo l’Italia, la Francia, dove ho studiato e dove ho potuto comprendere appieno lo spazio di libertà che mi era dovuto proprio in quanto essere umano. Come me, gli ucraini non sono l’altra parte del mondo. Gli ucraini, e noi tra loro, siamo la nuova Europa. Stiamo vivendo l’esperienza dei migranti in casa nostra. Quegli altri siamo noi. E come cittadina europea ringrazio la nostra Presidente Roberta Metsola per il gesto concreto di andare in Ucraina come rappresentante eletta democraticamente da tutti noi europei. Perché alla fine, se rimettessimo indietro le lancette della Storia, ci renderemmo conto che questa nostra libertà non è un incidente, ma è piuttosto frutto delle speranze e dei sogni delle nostre nonne e dei nostri nonni: loro lo sapevano che solo chi parte dalle rovine e dalla distruzione può sognare i sogni delle generazioni che verranno. L’Europa era il loro sogno, io oggi sono una realizzazione di quei sogni. E sono qui per ricordarvelo, per ricordare insieme che abbiamo un’eredità da tramandare e rinnovare: dobbiamo sognare insieme le vite delle generazioni future per come saranno, domani, negli Stati Uniti d’Europa. Gli Stati Uniti dei nostri Padri Costituenti.

Le parole hanno un peso diverso a seconda di chi le usa

Io non sono uguale a voi, sono diversa. Ma sia chiaro: ciascuna di voi può dire lo stesso. Perché siamo tutte diverse per il bagaglio personale che ogni donna si porta con sé ovunque vada: nel lavoro, nelle comunità dove risiede, in una relazione. Io sono diversa intanto perché vengo da oltre mare e mi sono dovuta conquistare una cittadinanza in un paese, questo, che adesso è il mio paese, quello dove vivo, lavoro e nel quale pago le tasse: tutte le tasse. E tuttavia sono diversa anche oltre questa circostanza, perché nessuna di noi, e neanche io, può determinarsi soltanto sulla base delle esperienze che ha fatto, o magari ha subito. Piuttosto, sono le scelte che ha fatto a determinarla. Perché questo siamo: le nostre scelte, il prezzo che paghiamo per compierle. Le parole stesse che usiamo per esprimerle. Le parole. Come italiana che abita nel fashion district milanese ad esempio posso usare la parola “guerra” o “dittatura” in tutta libertà e leggerezza sui social, ma pure voglio ricordarvi che le stesse parole hanno un peso diverso a seconda di chi le usa: io la guerra l’ho vista quando avevo undici anni, in Albania, e lì ho visto anche la dittatura. Purtroppo, quando uso queste parole, so esattamente di cosa parlo anche se avrei preferito non saperlo. Così, ad esempio, conosco la differenza fra esibire il green pass per cenare in un ristorante al chiuso e tremare alla sola vista della polizia in un paese preda dell’arbitrio di uno psicopatico che fece costruire 170.000 bunker per difendersi dai demoni della propria ignominia. Conosco la differenza fra l’iperbole retorica, insomma, e la realtà della distruzione e dell’umiliazione sistematica degli esseri umani. Conosco cosa vuol dire nascere e crescere dalla parte sbagliata della storia e la fatica che si fa per attraversare il mare e arrivare dall’altra parte. Da questa parte, insomma, in cui si gode della libertà per cui altri e altre hanno combattuto. Altre che sono ormai lontane nel tempo e nel ricordo. Questa parte in cui si crede che la libertà, come bene ereditario, sia data una volta per tutte e in cui si fatica ormai a comprendere che se nessun conflitto sorto fra gli uomini è fra bene e mali assoluti, pur tuttavia, ogni volta, c’è una parte giusta dalla quale stare e una sbagliata da combattere. Vorrei allora concludere testimoniando che noi siamo qui, come donne, a fronteggiare le mille iniquità e le troppe storture di quella che è e resta la parte più giusta della storia.

Enver Hoxha Statua

La demolizione del Teatro Nazionale d’Albania? Un atto di suicidio storico

di Anila Dedaj su Gazeta Shekulli Quale potrebbe essere il futuro di una generazione che ignora il suo passato? Rifiutare la storia e la memoria, anche attraverso il crollo di un edificio storico, significa abbandonarsi alla possibilità di ripetere gli stessi errori, oppure peggio ancora, i crimini. Ignorare la volontà e l’opinione degli artisti, intellettuali e cittadini ci mette in guardia rispetto un’era buia che abbiamo già vissuto. Cosa segna la demolizione del Teatro Nazionale d’Albania, al di là del crollo di un edificio, la cosiddetta “Mecca” della cultura albanese? Per la giornalista italo-albanese Anita Likmeta, attiva nei più importanti media italiani, oggi più che mai non può e non deve essere messa in discussione il Teatro Nazionale, perché chi in Albania parla ogni giorno di progresso dovrebbe essere consapevole che un Paese non può progredire senza cultura, ancor meno senza Storia. La ragazza di Durazzo fu costretta ad abbandonare l’Albania quando era solo una bambina, durante uno dei periodi più fragili del nostro Paese. Ma si sa che a 11 anni, un bambino non può ribellarsi agli abusi di un governo e dei suoi governanti.  Ma oggi, che è riuscita a vincere la sua battaglia contro quel volume di morte che molti di noi hanno conosciuto, Likmeta è decisa ad ostacolare la scelta del governo e a combattere a fianco di connazionali che, come lei, hanno a cuore la storia e la cultura albanese.  Likmeta è un nome popolare per il pubblico italiano quanto per quello albanese, non solo per il suo contributo mediatico, nel campo della tecnologia e dell’innovazione, degli impegni nei gruppi politici, ma anche per la sensibilizzazione alle questioni sociali, in particolare a quelle dell’emigrazione e della storia albanese. Oggi il Teatro Nazionale è anche la sua battaglia. Oltre alla determinazione per sensibilizzare l’opinione pubblica, Likmeta racconta a “Shekulli” di aver inviato una lettera, firmata da scrittori e artisti albanesi come Robert Budina, Rudi Erebera, Kastriot Çipi e Lindita Komani, all’Onorevele Romano Prodi, il quale nel 1998 intervenne in Albania per fermare le navi in direzione delle spiagge italiane che portarono a morte dozzine di albanesi, oltre a dare un’assistenza finanziaria concreta. Secondo la giornalista, in Albania dovrebbe essere istituita una commissione per la verità e la riconciliazione nazionale albanese. “Come ho detto in altre occasioni, c’è una continuità ambigua tra il vecchio e il nuovo sistema ed è necessario dare volto a quei criminali e a quella storia da cui tutti dovremmo prendere le distanze. Questo sarebbe un passo importante verso un’Albania liberale “. A questo punto ci viene da chiederci se oggi l’Albania vive un nuovo sistema totalitario sotto le fragili vesti della democrazia? Secondo Likmeta, per capire se l’Albania sta vivendo una nuova forma di dittatura, il cittadino dovrebbe chiedersi se si sente impotente dinanzi alle scelte che lo Stato impone come punizione contro una migliore coscienza pubblica, piuttosto quando lo Stato costringe i cittadini ad una cooperazione silenziosa.  Anita, da quasi 10 mesi gli artisti albanesi protestano contro la decisione del governo di demolire il Teatro Nazionale. Qual è la tua opinione in merito? Comprendo e condivido appieno la posizione degli artisti, degli scrittori, degli architetti, della cittadinanza e di tutta la classe intellettuale albanese. Il Teatro Nazionale dell’Albania rappresenta un simbolo di quella Storia che ci ha caratterizzato. È una nostra cicatrice, come lo sono anche altre, che dovrebbe fungere da promemoria, ogni volta, per ricordarci quello che abbiamo vissuto, e subito. L’Albania ha attraversato periodi difficili, è stata attraversata da eserciti in varie epoche, dagli svevi agli angioini, ai veneziani, ai cinque secoli di dominazione ottomana, all’invasione fascista, a mezzo secolo buio della dittatura hoxhaista, alla grande diaspora, alle piramidi finanziarie, ai morti del canale di Otranto. Ecco, queste sono solo alcune delle cose che hanno trovato spazio entro i nostri confini. L’Albania è stato teatro di guerra, la via per l’Oriente, la terra di mezzo. L’Europa sta attraversando un periodo delicato, si stanno mettendo in dubbio le fondamenta di principi che pensavamo fossero saldi, si sta mettendo in discussione i valori della democrazia, delle libertà conquistate in oltre 70 anni di pace. Oggi più che mai non si può mettere in discussione il Teatro Nazionale dell’Albania, perché se è vero che il progresso è importante, è tanto vero dire che non c’è progresso senza cultura, non c’è progresso senza analizzare la propria storia. Prima del Teatro Nazionale, in Albania ci sarebbe bisogno di creare una Commissione per la verità e la riconciliazione nazionale albanese, perché, ribadisco come ho fatto già in altre occasioni, c’è una continuità ambigua tra il vecchio sistema e il nuovo e che è necessario dare volto a quei criminali e a quella storia da cui dovremmo tutti prendere le distanze. Questo sarebbe un passo importante verso un’Albania liberale. E quest’ultimo si chiama progresso, da non confondere con l’occidentalismo a cascata.  La legge adottata per il crollo del Teatro Nazionale è stata restituita due volte dal presidente Ilir Meta, a causa di irregolarità. Nonostante questo, i deputati della maggioranza sono tornati in Parlamento con 75 voti a favore. Come vedi la disapprovazione dei parlamentari, non solo la volontà degli artisti, ma anche la decisione del Presidente? In Albania assistiamo ad un revisionismo reazionario, il che spiega le ragioni per cui la classe politica sudditante vuole la demolizione del Teatro Nazionale, uno dei simboli dell’era fascista a Tirana. Questo revisionismo sta aprendo la strada ad una democrazia autoritaria, e chi ha la possibilità di mettere il naso fuori dalla propria porta ne sente subito l’odore, perché é visibile. Perché anche in Albania il capitalismo sta esprimendo la sua natura, spiega la sua ragione attraverso la rivoluzione tecnologica come effetto obbligato: ricchi sempre più ricchi, poveri sempre più poveri ed emarginati dal resto della società. È un regime che si palesa visibilmente, li vediamo questi emarginati ai piedi del Plaza di Tirana, sui semafori che cercano aiuto, sulle stazioni degli autobus quando scendono le loro galline da vendere al mercato. Un mercato padrone, arrogante ed impaziente che disprezza ogni forma di resistenza, ogni forma di antifascismo come quello della lotta al diritto di avere una storia, al diritto di conservare la memoria, al diritto di opporsi perché come diceva Albert Camus “Non esiste destino che non possa essere superato dal disprezzo”.  Quando lo Stato solleva il cittadino dalla responsabilità morale, senza la quale un uomo non può definirsi tale, quel Governo sta trasformando e veicolando ogni tentativo di resistenza pubblica in un suicidio storico. Lei vive in Italia, un Paese in cui il patrimonio culturale è considerato prioritario, preservando attentamente edifici architettonici secolari. Secondo lei, cosa significa per una città come Tirana, per non dire per l’Albania, la scomparsa di uno dei monumenti istituzionali? In Italia è un po’ difficile mettere in discussione i monumenti realizzati in epoca fascista, anche perché sarebbe un investimento generoso visto il numero di opere presenti sul territorio. Tuttavia torno a ribadire che in Albania non si tratta di una scelta culturale, si tratta di business, si tratta del valore che i politici albanesi, incluso il Presidente Meta con il suo silenzio, hanno dato alla nostra Storia perché è di questo che stiamo parlando. Si sono dati una etichetta e si sono messi in vendita. È chiaro che questa è una operazione in cui ci sono molti interessi in ballo. Forse la politica albanese si deve ricordare che non siamo noi a lavorare per loro, ma che il popolo li ha eletti affinché facessero i nostri interessi e non quello dei privati stranieri che con poche briciole si comprano il loro consenso. Se il Teatro Nazionale verrà demolito nessun albanese lo perdonerà, soprattutto la Storia non lo perdonerà. Gli albanesi non hanno bisogno di nuovi centri commerciali, di carrelli della spesa dove trascinare la vergogna. L’Albania non ha bisogno di un nuovo Teatro, l’Albania ha bisogno di affrontare i suoi demoni, di dare un senso alla sua storia, di ricominciare dalla cultura.  Gli artisti albanesi stanno cercando di coinvolgere i media stranieri e istanze politiche su questo tema. Anche lei sta cercando di fermare la distruzione del teatro. Può dirci qualcosa di più sulle sue iniziative? Quello che sto cercando di fare è sensibilizzare sempre di più l’opinione pubblica in merito alla situazione che sta avvenendo in Albania. Abbiamo inviato una lettera a Romano Prodi, il quale ha già avuto modo di intervenire in Albania nel 1998 per fermare le partenze di barconi verso le coste italiane. Ma non ci fermeremo qui, abbiamo intenzione di rivolgerci agli organi europei e perfino all’Unesco se servirà per fermare questo scempio. Il mio è un interesse puramente culturale e storico. Ho lasciato la mia terra natia quando avevo soltanto 11 anni, ero una bambina e non potevo reagire ai soprusi di quel governo che ci lasciò come popolo in balia degli eventi, a bussare come disperati alle porte del mondo. Oggi mi sono conquistata la mia libertà, e ho una voce che non cesserà mai di battersi per perorare la causa e gli interessi dei miei connazionali che combattono come me le  ingiustizie, come quella di demolire un pezzo della nostra Storia e memoria.  Lei è un personaggio pubblico e spesso si fa carico delle cause albanesi. Perché pensa che questo monumento dovrebbe essere preservato? Ha un messaggio per i governanti albanesi riguardo al Teatro Nazionale? Utilizzo i miei canali social per rimanere sempre in contatto con le persone, con i nostri connazionali sparsi per il mondo. Mi piace leggere le loro storie, scambiare opinioni, discutere scelte politiche, gioire degli obiettivi raggiunti. Perché ogni vittoria di un cittadino albanese nel mondo è una conquista per tutti noi che abbiamo lottato stando a testa bassa ad aspettare che arrivasse il nostro momento. Quello che dico agli albanesi è quello che ripeto, e continuo a ripetermi, a me stessa ogni giorno: la dittatura, l’anarchia, le morti, non sono colpa mia. Non sono una mia responsabilità. La responsabilità è singola ed appartiene ad ognuno di noi. Che il valore di una persona si pesa con le scelte che compie ogni giorno. Ma che anche la “non scelta” e il “silenzio” sono una scelta, sono una responsabilità. Per comprendere se l’Albania sta vivendo una nuova forma di dittatura, il cittadino deve chiedersi se si sente impotente dinanzi a scelte che lo Stato impone come condanna contro una migliore coscienza pubblica, quando lo Stato obbliga i cittadini ad un collaborazionismo silente. Quando lo Stato solleva il cittadino dalla responsabilità morale, senza la quale un uomo non può definirsi tale, quel Governo sta trasformando e veicolando ogni tentativo di resistenza pubblica in un suicidio storico. Per cui la domanda che pongo al lettore che sta leggendo sino a qui è: tu, che ruolo e da che parte stai in questa Storia? 

Anita Likmeta

La ragazza di Durazzo si candida in politica in Italia: non dimentico le mie radici!

di Valeria Dedaj La giornalista e blogger Anita Likmeta, grazie al suo bagaglio professionale e la sua volontà di agire, è oggi una delle candidate di uno dei gruppi politici che sta facendo più parlare in Italia, 10 Volte Meglio. In questa intervista racconta i ricordi che custodisce per il suo Paese natio e il suo desiderio di contribuire all’Albania. Anita custodisce caramente i ricordi di un’infanzia trascorsa tra le colline di Rrubjekë, nell’entroterra albanese, quando sognava grandi storie di cui sarebbe stata la protagonista. E con tanta intransigenza Anita Likmeta conserva i valori come la verità, l’onestà e l’integrità come parte inseparabile di lei. Nota per il suo contributo nel mondo della tecnologia e dell’innovazione, all’impegno sulle questioni sociali e all’attenzione sul fenomeno dell’immigrazione, Likmeta si racconta in esclusiva su “Shekulli“, dove condivide emozioni, storie e i suoi piani per il futuro, compresa l’Albania. Se torniamo indietro nel tempo, quali sono i ricordi che salva dell’Albania? Se penso alla mia infanzia, penso alle colline di Rrubjekë. Ricordo quando le terre erano statali, l’immagine di donne e uomini che imbracciavano le loro zappe dirigendosi al lavoro. Ricordo gli abiti modesti, e dai colori opachi, che coprivano le gambe stanche delle donne, le quali affondavano le zappe coordinandosi tra una zolla di terra e l’altra. Ricordo quando mi dissero che mia madre era partita per l’Italia con la prima nave assieme alla sorellina e al fratellino, di appena 9 mesi. Il caos post regime, il primo giorno di scuola a Rrubjekë, il comizio dell’allora Primo Ministro Sali Berisha nel piazzale della scuola gremita da contadini urlanti che vedevano in lui un miracolo, l’eroe che li avrebbe condotti in una dimensione di vita migliore. Ma così non fu e non poteva esserlo. Ricordo gli anni delle piramidi finanziarie, mio zio, che nonostante gli sforzi del nonno a farlo ragionare, vendette casa ma poi perse tutto, e infine disperato e umiliato partì per la Grecia per fare un lavoro misero perché ai cittadini albanesi di quegli anni erano stati depredati anche da quei pochi averi che avevano. La quiete che precedeva la guerra civile del 1996-97. Ricordo quando la TVSH trasmetteva le lezioni per i bambini perché non potevamo andare a scuola a causa delle sommosse in atto. Ricordo le parole di mio nonno che mi diceva che gli albanesi sono un popolo con una grande storia ma che 50 anni di dittatura hanno piegato lo spirito critico nelle persone, il regime ha indebolito la volontà di farsi voce, di farsi coraggio. Nonno era un socialista liberale, e prima di partire per l’Italia mi raccomandò di studiare, mi chiese di non dimenticare mai le radici perché prima o poi si torna sempre da dove si è partiti. Quali erano i suoi primi sogni per il futuro? Da piccola amavo leggere, lessi tutti i libri di cui l’istituto elementare disponeva. Quando rientravo da scuola e portavo a pasciare le pecore nelle terre con mio cugino, mi portavo sempre con me racconti di autori stranieri come Gianni Rodari, piuttosto i classici greci che ho amato tantissimo. Onestamente da piccola non mi era ancora chiaro cosa avrei fatto concretamente, ma sognavo grandi storie di cui sarei stata la protagonista. Eccellevo negli studi, amavo dipingere e avrei voluto studiare arte, ma vivevo in campagna e i nonni erano troppo anziani e non avrebbero potuto seguirmi. La partenza per l’Italia, come è avvenuto? Aveva solo 10 anni, quali i ricordi di questo viaggio sconosciuto per lei? La partenza per l’Italia è un ricordo vivo nella mia memoria. Erano circa le undici del mattino quando io e la mia famiglia partimmo da Durazzo, salita a bordo raggiunsi la poppa e stetti lì tutto il tempo a guardare i volti delle persone. C’era tanta gente, tanti bambini, le loro urla, e poi i pianti. Persone, che forse, si salutavano per l’ultima volta. Stetti lì, aggrappata a quell’istante, all’immagine della mia terra rimpicciolirsi, ad ogni metro. Raggiungemmo Bari nella notte del 3 giugno del 1997. Ricordo i controlli della polizia italiana, le strade illuminate, e poi gli autogrill, e l’odore dei cornetti caldi al cioccolato. Molti albanesi ricordano i loro inizi discriminatori. Ma quanto si è sentita straniera in Italia, e ci sono state persone che le hanno dato una mano per alzarsi, anche moralmente? La prima difficoltà che ho trovato è stata la lingua, trascorsi tutta l’estate a studiare la grammatica italiana perché avevo bisogno di comunicare, di raccontare, di misurarmi con i compagni italiani. Poi le lingue sono diventate una passione per me, oggi ne parlo sei. Sono stati Socrate, Platone, Seneca, Virgilio, Dante, Boccaccio, Petrarca, Manzoni, Marx, Nietzsche, Goethe, Dostoevskij, Čechov, Puškin, Brecht, Levi, Arendt, de Beauvoir, de Saint-Exupéry, Silone, Spinelli, Hajdari ecc. a crescermi, a motivarmi e a credere che potevo realizzare qualsiasi cosa io avessi realmente voluto, e così è stato, nonostante tutte le difficoltà. L’Albania è sempre presente nei miei pensieri. In Italia ha concluso gli studi liceali ed universitari. Poi Parigi è stata un’altra destinazione nella sua formazione. Cosa può dirci in più? Dopo la maturità classica, ho conseguito gli studi all’Accademia di Arte Drammatica “Corrado Pani” a Roma dove ho studiato drammaturgia. Successivamente mi sono iscritta e ho conseguito la laurea in Lettere e Filosofia all’Università degli Studi “La Sapienza”. Poi ho vissuto a Parigi, per due anni, dove ho potuto approfondire gli studi in Filosofia, e dove ho avuto l’opportunità di lavorare ad un documentario in cui ho intervistato artisti, politici, comunicatori, scrittori tra cui Ismail Kadaré. Durante i suoi studi a Parigi ha lavorato ad un saggio storico in merito alle relazioni tra l’Albania e l’Italia durante la Seconda Guerra Mondiale. Ma qual’è il suo rapporto concreto con la sua terra natia durante questo periodo di 20 anni? L’Albania è sempre presente nei miei pensieri, inoltre in Italia sono Co-Founder di una Holding di Comunicazione che si occupa di Digital Transformation e abbiamo sedi in 3 Paesi europei tra cui l’Albania, dove abbiamo una società, Bit2Be Shpk che si occupa di software. Cerco nel mio piccolo di contribuire, anche se mi piacerebbe molto mettere a disposizione le mie conoscenze e professionalità al servizio dell’Albania. Attrice, giornalista, blogger, e non solo. Dove si rispecchia di più Anita? Sopra ogni cosa, a me piace fare. Trovo che sia la cosa più bella in assoluto vedere le tue idee prendere forma. Ad oggi posso dire che, nonostante la storia di cui sono stata co-protagonista assieme ad altri albanesi, ho vissuto la vita che volevo. Non sono attaccata alle cose, tutto ciò di cui ho bisogno è sempre con me. Ho imparato che tutto è in perpetuo movimento e che siamo davvero nulla dinanzi ai grandi eventi della vita. Verità ed integrità sono per me i valori più alti.  Infine, è tra le candidate di un gruppo politico in Italia. Cosa puoi dirci in merito a questo movimento? Il movimento politico nazionale di 10 Volte Meglio è un gruppo composto da professionisti, imprenditori, manager, a cui potrò contribuire portando i miei valori perché oggi più che mai ritengo sia necessario prendere posizione per cambiare lo status quo delle cose. Trovo che in Albania ci sia una continuità ambigua tra il vecchio e il nuovo. Quali sono i suoi obiettivi in questo settore della politica? L’Italia è il Paese in cui ho scelto di vivere, il Paese che, vent’anni fa, mi ospitò dandomi la possibilità di studiare e soprattutto gli strumenti per potermi sollevare e realizzare nella vita. Per me queste sono ragioni più che valide che mi spingono oggi a fare qualcosa per contribuire a un’Italia che sia capace di rispondere al fenomeno della globalizzazione e in grado di misurarsi con le sfide di un’economia mondiale sempre più interdipendente. Perché credo in un’Italia inclusiva, che sia davvero multietnica e multiculturale e che veda nei “New Italians” non un problema, ma una reale risorsa dalle potenzialità ancora inesplorate. Credo nei valori europei del Manifesto di Ventotene, che superino il modello comunitario verso una politica continentale realmente federale e che abbia all’orizzonte il grande sogno europeo cresciuto con la generazione Erasmus: gli Stati Uniti d’Europa. Questo mio impegno nasce dalla profonda convinzione che quello che stiamo vivendo oggi sia un cambiamento tecnologico senza eguali nella storia. Per questo ritengo che una nuova politica debba essere in grado di dare le giuste risposte ai problemi etici e sociali che questo fenomeno comporta, rimettendo sempre al centro le persone. Che cosa pensa dello sviluppo della politica albanese, cosa la incuriosisce? Ha mai sentito il sostegno della politica albanese quando era immigrata?  Nei miei articoli parlo spesso della politica albanese. Ho seguito con molta attenzione le elezioni, e sono rimasta molto colpita dal malcontento generale dei cittadini albanesi, nei loro commenti leggevo la resa, come se votare fosse una perdita di tempo verso uno status quo delle cose già predefinito. Ecco, io credo che bisognerebbe istillare il senso civico in Albania, ma soprattutto sarebbe fondamentale creare una Commissione per la verità e la riconciliazione nazionale albanese, perché credo ci sia una continuità ambigua tra il vecchio e il nuovo, ma che soprattutto non abbiamo dato volti e nomi a quei criminali e a quello storia da cui dovremmo tutti prendere le distanze. Questo sarebbe un piccolo, grande passo sociale verso un’Albania liberale. Per rispondere poi alla tua domanda, non ho mai sentito il supporto della politica albanese, ma sono certa che avranno avuto il loro gran da fare in questi anni. Tuttavia, la sua vita è concentrata sull’Italia, ma ha mai pensato di ritornare in Albania. Se sì, quale sarebbe il contributo che potrebbe dare? Diciamo che non escludo nulla, come dicevo prima mi piacerebbe poter contribuire in maniera visibile e concreta in Albania, mettere il mio bagaglio di esperienze e professionalità al servizio della collettività, e avrei già alcune idee valide, se avessi il sostegno del governo albanese potrei agire diversamente ed essere più veloce. E infine, quali sono i progetti di Anita per il futuro, anche in politica? A breve termine, sogno l’Albania in Europa. Quello che so per certo però è che rimarrò la stessa bambina sognatrice delle colline di Rrubjekë, e in ogni caso integra ed onesta.

Gazmend Freitag.

Gazmend Freitag: sogno il mio Kosovo unito all’Albania, sotto un’unica nazione

Gazmend Freitag è un artista, un pittore per l’esattezza. Nato e cresciuto in Kosovo, nel 1990 dovette abbandonare gli studi in Giurisprudenza, tutte le scuole vennero chiuse in quel periodo, a causa della guerra e dei continui attacchi da parte dell’ex Jugoslavia. A soli 22 anni, Gazmend Freitag si trasferì in Germania, dove ci rimase per una decina d’anni, per poi emigrare di nuovo, e questa volta a Linz, in Austria. E lì, nella famosa e antica Linz, centro del Sacro Impero Romano dal 1489 al 1493, Gazmend ha ricominciato la sua nuova vita, senza dimenticare il suo sogno di rientrare nella sua terra e trovare finalmente il Kosovo unito all’Albania, sotto un’unica nazione. Gazmend Freitag, ci racconti qualcosa di lei, delle sue origini. Sono albanese, classe 1968, sono nato a Pataçan i Poshtëm, in Kosovo. Sono il terzo di cinque fratelli.  Com’è stata la sua infanzia, che ricordi ha? Ho avuto una infanzia molto felice. Sono cresciuto in un ambiente familiare accogliente e numeroso, insomma una tipica famiglia contadina. Avevamo tre case con grandi giardini, un cane, alcune mucche e due grandi cavalli. I miei familiari erano viticoltori.  In che anno avete abbandonato la vostra città natia, che ricordo ha di quel periodo?  A causa della chiusura dell’Università del Kosovo, dove io studiavo Legge, dalla politica aggressiva dell’ex Jugoslavia, decisi di emigrare in Germania. Era il 1990, e io avevo 22 anni.  Come sono stati i primi anni da emigrato? Inizialmente ero molto affranto e il mio pensiero era rivolto sempre alla mia terra natia, nutrivo la speranza di ritornarci a breve termine per completare i miei studi, ma così non è stato. A Balingen conobbi una ragazza tedesca, ci sposammo e vissi con lei per dieci anni, poi il nostro matrimonio finì e io mi trasferii a Linz in Austria, dove vivo solo e mi occupo principalmente di arte figurativa.  Perché sceglieste Linz?  Scelsi questa città perché ci abita il mio quarto fratello Sabedini, il quale è un dottore e qui ha il suo studio. Mi piace la città che è attraversata dal fiume Danubio, la sua natura, il suo carattere multiculturale. La città di Linz è molto presente nei miei lavori, in qualche modo mi sento parte di questa città. Oggi siete un’artista molto apprezzato, qual’è il tema che amate maggiormente?  Sono sincero, non c’è un tema che amo in maniera particolare. I ritratti della mitologia albanese, le figurazioni e i paesaggi della mia terra mi hanno toccato nel mio percorso. Oggi, sono molto interessato alla natura pacifica e al nudo. Il mio interesse per il nudo invece è nato grazie ad Annelies Oberdanner, professoressa di arte all’Università di Linz, che io ho frequentato nel 2013 e 2014. Quanto è presente il Kosovo nei suoi lavori? Il Kosovo è sempre presente nei miei lavori. Giorno dopo giorno sento nell’anima il bisogno di dipingere i miei ricordi nel Kosovo e in Albania, che considero allo stesso modo la mia patria. Penso che sia un processo naturale. Le pitture ad olio “Ura e gurit në Prizren – Il ponte di pietra a Prizren” è stato molto apprezzato dal pubblico, il quale conosce i miei lavori, quella collezione privata appartiene oggi ad un albanese molto benestante che abita a Vienna.  Ha mai pensato di far ritorno in Kosovo?  Con la mente torno in Kosovo e in Albania ogni giorno, ma sono trascorsi quasi 3 decadi da allora e io mi trovo ancora in diaspora. Forse un giorno, io tornerò.  Secondo lei, quali sono i lati positivi e negativi del Kosovo? Sono trascorsi 30 anni e naturalmente il Kosovo e l’Albania sono cambiati, questo è un fattore positivo. Per valutare i fattori negativi dovrei viverci.   Sono molti i giovani che stanno emigrando dall’Albania e dal Kosovo alla ricerca di un futuro migliore, come vedete questo fenomeno? Trovo che la gioventù albanese e kosovara sia meravigliosa, come trovo naturale il loro desiderio di misurarsi con il mondo fuori, per capire e per crescere, per completarsi e rinascere dalle ceneri di un passato troppo ingombrante.  Crede che l’Albania sia pronta per entrare nell’Unione europea? Sì. L’Albania è l’Europa. Gli europei possono imparare dalle vicissitudini e quindi dal passato degli albanesi. Gli albanesi, questo popolo abbandonato, un popolo di pace e democratico, ospitale e fedele.  Cosa pensa invece del futuro del Kosovo in Europa? Credo che il Kosovo come l’Albania entreranno nella grande famiglia europea. Sono convinto che ciò avverrà molto presto. Che rapporti ha con il Kosovo e i kosovari? Sono molto legato al Kosovo e ai kosovari. Oggi, grazie ad internet e ai social network come Facebook ho ritrovato molti amici  e conosciuto molte persone con storie simili alla mia sia dal Kosovo che Albania.  Cosa la colpisce maggiormente ogni volta che rientra in Kosovo e in Albania? Se devo dire la verità, in 27 anni sono tornato in Kosovo soltanto una volta, nel 2003, dove ho avuto la possibilità di visitare anche l’Albania, realizzando così il mio sogno da bambino nel vedere la terra dell’eroe Skenderbeu, piuttosto Naim Frasheri, Migjeni o del grande maestro Ibrahim Kodra. Non ho mai conosciuto in Europa una terra bella, misteriosa, con una natura potente quanto l’Albania. È stato amore a prima vista.  Cosa pensate della politica in Austria, soprattutto delle posizioni in merito all’immigrazione? La politica è una giostra poco interessante per me. Gira sempre su stessa, è nella sua natura non vedere davvero gli altri. È veloce, irrequieta. Ti divora dentro se cerchi di capirla, e anche quando la capisci. Ciò che posso dire è che l’Austria è una nazione vicina alle tematiche dell’immigrazione e gli austriaci si sono sempre prodigati ad aiutare, forse in Europa se ne parla poco ma chi vive e viene a visitare l’Austria lo capisce subito. Poi, l’Austria e l’Albania sono legati da rapporti storici.  Come vede e vive lo stato dell’arte oggi?  La pittura è cibo spirituale e come tale è fondamentale. La lingua dell’arte apre le porte della comunicazione.  Chi sono gli artisti che amate maggiormente? Il genio Leonardo da Vinci, Picasso, Ibrahim Kodra e Lucian Freud sono tra gli artisti che ho amato e che mi hanno ispirato.  Crede che i giovani albanesi e kosovari emigrati saranno capaci di fare la differenza in Kosovo come in Albania? Io posso parlare per me che sono qui, perché non faccio distinzione tra il Kosovo e l’Albania. Il sogno di noi kosovari è sempre stato quello di unirci finalmente all’Albania ed essere finalmente un’unica nazione. Forse, prima o poi, questo avverrà.  Sta preparando una nuova esposizione? Se sì, dove? Attualmente sto curando la mia esposizione all’Ambasciata albanese a Vienna. Ho una offerta per una nuova esposizione personale in Albania per l’anno 2018, ma il progetto è ancora in fase embrionale per cui non posso espormi troppo.  Faleminderit shumë Gazmend.

Alex Majoli © : Magnum Photos

Albania: i giorni dell’odio

Sono trascorsi più di venticinque anni da quando ci furono le prime e libere elezioni in Albania che videro la vittoria di Sali Berisha. Correva l’anno 1992, le città, i paesini e le campagne albanesi erano finalmente libere dal regime comunista di Enver Hoxha. “Siamo liberi” urlavano. “Evviva gli americani” aggiungeva qualcun altro. Le prime navi cominciavano ad abbandonare le coste del Paese in direzione dell’Italia. La mia famiglia era salpata sulla prima di esse, alla volta di Bari. Il mio villaggio si svuotò nel giro di pochi mesi. Nessuno ci riportava notizie, eravamo sconnessi completamente dal resto del mondo. Per fare una telefonata dovevamo camminare a piedi, o a galoppo di un mulo, e fare migliaia di chilometri per raggiungere Maminas, l’unica città che aveva un servizio telefonico pubblico. Le nostre giornate trascorrevano lente, inesorabili. C’era un gran silenzio per le strade. Se non fosse per il fatto che ogni famiglia aveva le armi, di fondo, si poteva dire che non era cambiato nulla rispetto ai giorni della dittatura rossa. Eppure qualcosa stava cambiando, noi che abitavamo nei villaggi eravamo completamente all’oscuro dei fatti che accadevano a Tirana. Trascorrevano settimane prima che una notizia ci raggiungesse. Nel frattempo le scuole riaprirono, io iniziavo la seconda elementare. Ricordo con lucidità il giorno in cui il Primo Ministro Sali Berisha venne a farci visita a Rrubjekë. Il suo arrivo aveva radunato tutti i paesani che lo ascoltavano con attenzione e interesse. Tutti, fummo colpiti dalle parole di Berisha perché non capivamo a quali terreni si riferisse, i contadini erano stati abbandonati a se stessi. Di colpo eravamo passati da un’economia di tipo pianificato alla privatizzazione dei terreni agricoli. Non c’era ordine, giorni, settimane, mesi e anni che trascorrevano nella frustrazione e incertezza, eravamo in balia degli eventi. Così, quando le piramidi finanziarie comparvero come la soluzione a tutti i nostri problemi ci abbandonammo con leggerezza, investendo tutti i risparmi, addirittura c’è chi vendette le proprie case e il proprio bestiame nella speranza di guadagnarci qualcosa. E quando la bolla delle piramidi scoppiò, il popolo era stato già denudato. Non avevamo più nulla. Eravamo soli. Eravamo arrabbiati. Eravamo abbandonati. I civili impugnarono i fucili e si versarono nelle piazze. Si sparava ovunque. Ricordo che la nostra vicina di casa venne colpita da un colpo, e morì tra le urla dei familiari. Per i vicoli vedevo adulti che insegnavano ai bambini a sparare. Quella guerra ci persegue tutti, come in un brutto incubo. Fece uscire il peggio di ognuno di noi. Eravamo piccoli, separati gli uni dagli altri. La dittatura che avevamo vissuto per mezzo secolo ci aveva resi deboli, ci aveva piegato e così rispondemmo con la debolezza, fu questo il nostro peccato.

Tirana, Albania.

Il patriottismo è l’ultimo rifugio di un farabutto

di Irisa Bezhani Samuel Johnson aveva ragione nel pensare che il patriottismo fosse l’ultimo rifugio di un farabutto. Dire di essere patriottici in questo momento storico, equivale a dire di essere nazionalisti. Prova a dire a qualcuno che sei patriottico, e quello subito ti guarderà con occhio diverso, cercherà di cogliere tutti quei dettagli, che prima della tua affermazione aveva ignorato, che dimostrano quale spregevole persona tu sia e poi deciderà se classificarvi come un nemico populista. In realtà la mia è un’innocua esternazione. Patriottico per me significa ben altro da quanto uno possa pensare; in un mondo dove il famigerato populismo prende sempre più piede, dove le tendenze sovraniste e isolazioniste si fanno sempre più forti a discapito delle inclinazioni più favorevoli alla globalizzazione e al multiculturalismo, dire di essere patriottici automaticamente ti inquadra nella prima categoria, e di conseguenza in quella dei “cattivi”. Allora forse bisognerebbe chiarire meglio cosa uno intende per patriottismo, o cosa io intendo per patriottismo. In un Paese come l’Albania, dove la dittatura comunista per quasi mezzo secolo ha creato una società totalmente asservita, piegata dal peso dell’ideologia e della propaganda, il sentimento patriottico ha chiaramente un legame col passato, nel quale lo Stato era Dio. Ma questo sentimento di appartenenza, inteso comunemente con la parola patriottismo, non è, per quello che intendo io, quello malato del regime di Enver Hoxha, ma uno più romantico; una visione della propria patria slegata da complessi di superiorità o da sentimenti negativi verso chi non è uguale a te, anche perché alla fine siamo tutti stranieri per qualcuno; anzi, io trovo che sentirsi sia patriottici che sostenere il multiculturalismo non sia qualcosa di ossimorico. Ovviamente uno può chiaramente obiettare dicendo che non si sceglie il posto dove si nasce, così come non si sceglie in quale famiglia venire al mondo. Sono d’accordo. Nascere in questo mondo è un caso, ti becchi quello che ti capita. Ma allo stesso tempo c’è quel sentimento di appartenenza, di familiarità che ti lega al luogo in cui cresci. Puoi amarlo, o puoi cercare di distanziartene il più possibile, sono scelte entrambe comprensibili. Come infatti scriveva Fosco Maraini nel suo “Segreto Tibet”, citando un vecchio canto himalayano “La patria è soltanto un campo di tende in un deserto di sassi.” I confini sono soltanto linee convenzionali tracciate per separare la terra che in fondo è una. Io sono patriottica, io amo il mio Paese, l’Albania, e poiché lo amo voglio che stia bene, che sia un posto bello in cui vivere. La mia relazione d’amore con l’Albania ha subìto diverse fasi. Quando da bambina sono venuta in Italia, la terra delle aquile mi sembrava come un pagina del passato di cui dimenticarsi. Ero proiettata sul presente e sulla mia vita da italiana cresciuta da genitori albanesi. Ma più avanti ho iniziato ad avere quel senso di nostalgia per l’infanzia, per le estati passate al mare, per l’odore delle strade, ed anche quello più sgradevole della spazzatura. Quando si dice che amare significa anche accettare i difetti dell’altro, allora il mio rapporto con l’Albania è un rapporto d’amore anche per questo. In Albania quasi tutti sono patriottici. Potrai vedere mille bandiere svolazzare tra le grate dei balconi, sentire canzoni che esaltano la nostra terra e le nostre usanze. Bisogna però anche dire che la cultura albanese è, soprattutto in alcune zone del paese, molto arretrata e poco aperta. Siamo un popolo che è fortemente legato all’onore, alla famiglia, un popolo che ancora deve fare i conti con una società patriarcale, che vede la donna utile solo al matrimonio. Ci sono mille difficoltà in Albania, ma proprio per questo mi sento in dovere di fare qualcosa. Sono molti gli albanesi della diaspora che dopo un periodo di tempo passato all’estero tornano in patria e mettono così a disposizione le loro competenze che hanno imparato altrove. Anche per questo ammiro l’Albania, siamo un popolo migrante, un popolo che vive ai quattro angoli del globo nonostante il nostro sia un piccolo Paese di appena tre milioni di abitanti. Non dobbiamo però farci soffocare da un orgoglio malsano, un orgoglio che rende ciechi alle nostre zone d’ombra. Il senso critico è fondamentale se davvero amiamo il nostro Paese. Io sono orgogliosa di essere albanese, perché il profumo di quella terra piena di contraddizioni mi affascina e mi fa sentire a casa. Sono legata al Paese, nonostante ci sia l’Adriatico a separarci, ed è proprio per questo che ho voglia di cambiarlo, e di migliorarlo. La mia generazione di albanesi, nella quale ripongo molta fiducia, sarà il futuro del dell’Albania. Siamo la generazione che non ha vissuto la dittatura, e per questo è meno schiacciata dal passato opprimente, siamo la generazione figlia di immigrati, la generazione dei sognatori che ha l’urgenza di creare un’Albania diversa, per tutti.

Digerire

Mi chiamo Anita Likmeta, sono arrivata in Italia 16 anni fa. Sono l’esempio perfetto di quello che accade oggi nel mondo. Io sono una immigrata proprio come quegli egiziani, libici, somali, etiopi che stanno ammassati in centri che sembrano dei veri e propri campi di concentramento. Io sono una delle migliaia di persone, non rifugiati politici, non profughi di guerra, non immigrati clandestini, ma persone che anni fa hanno attraversato il mare su un barcone, sperando di trovare in Europa qualcosa di meglio rispetto allo scenario di morte che lasciavo. Io vengo dall’Albania. A casa mia c’era la guerra civile, e voi per fortuna non lo sapete, non lo sapete più cosa è una guerra civile. Non sapete più cosa vuol dire quando ci si ammazza tra fratelli, tra cugini, tra vicini di casa, tra un paese e l’altro. Si spara a vista, a qualunque cosa si muova, si entra nelle case, si fanno i rastrellamenti, si stuprano le donne. Così iniziava il mio breve racconto che parlava del mio viaggio pubblicato dal giornale “Il Fatto Quotidiano” il 13 ottobre 2013. Dal giorno in cui pubblicarono questo articolo sono accaduti molti avvenimenti, addirittura anche la televisione mi ha cercata, la mia storia ha fatto un giro incredibile e per me è stato del tutto inaspettato. Ricordo il giorno in cui negli studi di Sky Tg24 mi ospitarono, ricordo i volti dei ministri della Lega, ricordo i loro sguardi nella sala d’attesa. In quel momento alla mia mente sovvenne una frase che il ministro inglese Winston Churchill sosteneva: “I Balcani producono più storia rispetto a quanto ne riescono a digerire”. Ecco la parola digerire mi porta a riflettere molto. Io non ho mai digerito quel modo di guardarmi di talune persone. Non ho mai compreso il motivo per cui negli occhi di chi scrutavo si leggesse una certa predisposizione alla pena, cioè non parlo della ‘pietas umana’ in quanto solidarietà e commossa partecipazione che si può provare nei confronti del dolore degli altri, ma forse più pena come una sanzione giuridica comminata a conseguenza della violazione di un precetto di diritto. È importante per certe persone far comprendere la realtà delle cose. Emanciparsi dalla propria realtà culturale e sociale non è abbastanza, ma ancora di più non è abbastanza se si tratta di una donna. Talvolta mi chiedono “di dove sei?” e io “…vengo dall’Albania” e capisco subito da quel rigurgito l’impertinente pregiudizio. Potrei andare oltre e raccontarvi tanti piccoli episodi di svariata natura e della bassa moralità di talune persone influenti che mi hanno cercato o di chi con sfacciataggine si è proposto ma non ho voglia di fare la sbruffoncella da quattro soldi, non ne ho il tempo. L’oscurantismo, la misoginia nera della vecchia Europa cattolica, chiusa, medievale e assolutista talvolta non ha nulla da invidiare alla peggiore pratica del fondamentalismo islamico. di Anita Likmeta su The Huffington Post

La mia vita cambiò su quel barcone per Bari

Mi chiamo Anita Likmeta, sono arrivata in Italia 16 anni fa. Sono l’esempio perfetto di quello che accade oggi nel mondo. Io sono una immigrata proprio come quegli egiziani, libici, somali, etiopi che stanno ammassati in centri che sembrano dei veri e propri campi di concentramento. Io sono una delle migliaia di persone, non rifugiati politici, non profughi di guerra, non immigrati clandestini, ma persone che anni fa hanno attraversato il mare su un barcone, sperando di trovare in Europa qualcosa di meglio rispetto allo scenario di morte che lasciavo. Io vengo dall’Albania. A casa mia c’era la guerra civile, e voi per fortuna non lo sapete, non lo sapete più cosa è una guerra civile. Non sapete più cosa vuol dire quando ci si ammazza tra fratelli, tra cugini, tra vicini di casa, tra un paese e I’altro. Si spara a vista, a qualunque cosa si muova, si entra nelle case, si fanno i rastrellamenti, si stuprano le donne. Ricordo lucidamente il giorno che precedeva la partenza. Un pomeriggio pieno di nuvole di fine maggio. Non comprendevo la dimensione delle cose. L’idea di partire per I’Italia sembrava un sogno. Nessuno dalle mie parti amava I’Italia. L’Albania è stata invasa dai fascisti, i quali non avevano certo portato la civiltà, né il diritto, né I’arte. Guardavo le mani di mia nonna piene di crepe e ruvide e il suo odore che assomigliava ai legni bagnati dalla pioggia d’inverno. L’ANNUSAVO per fotografare nel mio cuore quell’istante, quel momento che non passava mai, fermo, indeciso, tiepido. Ci alzammo e rientrammo a casa. Udii la voce di mio nonno: “Dov è Nini?”; trattenevo le lacrime, volevo essere più forte delle mie emozioni. Respirai profondamente. Entrai nella stanza dove lui sedeva in un angolo a fumare le solite sigarette. In mezzo alla stanza c’era una stufa a legna e sui lati di essa dei barattoli di vetro con olio di ricino e un filo che si accendeva per illuminare l’ambiente. Un grido, il mio,“Nonnino io me ne vado, vado ora” e mi dipinsi il volto di una espressione felice che volevo gli rimanesse per sempre di me. Lui si alzò nonostante i suoi acciacchi, i suoi occhi erano tristi. Mi mise una mano sul volto e mi disse “E dove vai?”, e io “vado in Italia nonno” e lui “brava, diventa una brava bambina italiana”. La nonna mi prese per mano e mi portò fuori dalla stanza, ma i miei occhi rimasero fissi su di lui e mi ripetevo che sarei ritornata. Fuori ad aspettarmi c’era mio zio con la carrozza trainata dal cavallo che mi avrebbe portato fino alla prossima città e lì avremmo preso I’autobus per arrivare a Durazzo. Partimmo. Vedevo da lontano la casa dei nonni rimpicciolirsi a ogni metro che facevo. A un certo punto tutti i miei amici che si erano nascosti nella collinetta uscirono urlando il mio nome e inseguendo la carrozza tutti insieme. “Ciao Nini, ciao. Anche noi verremmo. Ci vediamo presto.” Urlavamo, piangevamo, ridevamo contemporaneamente. DURAZZO. Dinanzi a me c’erano molti piccoli imbarcaderi, appoggiati vicino al porto che non era più controllato dalle forze dell’ordine. Anarchia totale. Gente che tentava di salire e veniva buttata giù, gente in coda, gente che pagava, gente che tentava di mettere un bagaglio più voluminoso e gli veniva scaricato direttamente in mare, disperati vestiti nei modi più strani, soldi che passavano da una mano all’altra, spintoni, bambini attaccati alle madri che urlavano. Si parte e io rimango seduta a poppa per guardare il mio paese scomparire lentamente. Arrivammo a Bari. Io, mia madre, mio fratello e sorella abbracciati. Ci controllarono come se avessimo i pidocchi. Un amico di famiglia ci portò a Pescara. Sono passati degli anni e io sono cresciuta, ho studiato, ho frequentato I’Accademia d’Arte Drammatica “Corrado Pani”, ho successivamente conseguito la laurea nella facoltà di Lettere e Filosofia, ho lavorato con dignità. La libertà racchiude in sé la possibilità di essere felici. E la possibilità di essere felici non è altro che la possibilità di scegliere: un vestito, la fede, un partito politico e, attenzione, un luogo dove vivere serenamente, lavorare e mettere su famiglia. E’ il cardine del diritto dell’uomo, della convivenza con i suoi simili, il cardine della nostra vita per il quale molti prima di noi hanno lottato e perso la vita, per il quale oggi ancora si lotta e si muore. di Anita Likmeta su Il Fatto Quotidiano