Balcani

Balcani: l’accordo di Prespa sancisce il cambio di nome di Macedonia del Nord

Finalmente l’incontro fra il ministro greco Kyriakos Mitsotakis, il premier albanese Edi Rama e Zoran Zaev, Primo Ministro della Macedonia del Nord, avverrà in settimana ad Atene. Ad organizzare la conferenza è la rivista The Economist per discutere dell’accordo di Prespa che prevede il cambio di nome di Macedonia del Nord. Questo è un incontro molto importante fra questi tre paesi che sono riusciti finalmente a superare le difficoltà sul piano della comunicazione ratificando l’intesa. Questo incontro può rappresentare un nuovo inizio sul piano politico ed economico, oltre a facilitare il processo di adesione in UE per l’Albania. I Balcani rappresentano un ponte importante tra est ed ovest per l’Europa e velocizzare gli accordi è il miglior modo per fronteggiare la crisi, che coinvolge il mondo contemporaneo, e creare nuovi valori e promuovere gli scambi commerciali.

Ex Jugoslavia, 1989. Ph. Steve McCurry.

I Balcani negli interessi delle vacche grasse

di Gëzim Qadraku Sono trascorsi ormai più di venti anni da quando la Jugoslavia iniziò a sbriciolarsi a causa di una delle più brutali guerre dell’ultimo secolo, tutte le realtà che la componevano avevano intrapreso la strada verso l’indipendenza. Nonostante la suddivisione della ex-Jugo in sette Stati, quando si parla di Balcani, si fa ancora riferimento – soprattutto – a quel blocco che costituiva la Repubblica Federale Socialista di Jugoslavia. Quel blocco era governato da Josip Broz Tito, l’uomo capace nel miracolo interno di mantenere insieme popoli di lingue, etnie e religioni diverse, ma anche in ambito internazionale, mantenendo una posizione “neutrale” tra quelle che erano le due superpotenze mondiali dell’epoca: Stati Uniti d’America e Unione Sovietica. Fu Tito infatti, insieme a  Nehru, Sukarno, e el-Nasser a prendere l’iniziativa per formare il movimento dei Paesi non allineati. Un impegno il loro, che aveva come scopo la protezione degli Stati che non volevano schierarsi o essere influenzati dai due giganti mondiali. Nonostante le condizioni della regione balcanica siano completamente cambiate in questi anni, i Paesi che la compongono sembrano poter ambire a giocare un ruolo importante in termini di politica internazionale. Nell’ultimo periodo infatti, parlando di Balcani, l’argomento principale al quale si fa riferimento è l’entrata nell’Unione Europea di tutti gli stati della penisola. Eppure all’inizio del suo mandato, Jean Claude Juncker, Presidente della Commissione europea, la pensava in maniera molto diversa rispetto agli ultimi tempi, nei quali ha addirittura previsto una possibile data, quella del 2025, come anno nel quale l’UE potrebbe allargarsi a 33 membri. Ad avere inciso sul cambiamento di veduta della situazione sono stati fattori esterni che non erano stati previsti da Bruxelles. Mentre l’Unione Europea non prendeva in considerazione i Balcani, questi diventavano il principale corridoio di entrata per l’immenso flusso di migranti provenienti dal Medio Oriente, dando così vita alla crisi migratoria che ha messo in difficoltà le istituzioni europee, a cavallo di un altro episodio piuttosto scomodo: la Brexit. Infine, come pericolo maggiore per gli obiettivi di Bruxelles nella regione, sono arrivati gli investimenti e l’interesse di tre attori internazionali non indifferenti: Russia, Turchia e Cina. Ognuno dei tre ha nella zona un proprio modo di agire e specifici progetti. È utile quindi analizzare singolarmente ogni Paese. Partendo dalla Russia, che nell’area balcanica ha sin dai tempi della guerra giocato un ruolo cruciale, per poi proseguire nel post-conflitto come supporto principale della Serbia, soprattutto nella delicata questione Kosovo, essendo insieme alla Cina, uno dei due Paesi del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite a non aver ancora riconosciuto il Kosovo come Stato indipendente. Mosca inoltre gioca un ruolo cruciale nei Balcani dal punto di vista dei rifornimenti, per il grande flusso energetico che mette a disposizione. Vi è inoltre un legame di tipo identitario con alcuni popoli della penisola, i quali si sentono molto vicini alla Russia, come serbi, macedoni e bulgari, che ne condividono la religione. Restando sul tema del legame identitario, a beneficiare di questa comunanza è la Turchia, la quale porta avanti la dottrina del “neo-ottomanesimo”, cercando di espandere la propria influenza soprattutto nei Paesi come Bosnia e Kosovo, grazie proprio alla condivisione della religione islamica. Due Paesi nei quali l’intenzione di Ankara è quella di investire in maniera massiccia. Inoltre, negli ultimi tempi, il governo turco ha intensificato i contatti e i rapporti commerciali con Belgrado, la capitale serba che dovrebbe essere collegata a Sarajevo, grazie ad un’autostrada o una superstrada. Ad occuparsene sarà proprio la Turchia, che potrebbe in questo modo giocare un ruolo decisivo da intermediario nel miglioramento e nel riavvicinamento dei rapporti tra serbi e bosniaci musulmani. Ma se questo della strada è ancora un progetto teorico, tra Belgrado e Ankara gli accordi commerciali vanno a gonfie vele, con un volume che avrebbe sfiorato il miliardo di dollari nel 2016, secondo i dati OEC. I maggiori settori che legano i due Paesi al momento sono quello metallurgico, tessile e alimentare. Per quanto riguarda il Kosovo invece, la Turchia è, insieme alla Svizzera, il Paese straniero che più ha investito nel giovane Paese balcanico. È di opera turca l’autostrada che collega Prishtina all’Albania. Ma Ankara non si limita ad investire nello sviluppo infrastrutturale, bensì anche nel campo culturale, nel quale si è impegnata a ristrutturare diverse opere ottomane presenti sul territorio kosovaro, chiedendo inoltre di rivedere nei testi scolastici la descrizione dell’impero ottomano. Parallelamente alla politica voluta da Erdogan a Prishtina, c’è stata negli ultimi anni l’apertura di diversi istituti scolastici privati sul territorio, ad opera delle fondazioni vicine a Gülen, nemico numero uno di Erdogan, il quale continua a chiedere la chiusura di queste scuole, le quali sono state nel frattempo fatte costruire anche in Albania, Bosnia e Macedonia. Istituti che nel tempo sono diventati sempre più aperti al mondo internazionale, dove le èlite decidono di mandare i propri figli, come per esempio il presidente del Kosovo Thaçi. L’ultimo dei tre protagonisti è la Cina, l’unico Paese a non avere alcun legame identitario con la zona. Particolare di poco conto, in quanto i cinesi sembrano interessati esclusivamente a fare business. La destinazione principale delle loro attenzioni fino a questo  momento è stata la Serbia, dove il denaro di Pechino non è arrivato in forma di investimenti, ma di prestiti. La presenza degli asiatici viene vista come un fatto positivo sia per lo sviluppo, sia per avere un maggiore consenso sulla causa Kosovo. A giocare un ruolo determinante è la posizione geografica della penisola, che permette di fare da collegamento a quella che sarà la nuova via della seta. I cinesi sono interessati ad esportare il più possibile in Europa e per farlo, hanno bisogno dei migliori collegamenti. Ma le volontà della Cina non si fermano qui, in quanto sempre in Serbia, hanno già acquistato diverse aziende e programmano l’apertura di centri di produzione di beni cinesi. Politica questa, che potrebbe portare diversi vantaggi per Belgrado. C’è da considerare anche il rovescio della medaglia, perché se questo interesse ad investire nel territorio è una buona notizia, d’altra parte, le azioni cinesi sono caratterizzate da poca trasparenza, dall’assenza di appalti pubblici e del mancato rispetto degli standard richiesti dall’UE. Terreno fertile che permette al problema principale che affligge i Balcani di ampliarsi, ovvero la corruzione. Concentrandosi ora invece su quella data, il 2025, evidenziato da Juncker come possibile anno della svolta, viene da chiedersi quanto possa essere fattibile e plausibile un’entrata di tutti e sette gli Stati balcanici nell’UE. I problemi sono diversi e non di poco conto, per citarne alcuni, in Paesi come Albania, Bosnia e Kosovo, la popolazione pensa ancora a come lasciare la propria terra per cercare un futuro migliore in Europa. Il numero di richiedenti asilo albanesi nell’ultimo anno è diminuito, ma 22mila richieste sono ancora una cifra importante. In Bosnia invece, pare che nessuno voglia vedere il problema dello svuotamento del Paese, nell’ultimo anno sarebbero state 150mila le persone ad essersene andate. D’altro canto c’è invece la corruzione, immenso grattacapo per tutti i paesi. Poi vi sono le questioni politiche, come per esempio il miglioramento dei rapporti tra Prishtina e Belgrado, punto fermo richiesto da Bruxelles. Mentre l’Albania deve assolutamente trasformare in realtà la tanto attesa riforma della giustizia. Infine la Macedonia deve risolvere la questione che riguarda il suo nome, con la vicina Grecia. Da questa situazione di forte interesse per la zona balcanica potrebbero trarne beneficio gli investimenti che i tre attori esterni sarebbero pronti ad emettere, cifre importanti che l’Unione Europea al momento non è in grado di permettersi. Questa intrusione esterna sta allo stesso tempo allarmando Bruxelles, che vuole subito ricorre ai ripari per ritornare ad essere il protagonista principale nella penisola balcanica. I governi, dalla loro parte, dovrebbero impegnarsi nel risolvere i problemi interni e permettere alla popolazione di poter vivere stabilmente nella loro terra madre. Successivamente, con quella che potrebbe essere l’integrazione europea e gli investimenti turchi, cinesi e russi, i Balcani potrebbero seriamente rifiorire e diventare importanti in tutti i campi.

Gëzim Hajdari

Gëzim Hajdari: storia del dissidente fra Albania e Italia

Gëzim Hajdari, ci racconti un po’ di lei, delle sue origini, della sua famiglia.  Sono nato nel 1957, in Darsìa. (Lushnje), in Albania, in una famiglia di ex-proprietari terrieri e commercianti, i cui beni sono stati confiscati durante la dittatura comunista di Enver Hoxha. Negli anni ’30 la mia famiglia possedeva due negozi nel pieno centro della città di Lushnje, una macchina, centinaia di ettari di terreni, boschi e bestiame. Mio padre a sedici anni si unì alla Resistenza partigiana. Dopo la guerra studiò a Tirana come geometra-ragioniere. Ha lavorato per alcuni anni presso l’ufficio del catasto di Lushnje, città dove è nata anche mia madre. Nur è una donna semplice e generosa come la madre terra. È cresciuta con le suore italiane, che avevano il convento vicino a casa sua. I suoi genitori lavoravano come agricoltori. Sono molto legato a Nur, che è sempre presente nella mia opera. Quando mio nonno, Velì Hajdari venne dichiarato kulak, i dirigenti del Partito comunista decisero di licenziare mio padre. La casa di mio nonno veniva frequentata dai dervish, membri della confraternita mistica dei bektashi, di cui faceva parte anche la mia famiglia. Per il resto della sua vita mio padre ha lavorato come pastore di buoi della cooperativa comunista ricevendo a fine mese dallo Stato i soldi che bastavano solo per comprare il pane quotidiano. Ogni mattina, quando andava nei campi, nel sacco, insieme al desinare, Nur gli metteva un romanzo da leggere. Era un grande lettore, amava i classici russi, francesi e inglesi. Nelle notti invernali ci raccontava le saghe che aveva letto durante la giornata. Attorno al caminetto, in silenzio, noi bambini ascoltavamo rapiti. Spesso, ci commuovevamo al suo raccontare. Alla luce pallida della candela ci lacrimavano gli occhi. Il racconto più struggente fu la storia di Anna Karenina. Una volta mia madre gli disse, mentre asciugava il volto, «Basta Rizà con questi romanzi, i figli si commuovono». Ma egli non smise mai di raccontare ciò che leggeva di giorno mentre pascolava i buoi. Ogni sera ci sedevamo attorno al caminetto, aspettando con impazienza di ascoltare una nuova saga. Il resto della mia vita appartiene alle lotte per la libertà e per la democrazia del mio Paese, denunce contro i crimini della dittatura comunista di Hoxha e contro gli abusi e le speculazioni dei nuovi regimi mascherati, disillusioni, minacce di morte, fughe, esili, condanne al silenzio da parte della mafia politica e culturale di Tirana; più di dodici anni di mestieri diversi come manovale per sopravvivere, sia in Patria che in Occidente, studi infiniti, viaggi in Africa, in Asia e nel sud del mondo testimoniando diverse e dimenticate realtà, spesso rischiando anche la vita. Lei ha iniziato giovanissimo a comporre poesia, come è nata questa passione? Ho iniziato a scrivere al primo anno delle medie, all’età di undici-dodici anni. La persona che mi ha fatto innamorare della la poesia è stato mio nonno paterno e poi mio padre, il quale recitava a noi bambini, prima di dormire, i canti epici dedicati ai guerrieri leggendari quali «Mujo», «Halil», «Gjergj Elez Alia» e  «Aikuna piange il figlio Omero». Mentre della la lirica popolare mi fece innamorare lo zio di mia madre Selìm. Quando frequentavo le medie nella città di Lushnje, spesso dormivo dai miei nonni materni. Questo accadeva quando faceva brutto tempo e non potevo tornare nel villaggio. Allora preferivo trascorrere la notte presso i miei nonni anziani. Mio nonno era molto affezionato a me, diceva a mia madre che assomigliavo a lui. Suo fratello Selìm aveva fatto il nizam, così venivano chiamati in turco i soldati albanesi che combattevano per conto della Sublime Porta di Istanbul, durante il dominio degli Ottomani nei Balcani. Egli aveva combattuto in Iran e Iraq per diversi anni. Non si sposò, visse il resto della sua vita con i ricordi degli anni del nizam. Ogni persona che incontrava gli raccontava la sua vita da soldato nei deserti lontani. I suoi racconti mi affascinavano molto. Spesso Selìm, dopo avermi raccontato dei lunghi viaggi per i deserti, degli addestramenti faticosi, delle battaglie feroci con i nemici dell’impero Ottomano, della morte dei suoi commilitoni, iniziava a cantare con una bellissima voce dei canti che raccontavano di tutto questo. Ho portato sempre con me l’amore per i canti dei nizam. Finché un giorno decisi di tradurre questo patrimonio inestimabile del popolo albanese in italiano. Il volume «I canti dei nizam / Këngët e nizamit» è stato pubblicato nel 2012 da Besa Editrice.           Quali sono stati i primi autori che ha letto e quali quelli che hanno lasciato un’impronta su di lei?  Le opere degli autori che ho letto mentre frequentavo le medie e i primi anni del Ginnasio sono: «Le Quartine» di Omar Khayam; «Il Gulistan» di Saadi Shiraz; «Anna Karenina» di Tolstoj, i racconti di Čechov; le liriche di Puskin, Sergej Esenin ed Éduard Bagrickij; «Il Demone» di Lermontov; «Foglie d’erba» di Walt Whitman; «I quartieri del mondo» di Jannis Ritsos; «Decameron» di Boccacio; «Il De rerum natura» di Lucrezio; «L’inferno» di Alighieri; «La Saga dei Forsyte» di Galsworthy; i racconti dello scrittore indiano Krishan Chander; «Il rosso e il nero» di Stendhal e le liriche di Heinrich Heine. Questi grandi autori, tradotti magistralmente in albanese, hanno segnato per sempre il mio destino di poeta. Come ha vissuto la relazione con la sua passione durante gli anni del regime? Gli anni del regime di Enver Hoxha albanese rimarranno sempre un mistero per me, ma anche per gli albanesi. Nessuno di noi sapeva quello che accadeva nel cuore del potere comunista, per non parlare poi dei campi di internamento e delle prigioni. Nulla trapelava al di fuori delle mura dei recinti della dittatura del proletariato. E forse nulla si saprà dato che l’altra metà della verità storica si nasconde negli archivi segreti, ormai ‘ripuliti’, dai regimi post comunisti di Tirana. Quindi un poeta come me viveva tra passione per la poesia e il terrore. Quando si inaspriva la lotta di classe, la mia famiglia veniva etichettata come nemica del partito comunista, invece quando la lotta di classe viveva un periodo di ‘pausa’ riuscivamo a vivere. Sono testimone vivente di molti arresti: “In nome del popolo siete in arresto!” da parte del Sigurim, la polizia politica del regime. Dopo ogni cittadino arrestato, la gente sussurrava: “Chissà a chi toccherà domani!”. Si poteva finire dietro le sbarre anche per una ‘parola’, per una ‘metafora’ oppure per un ‘sogno’. Io avevo come compagno di banco nel Ginnasio Jozef Radi, figlio dell’intellettuale Lazer Radi, perseguitato politico, il quale viveva nel campo di internamento di Savër, Lushnje. Davanti al mio Ginnasio di tanto in tanto, passavano i carri militari carichi di uomini, donne e bambini deportati. Venivano da tutte le parti del Paese, per passare il resto della loro vita nei lager della mia città. Mentre furgoni con i finestrini bloccati dalle sbarre, portavano i prigionieri politici. Sono state le letture dei classici che mi hanno ‘salvato’ e, allo stesso tempo, temprato la mia consapevolezza di poeta nei tempi bui della storia albanese. Mentre il paesaggio brullo e mistico della mia provincia collinosa di Darsia mi dava un po’ di conforto negli anni della mia gioventù. Quando avvenne la scelta di abbandonare l’Albania? Quali furono le ragioni che la spinsero a tale scelta? Nell’inverno del 1991, sono stato tra i fondatori del Partito Democratico e del Partito Repubblicano della città di Lushnje, partiti d’opposizione, e fui eletto segretario provinciale per i repubblicani nella suddetta città. Sono cofondatore del settimanale di opposizione Ora e Fjalës. Più tardi, nelle elezioni politiche del 1992, mi sono presentato come candidato al parlamento nelle liste del PRA, ma non venni eletto. Nel corso della mia intensa attività di esponente politico e di giornalista d’opposizione, ho denunciato pubblicamente e ripetutamente i crimini, gli abusi, la corruzione economica e culturale, nonché le speculazioni della vecchia nomenclatura di Hoxha e della più recente fase post-comunista. Anche per queste ragioni, a seguito di ripetute minacce subite, sono stato costretto, nell’aprile del 1992, a fuggire dal mio Paese. Del resto, capì che il cosiddetto cambiamento democratico albanese non era altro che un gioco sporco deciso già a tavolino. La vecchia nomenclatura comunista di Enver Hoxha, con l’aiuto dei ‘poteri oscuri’ dall’oltre Oceano, si sono impossessati di nuovo del potere politico, economico e culturale del Paese delle aquile. I cosiddetti ex-perseguitati politici durante il comunismo, invece di fondare un loro partito, per aprire la strada ad un cambiamento radicale dell’amministrazione, della società e dello Stato,  preferirono dividere il potere e le ruberie con i loro boia. È così che è stato ucciso definitivamente il sogno della libertà, della vera democrazia e della sovranità dell’Albania. Come sono stati i primi anni da emigrante? I primi anni in Italia sono stati molto duri. Avevo trentacinque anni e dovevo iniziare da zero. In tasca non avevo nessun centesimo, prima di partire da Durazzo avevo in tasca i soldi del biglietto solo di andata. Avevo perso tutto. Sconfitto. Per sopravvivere ho dovuto lavorare come pulitore di stalle, zappatore, manovale, aiuto tipografo. E nel frattempo frequentavo un’altra facoltà in Lettere Moderne alla Sapienza di Roma pagando tutte le tasse universitarie, oltre l’affitto di casa e da mangiare. Era l’inizio degli anni ’90. L’Albania a quel tempo si identificava con le prostitute, con gli assassini, i ladri, stupratori. Un poeta come me dove essere tre volte più bravo dei suoi colleghi italiani e quelli che provenivano da altri Paesi. Le domande provocatorie nei miei confronti in quanto uomo di cultura e cittadino albanese erano all’ordine del giorno. Inoltre dovevo scrivere sia in albanese che in italiano dato che non avevo lettori albanesi. Le prime raccolte poetiche le ho pubblicate di tasca mia. Non conoscevo nessun editore italiano. Ci voleva denaro e tempo per andare a contattare degli editori nelle grandi città. Io lavoravo dalla mattina e rientravo a casa la sera e non potevo fare nulla. È il caso di raccontare un fatto triste che mi è accaduto durante i primi mesi in Italia. A quel tempo facevo dei lavori saltuari come manovale, i datori di lavoro a volte mi pagavano, a volte no. Nei primi mesi trovai rifugio presso alcuni miei connazionali. La casa dove loro risiedevano era stata offerta dal Comune, quindi non pagavano affitto. Questi signori all’inizio mi hanno ospitato, poi un giorno mi cacciarono di casa. Li ho pregati di stare ancora qualche settimana affinché trovassi un lavoro che mi poteva permettere di affittare una stanza, ma nulla da fare. Mi ricordo che andavo in giro per la città bussando casa per casa chiedendo lavoro, ma appena le persone sentivano la parola ‘albanese’, chiudevano la porta dicendomi: “Vada via, siete dei ladri e criminali!”. Forse avevano ragione, nei primi anni ’90 gli albanesi occupavano le prime pagine della cronaca nera sui giornali e dei media italiani. Finché un giorno ho trovato lavoro come manovale presso una piccola ditta edile. Finalmente sono riuscito a trovare alloggio in un rudere disabitato da mezzo secolo dove l’affitto era basso. Perché sceglieste di vivere in Italia? Ho scelto l’Italia perché i nostri popoli hanno condiviso lo stesso destino durante la storia. L’Italia è stata sempre la grande porta che ha collegato l’Albania con il resto dell’Europa. E poi la lingua e la cultura italiana mi è stata sempre molto familiare. Non dobbiamo dimenticare che la letteratura albanese è nata in latino. Quali erano allora i rapporti che aveva con la classe intellettuale italiana, come fu l’accoglienza? I primi anni per me sono stati anni di fatica enorme, sofferenza e grande angoscia esistenziale. Non c’era tempo per fare “l’intellettuale“. L’intellettuale in Italia e all’estero lo facevano i poeti e scrittori del realismo socialista di Tirana, che insieme ai loro colleghi perseguitati fino a ieri durante il regime comunista, venivano nominati addetti culturali, ambasciatori, direttori della Fondazione Soros, oppure venivano ospitati nelle residenze di scrittura ovunque per Europa. Quei pochi poeti come me che denunciavano pubblicamente gli abusi, la corruzione e i traffici tra mafia e governanti, venivano etichettati come nemici dell’Albania.  Per me si trattava di lottare giorno e notte per …

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