Bari

Alex Majoli © : Magnum Photos

Albania: i giorni dell’odio

Sono trascorsi più di venticinque anni da quando ci furono le prime e libere elezioni in Albania che videro la vittoria di Sali Berisha. Correva l’anno 1992, le città, i paesini e le campagne albanesi erano finalmente libere dal regime comunista di Enver Hoxha. “Siamo liberi” urlavano. “Evviva gli americani” aggiungeva qualcun altro. Le prime navi cominciavano ad abbandonare le coste del Paese in direzione dell’Italia. La mia famiglia era salpata sulla prima di esse, alla volta di Bari. Il mio villaggio si svuotò nel giro di pochi mesi. Nessuno ci riportava notizie, eravamo sconnessi completamente dal resto del mondo. Per fare una telefonata dovevamo camminare a piedi, o a galoppo di un mulo, e fare migliaia di chilometri per raggiungere Maminas, l’unica città che aveva un servizio telefonico pubblico. Le nostre giornate trascorrevano lente, inesorabili. C’era un gran silenzio per le strade. Se non fosse per il fatto che ogni famiglia aveva le armi, di fondo, si poteva dire che non era cambiato nulla rispetto ai giorni della dittatura rossa. Eppure qualcosa stava cambiando, noi che abitavamo nei villaggi eravamo completamente all’oscuro dei fatti che accadevano a Tirana. Trascorrevano settimane prima che una notizia ci raggiungesse. Nel frattempo le scuole riaprirono, io iniziavo la seconda elementare. Ricordo con lucidità il giorno in cui il Primo Ministro Sali Berisha venne a farci visita a Rrubjekë. Il suo arrivo aveva radunato tutti i paesani che lo ascoltavano con attenzione e interesse. Tutti, fummo colpiti dalle parole di Berisha perché non capivamo a quali terreni si riferisse, i contadini erano stati abbandonati a se stessi. Di colpo eravamo passati da un’economia di tipo pianificato alla privatizzazione dei terreni agricoli. Non c’era ordine, giorni, settimane, mesi e anni che trascorrevano nella frustrazione e incertezza, eravamo in balia degli eventi. Così, quando le piramidi finanziarie comparvero come la soluzione a tutti i nostri problemi ci abbandonammo con leggerezza, investendo tutti i risparmi, addirittura c’è chi vendette le proprie case e il proprio bestiame nella speranza di guadagnarci qualcosa. E quando la bolla delle piramidi scoppiò, il popolo era stato già denudato. Non avevamo più nulla. Eravamo soli. Eravamo arrabbiati. Eravamo abbandonati. I civili impugnarono i fucili e si versarono nelle piazze. Si sparava ovunque. Ricordo che la nostra vicina di casa venne colpita da un colpo, e morì tra le urla dei familiari. Per i vicoli vedevo adulti che insegnavano ai bambini a sparare. Quella guerra ci persegue tutti, come in un brutto incubo. Fece uscire il peggio di ognuno di noi. Eravamo piccoli, separati gli uni dagli altri. La dittatura che avevamo vissuto per mezzo secolo ci aveva resi deboli, ci aveva piegato e così rispondemmo con la debolezza, fu questo il nostro peccato.

La mia vita cambiò su quel barcone per Bari

Mi chiamo Anita Likmeta, sono arrivata in Italia 16 anni fa. Sono l’esempio perfetto di quello che accade oggi nel mondo. Io sono una immigrata proprio come quegli egiziani, libici, somali, etiopi che stanno ammassati in centri che sembrano dei veri e propri campi di concentramento. Io sono una delle migliaia di persone, non rifugiati politici, non profughi di guerra, non immigrati clandestini, ma persone che anni fa hanno attraversato il mare su un barcone, sperando di trovare in Europa qualcosa di meglio rispetto allo scenario di morte che lasciavo. Io vengo dall’Albania. A casa mia c’era la guerra civile, e voi per fortuna non lo sapete, non lo sapete più cosa è una guerra civile. Non sapete più cosa vuol dire quando ci si ammazza tra fratelli, tra cugini, tra vicini di casa, tra un paese e I’altro. Si spara a vista, a qualunque cosa si muova, si entra nelle case, si fanno i rastrellamenti, si stuprano le donne. Ricordo lucidamente il giorno che precedeva la partenza. Un pomeriggio pieno di nuvole di fine maggio. Non comprendevo la dimensione delle cose. L’idea di partire per I’Italia sembrava un sogno. Nessuno dalle mie parti amava I’Italia. L’Albania è stata invasa dai fascisti, i quali non avevano certo portato la civiltà, né il diritto, né I’arte. Guardavo le mani di mia nonna piene di crepe e ruvide e il suo odore che assomigliava ai legni bagnati dalla pioggia d’inverno. L’ANNUSAVO per fotografare nel mio cuore quell’istante, quel momento che non passava mai, fermo, indeciso, tiepido. Ci alzammo e rientrammo a casa. Udii la voce di mio nonno: “Dov è Nini?”; trattenevo le lacrime, volevo essere più forte delle mie emozioni. Respirai profondamente. Entrai nella stanza dove lui sedeva in un angolo a fumare le solite sigarette. In mezzo alla stanza c’era una stufa a legna e sui lati di essa dei barattoli di vetro con olio di ricino e un filo che si accendeva per illuminare l’ambiente. Un grido, il mio,“Nonnino io me ne vado, vado ora” e mi dipinsi il volto di una espressione felice che volevo gli rimanesse per sempre di me. Lui si alzò nonostante i suoi acciacchi, i suoi occhi erano tristi. Mi mise una mano sul volto e mi disse “E dove vai?”, e io “vado in Italia nonno” e lui “brava, diventa una brava bambina italiana”. La nonna mi prese per mano e mi portò fuori dalla stanza, ma i miei occhi rimasero fissi su di lui e mi ripetevo che sarei ritornata. Fuori ad aspettarmi c’era mio zio con la carrozza trainata dal cavallo che mi avrebbe portato fino alla prossima città e lì avremmo preso I’autobus per arrivare a Durazzo. Partimmo. Vedevo da lontano la casa dei nonni rimpicciolirsi a ogni metro che facevo. A un certo punto tutti i miei amici che si erano nascosti nella collinetta uscirono urlando il mio nome e inseguendo la carrozza tutti insieme. “Ciao Nini, ciao. Anche noi verremmo. Ci vediamo presto.” Urlavamo, piangevamo, ridevamo contemporaneamente. DURAZZO. Dinanzi a me c’erano molti piccoli imbarcaderi, appoggiati vicino al porto che non era più controllato dalle forze dell’ordine. Anarchia totale. Gente che tentava di salire e veniva buttata giù, gente in coda, gente che pagava, gente che tentava di mettere un bagaglio più voluminoso e gli veniva scaricato direttamente in mare, disperati vestiti nei modi più strani, soldi che passavano da una mano all’altra, spintoni, bambini attaccati alle madri che urlavano. Si parte e io rimango seduta a poppa per guardare il mio paese scomparire lentamente. Arrivammo a Bari. Io, mia madre, mio fratello e sorella abbracciati. Ci controllarono come se avessimo i pidocchi. Un amico di famiglia ci portò a Pescara. Sono passati degli anni e io sono cresciuta, ho studiato, ho frequentato I’Accademia d’Arte Drammatica “Corrado Pani”, ho successivamente conseguito la laurea nella facoltà di Lettere e Filosofia, ho lavorato con dignità. La libertà racchiude in sé la possibilità di essere felici. E la possibilità di essere felici non è altro che la possibilità di scegliere: un vestito, la fede, un partito politico e, attenzione, un luogo dove vivere serenamente, lavorare e mettere su famiglia. E’ il cardine del diritto dell’uomo, della convivenza con i suoi simili, il cardine della nostra vita per il quale molti prima di noi hanno lottato e perso la vita, per il quale oggi ancora si lotta e si muore. di Anita Likmeta su Il Fatto Quotidiano