Diritti

Immigrazione

Il nuovo Olocausto si chiama immigrazione, ed avviene nel Mar Mediterraneo

Accade in tutto il mondo: i migranti oggi sono ammassati in veri e propri campi di concentramento, costretti dietro dei muri. I primi vent’anni del Duemila non sono poi tanto diversi da quelli del Novecento.   Non vi racconterò la mia storia, perché sarebbe uguale alla storia dei milioni di migranti che scappano dalle proprie case, dalla propria terra, a causa delle dittature, delle guerre e della povertà. Sarebbe soltanto un eco retorico e autoreferenziale, e probabilmente l’ennesimo. La storia dell’albanese sfortunato, partito sulla nave Vlora, che alla fine ce l’ha fatta. Ma non sarebbe reale, e non sarebbe vera, e soprattutto non renderebbe giustizia agli incontabili morti di questi anni, a cui abbiamo taciuto persino la storia. Eppure anche la mia storia potrebbe essere l’esempio perfetto di quello che accade oggi nel Mondo. Sono una migrante, proprio come quegli egiziani, libici, somali, etiopi, siriani, messicani: i migranti del Mondo che oggi sono ammassati in dei veri e propri campi di concentramento, costretti dietro dei muri, che a guardarli sembra che i primi anni venti del Duemila non siano poi tanto diversi da quegli anni Venti di inizio Novecento. Sono semplicemente una delle migliaia di persone, non rifugiati politici, non profughi di guerra, non clandestini, non richiedenti asilo, non migranti economici, che è riuscita a sopravvivere e a concludere quel viaggio. Sono cioè solo fortunata. Badate bene, non etichette, sto parlando di persone, che anni fa hanno attraversato un confine, magari il mare, sperando di trovare in un’altra parte del Mondo, nel mio caso in Europa, una speranza di una vita migliore, rispetto allo scenario di morte o disperazione che lasciavano. Perché negli anni Novanta la mia terra era diventata un posto pericoloso in cui vivere. Perché in ogni parte del Mondo, quando la gente è ridotta alla fame, è disposta a tutto, fino a piegare l’aria all’odore del piombo. Oggi però ho una nuova casa: l’Italia. Certo, non dimentico la mia Patria natia, ma ne ho anche una adottiva, che fra alti e bassi è riuscita a darmi un’opportunità. In ogni parte del Mondo, quando la gente è ridotta alla fame, è disposta a tutto, fino a piegare l’aria all’odore del piombo. Ma i migranti oggi sono ammassati in dei veri e propri campi di concentramento. Non è stato un percorso facile da affrontare, nemmeno quello dopo quel viaggio: in Italia ho conosciuto anche il razzismo, il sessismo, i luoghi comuni sui migranti in genere, e nel mio caso quelli sugli albanesi, ma ho conosciuto anche la Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’Uomo e delle libertà fondamentali, la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea e la Dichiarazione universale dei diritti umani; cioè ho scoperto che come persona avevo dei diritti inalienabili, cioè che avevo diritto ad esserci, e che non mi poteva essere negato. Ma soprattutto in Italia ho avuto la possibilità di scegliere di studiare, di scegliere un percorso di vita, di scegliere uno stile di vita: in Italia ho scoperto che potevo avere un mio pensiero, e che poteva essere idealmente diverso da tutti, libero e critico, che potevo esporlo nei modi e nei metodi che ritenevo più opportuni, nel rispetto di me stessa e degli altri. Mi ha permesso di essere oggi qui, come giornalista, e raccontarvi questa storia. Forse voi non ci pensate, forse chi nasce qui pensa che sia davvero normale essere liberi, intendo liberi davvero, e che sia sempre così e ovunque. Ma no, non lo è. Ed essere migrante ti permette di apprezzarlo in un modo nuovo, unico. Di respirare l’aria e sentirne davvero l’odore. Perché se oggi sono qui a raccontarvi tutto questo, è davvero grazie a questo viaggio. Sono milioni i migranti che sono partiti, che partono, e migliaia quelli che non sono mai arrivati, e che non arriveranno mai a destinazione. Essere qui stasera, per me, è un onore e un privilegio, ma lo sarà fino in fondo, solo se rispetterò la memoria di chi è stato meno fortunato di me; magari perché un gommone è affondato, magari perché ucciso ancora prima di partire, magari perché non aveva i soldi per pagarsi lo scafista di turno. Voi forse non ci pensate, ma sta succedendo anche in questo momento, e c’è un’Anita, su quel confine, a cui stanno impedendo di pensare, di parlare, di realizzarsi, di vivere, di esistere. Di non essere, solo perché non si è nati in quella parte di Mondo che s’illude di meritarselo più degli altri. In Italia ho conosciuto anche il razzismo, il sessismo, i luoghi comuni sui migranti in genere. Ma ho conosciuto anche la Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’Uomo e delle libertà fondamentali, ho scoperto cioè che come persona avevo dei diritti inalienabili. Vedete, quando muore un cittadino occidentale, a Parigi come a New York, vengono eretti memoriali, vengono intitolate piazze e strade, si riempiono giustamente i giornali e i telegiornali con la cronistoria della vita di ciascuna di quelle persone; ma quando muore un migrante, beh, allora si tace. E quel silenzio è assordante quanto il senso di colpa che cerchiamo di nascondere. Quell’individuo, senza nome, senza documento, a cui è negata persino la Storia, è spesso solo un numero su una bara: il Migrante Ignoto, quello che abbiamo visto sfilare in tutti questi anni a Lampedusa, e che si è perso in quel grande cimitero blu che è diventato il Mar Mediterraneo. Perché le nostre torri gemelle, quelle europee, sono oggi in fondo al Mare Nostrum; nostro perché degli albanesi, degli italiani, dei francesi, degli spagnoli, dei greci, nostro perché di tutti noi europei. Negli anni Novanta, la guerra e l’anarchia sconvolsero il mio Paese, l’Albania. Una volta erano gli italiani a lasciare la propria terra, le proprie case, i propri affetti, nella speranza del sogno americano; ieri lo era l’Albania dei barconi, di chi attraversava l’Adriatico verso l’illusione del sogno italiano. Ma questo è accaduto tante altre volte, anche altrove, in tempi e Paesi diversi: qualcuno che lasciava la propria miseria, in cerca di una speranza. È accaduto, e accadrà ancora. Perché i migranti non sono quelli che vengono a rubarvi il lavoro, a occuparvi le case, ad approfittare di questo o quell’altro. I migranti, sono anche Anita. Persone, come voi e come me, che hanno diritto ad una speranza, ad un sogno, ad una vita. E spero che dopo stasera, prima di dire quella parola razzista che non andrebbe mai detta, ve lo ricorderete.

La piccola Angela Merkel, figlia di profughi siriani, simbolo della sottomissione al sistema tedesco

Mamon e Tema Alhamza sono una giovane coppia siriana arrivata in Germania a ottobre del 2015. Oggi vivono nel campo profughi di Duisburg. La signora Alhamza il 27 dicembre ha dato alla luce una bambina chiamandola con il nome più tedesco che c’è: Angela Merkel. Proprio così: Angela Merkel, in onore del Cancelliere tedesco. La piccola Angela Merkel, nata di 3 chili e 300 grammi e lunga 55 centimetri, e la sua mamma Tema stanno bene e sono stati seguiti dall’équipe dell’ospedale St. John di Duisburg. Gli Alhamza sono originari del nord della Siria. I due giovani hanno deciso di emigrare a causa dei combattimenti cruenti tra il Daesh e i curdi. La signora Alhamza era incinta quando si è imbarcata per il viaggio verso l’Europa. “Qui, l’ospedale è fantastico, meglio che in Siria. Mi hanno trattata benissimo”, dice la signora Alhamza. “La Germania è come una madre per noi. Io posso vedere soltanto qui il futuro della mia famiglia”, conclude il padre di Angela Merkel. La piccola Angela Merkel, che gode di ottima salute, è stata registrata all’Ufficio anagrafe della città di Duisburg che non ha fatto obiezioni ai genitori che volevano dare come nome della bambina il nome e cognome del Cancelliere tedesco. Questo non è un fatto del tutto nuovo. Un’altra coppia, originaria del Ghana, ad agosto 2015 ha dato il nome e cognome del Cancelliere tedesco alla propria figlia e secondo la stampa tedesca il numero di queste Angela Merkel di importazione è in continua crescita. In Italia non ci sono casi di immigrati che hanno deciso di chiamare il loro figlio con il nome del presidente del Consiglio Matteo Renzi o di Silvio Berlusconi, scelta che forse non passerebbe neanche il vaglio della nostra anagrafe. Tornando al Cancelliere Angela Merkel e ai suoi numerosi fan arabi che la omaggiano nel modo più simbolico possibile, mi ritorna in mente la guerra inAlbania nel 1997. Ricordo, avevo undici anni, quando una moltitudine di immigrati, contadini dell’entroterra albanese o magari avanzi di galera, videro nella nostra guerra civile la possibilità di scappare e rifarsi una vita in Italia. Tanti di loro chiedevano ai loro figli di inscenare momenti di disperazione. Ricordo addirittura, nella piazza della scuola elementare, quando alcuni genitori ordinavano ai bambini di piangere se solo vedevamo un italiano. Ricordo che dovevamo essere gentili: insomma, noi bambini dovevamo impietosire. In quel periodo, molte donne che diedero alla luce figlie femmine le chiamarono Italia in onore del Paese che si credeva magico dalle nostre parti. Nel caso di figli maschi, i nomi erano Klajdi (Claudio), Marjo (Mario), Xhuzepe (Giuseppe). Alcuni conterranei, che erano partiti con la famosa nave del 1991 e successivamente rientrati, addirittura si prendevano gioco di noi dicendoci che in Italia i soldi crescevano sugli alberi. Per noi bambini l’Italia era un sogno meraviglioso, una terra promessa, sicché impietosire il Signor Pietro della Croce Rossa che distribuiva astucci, quaderni e grandi abbracci aveva un senso. Le numerose Angela Merkel in Germania dai tratti arabeggianti non sono solo un omaggio, ma anche una dichiarazione di sottomissione totale al sistema tedesco. Spesso i bambini rappresentano una polizza assicurativa per gli immigranti perché appunto impietosiscono. Ricordo quando ero una bambina che l’insegnante albanese di lettere ci leggeva una massima scritta dal principe di Marsillac, François de La Rochefoucauld, uno scrittore e filosofo del XVII secolo. Il filosofo francese diceva che “spesso l’umiltà non è altro che una finta sottomissione di cui ci si serve per sottomettere gli altri”.

Esraa nel campo profughi si veste da uomo per non essere violentata

Esraa al-Horani è una make up artist che per fuggire le avances di uomini si veste da uomo e ha smesso di lavarsi. Esraa, oggi, vive in un campo a Berlino, in una struttura posta su due piani in cui ci sono soltanto due bagni. Il campo ospita 120 rifugiati di cui 40 donne e 80 uomini. Esraa ogni notte prima di addormentarsi spinge l’armadio per bloccare ogni entrata nella sua stanza. “Non vi è alcun blocco o chiave o altro”. Poi aggiunge: “Sono stata solo picchiata e derubata”. The migrants' path: How Esraa al-Horani dressed as a boy, stopped washing to ward off men @kbennhold #iamamigrant https://t.co/6xUPVhXbu7 — Leonard Doyle (@LeonardDoyle) January 3, 2016 Un’altra donna siriana immigrando verso la Germania è stata costretta a pagare il debito contratto dal marito offrendo il proprio corpo come baratto, merce di scambio. Un’altra donna è stata picchiata pesantemente da una guardia carceraria ungherese fino a rimanere in uno stato di incoscienza poiché non aveva corrisposto alle sue lusinghe. Le storie di coloro che intraprendono il viaggio della speranza non sono mai facili da raccontare ma ancor più difficile è il viaggio delle donne di questa parte di mondo. C’è chi vive in un perpetuo stato di violenza e tace come consuetudine sociale, c’è chi paga i debiti del padre, del fratello o del marito, c’è chi, come alcune donne che ho conosciute personalmente, vivono le loro giornate maledicendo ripetutamente il giorno della loro nascita. Nascere donne in certi luoghi e certe realtà è un male. Così tutte queste donne si imbarcano per il viaggio della salvezza. Queste donne escono dal loro ruolo di “immobilità”. Queste donne sono Ulisse e la loro potenza è in questo viaggio. L’immigrazione di massa ha amplificato la violenza contro le donne. Matrimoni forzati, violenza domestica, traffico sessuale e la tratta di organi umani vengono continuamente segnalati nelle interviste dalle migranti che denunciano con le loro storie colleghi profughi, i maschi del loro clan e agenti di polizia europei. L’Istituto tedesco per i diritti umani e l’Onu affermano che nonostante l’immigrazione femminile negli ultimi anni sia cresciuta rimane tuttavia inferiore rispetto a quella maschile. Uno dei motivi che facilita la violenza nei campi di accoglienza è il sovraffollamento, la mancanza di illuminazione in alcuni casi, ma soprattutto il fatto che uomini donnee bambini dormano nelle stesse aree. Nonostante le segnalazioni di violenza da parte di alcune donne molte altre tacciono silenziose per paura dei loro mariti o capo clan. Queste donne sono ombre sotto l’ala dei loro uomini. Esistenze soffocate.

L’emigrazione e il “diritto di fuga”

“La solitudine non deriva dal fatto di non avere nessuno intorno, ma dalla incapacità di comunicare le cose che ci sembrano importanti o dal dare valore a certi pensieri che gli altri giudicano inammissibili. Quando un uomo sa più degli altri diventa solitario. Ma la solitudine non è necessariamente nemica dell’amicizia, perché nessuno è più sensibile alle relazioni del solitario, e l’amicizia fiorisce soltanto quando un individuo è memore della propria individualità e non si identifica negli altri.” C.G. Jung È trascorso un anno e sono più di quattromila le persone morte nel Mar Mediterraneo. A nulla sono valsi gli appelli, i fiumi di parole spesi nei vari blog, gli articoli di giornali e gli svariati talk show. Ad oggi ci ritroviamo a parlare dello stesso argomento tuttavia senza trovare alcuna soluzione ma, soprattutto, nessuno riesce a donare una visione del fenomeno che vada oltre le ragioni che immaginiamo rispettoalla scelta di chi rischia la vita nel viaggio della speranza. Succede che Frans Timmermans, vicepresidente della Commissione dell’Unione europea, ha annunciato, alcuni giorni fa, che “Bruxelles ha deciso di accelerare sull’Agenda europea sulle migrazioni anticipandola a metà maggio, mentre prima era previsto a metà luglio”. La presidente della Camera dei deputati Laura Boldrini ha scritto al presidente dell’Europarlamento Martin Schulz e alle assemblee dei ventotto paesi che “col ripetersi di queste tragedie l’Unione europea non può non sentirsi chiamata in causa”. Ma la risposta più dura è quella data da Dimitris Avramopoulos, commissario dell’Unione europea agli Affari interni e alle politiche sull’immigrazione, il quale dichiara che “per affrontare alla radice il problema dei flussi migratori, l’Unione europea deve cooperare con i paesi di origine dei migranti, anche se a volte si tratta di dittature. Il fatto che cooperiamo, nel quadro dei processi di Rabat e Kartoum, con alcuni regimi dittatoriali non significa dare loro una legittimità democratica o politica. Dobbiamo cooperare: visto che abbiamo deciso di combattere il traffico di esseri umani, non possiamo ignorare che in alcuni di quei paesi ci sono le radici stesse del problema. Dobbiamo poterli impegnare e mettere davanti alle loro responsabilità, ma ripeto: senza per questo legittimare i regimi”. Timmermans pone come obiettivo quattro priorità ossia “migliorare il meccanismo del sistema di asilo con una maggiore sinergia tra gli Stati membri e assicurando che le regole vengano applicate nello stesso modo in tutti e 28 paesi”. Inoltre è importante secondo il vicepresidente della Commissione “proteggere le frontiere” oltre che “rafforzare le possibilità di Frontex e fare in modo che lo scambio di informazioni sia migliorato”. Il terzo punto riguarda quello di attuare “una politica aggressiva nella lotta all’immigrazione illegale in particolare contro coloro che con l’obiettivo di fare soldi si rendono responsabili delle tragedie dietro il traffico di esseri umani, o l’offerta di navi”. Inoltre Timmermans aggiunge che è fondamentale “migliorare le possibilità dell’immigrazione legale”. Fino a qui tutto bene. Il problema non è la partenza ma lo sbarco. Non voglio parlare del numero dei morti, delle condizioni disumane, dei diritti negati e delle promesse mancate ma cercare di capire profondamente dove va l’onda. Oggi l’immigrazione è finanziata strutturalmente dal capitale e concepita sovrastrutturalmente dalla “retorica del migrante”. Retorica che diviene capitale appoggiata dalle sinistre antiborghesi ultra-capitalistiche. Questa retorica iper-capitalizzata ci vuole tutti apolidi, migranti senza cultura, senza identità, privati di una coscienza oppositiva e di un idioma, dei paria sul piano dei diritti e della stabilità. A proposito di diritto, le stesse sinistre antiborghesi che hanno abbandonato la lotta per la tutela dei lavoratori oppressi promuovendo il mito del cittadino senza documenti e senza identità, o come lo chiamano i francesi sans papiérs, a favore delle logiche de-territorializzanti del fanatismo dell’economia ci dovrebbero portare a pensare che oggi, in fondo, sarebbe più intelligente non favorire l’immigrazione poiché i migranti verrebbero disintegrati e non integrati, tramite i migranti non-migranti, quest’ultimo ridotti al rango dei primi, come capitale per ottenere capitale. Da qui deduciamo che nella retorica dell’immigrazione si manifesta l’iniqua complicità tra il capitale e la sinistra. L’accoglienza di per sé è un atto di civiltà e umanità, il problema continua ad essere il macro-fenomeno dell’immigrazione. Oggi, chi sono i migranti? I nuovi cittadini della frontiera? I migranti appaiono come gli abitatori dei nuovi spazi transnazionali aperti dalle de-territorializzazioni e ri-territorializzazioni della globalizzazione, nuovo crocevia dell’ordine politico sovranazionale. Dinanzi alla moltitudine in partenza da svariati paesi, l’essere denaturalizzato, incompleto, nomade, contaminato di culture, non si chiama più clandestino. La parola “clandestino” che si appoggia alla logica moderna della cittadinanza nel contesto della crisi generale economica promuove la dimensione escludente ovvero il suo significato come nozione prodotta da una costruzione giuridica legittimata dai mass media. Il migrante è paria della terra, privato del senso di appartenenza ai quali vengono concessi briciole di sporadica umanità. Al migrante i diritti vengono stratificati, gerarchizzati al massimo può arrivare ad una ‘denizenship’ ovvero una forma residua e privatistica di contratto di lavoro. Ma perché si emigra dinanzi a queste aspettative? Il migrante trova la sua risposta nella rivendicazione e l’esercizio pratico del diritto di fuga, quest’ultimo è un’opzione soggettiva concepita da fattori oggettivi. Il melting pot si basa su un’ideologia stereotipata dell’altro costruita sull’idea dell’identità e infatti è una falsa coscienza quella che porta a credere la cultura occidentale di essere capace di riconoscere le differenze come atto di superiorità, universalità e soprattutto neutralità. In Diritto di fuga. Migrazioni, cittadinanza, globalizzazione – ombre corte Sandro Mezzadra spiega molto bene il concetto in merito alla questione sostenendo che: “Il linguaggio dei diritti e della cittadinanza non può essere amputato della sua tendenza all’universalizzazione senza rovesciarsi in uno strumento di difesa dello status quo e di legittimazione del dominio”. I movimenti migratori non possono essere fermati poiché sono legati a doppio filo al processo di decolonizzazione, fattore, quest’ultimo, costitutivo della costruzione in età moderna di una comune identità europea e occidentale. Lo storico bengalese Dipesh Chakrabarty nell’espressione “place holder” ridefinisce il neo-universalismo che non può contenere delle normative prescritte ridefinendo “a un tempo le logiche del dominio e il rompicapo della liberazione” per cui la storia non può essere concepita come il risultato univoco dell’applicazione forza propulsiva dell’occidente sui flussi migratori. Il neo-universalismo deve essere capace di stimolare una dinamica nuova ed includente dell’altro. Il diritto di fuga appartiene a coloro che indicano al pensiero la necessità possibile di un nuovo cammino.

Una preghiera agli italiani e agli immigrati contro la xenofobia

Che cos’è la xenofobia? La xenofobia (paura del diverso; composto da ξένος, xenos, estraneo, insolito eφόβος, phobos, paura) è l’avversione indiscriminata nei confronti di chi è diverso da noi per natura, razza, religione, nazionalità, colore, gusti politici o di genere. Questa avversione è la paura che conduce nei riguardi del diverso al pregiudizio, alladiscriminazione, all’intolleranza, alla persecuzione fino all’eliminazione fisica. Oggi più che mai c’è la necessità di parlare di questa tematica che si presenta con mille sfaccettature ed è insito nell’essere umano come sentimento di sottomissione allapaura che porta l’essere stesso ad emigrare rispetto alla relazione che dovrebbe e che deve per forza instaurare con l’altro per non affondare. Il nazismo, il fascismo sono dei derivati della paura che come vediamo non è solo un sentimento ma un’entità, una supremazia che legifera da sempre nel mondo. Giorni fa guardavo una trasmissione su La7, Announo, condotto da Giulia Innocenzi, la quale provava a intervistare i giovani presenti nella messa in scena sul tema del razzismo e ciò che accade oggi in Italia a partire dal caso di Tor Sapienza a Roma sino a Milano nella zona Corvetto e tutto ciò che sono oggi le banlieues italiane. Ascoltavo per comprendere cosa pensassero i miei coetanei e anche quelli ancor più giovani di me. Non si capiva nulla se non un boato che partiva dallo stomaco dei giovinetti i quali si minacciavano a suon di parole o ragionamenti che avevano sentito qua e là e con una preparazione culturale molto generica. Quella sera assistevo ad un film sulla non cultura basata sull’orgia verbale. Ma si sa, a noi giovani, ancor più ai giovanissimi, preme maggiormente sottolineare i propri, cioè i nostri, attributi di preparazione culturale in attesa che passi un tram chiamato “desiderio di riscattarsi” rispetto alle tragedie umane da cui proveniamo tutti, nessuno escluso. Lo trovo comprensibile ma tuttavia non giustifico l’assenza di rispetto che sia gli uni (i cives natii del paese Italia) e sia gli altri, tutti gli altri, si procuravano e si procurano. Forse non ci rendiamo più conto che il tema immigrazione, oggi noi l’abbiamo appena assaporato: non è altro che l’inizio di un lungo percorso che uomini e donne faranno verso i paesi più ospitali. Ciò che oggi mi preme è una richiesta che mi nasce dalla mia condizione di un essere sempre in partenza e ciò che chiedo all’Italia e agli italiani è un minuto di attenzione. Chiedo una grazia che deve partire dai vostri cuori e chiedo di fare attenzione allapropaganda che i mass media vogliono muovere per approfittarsi di questa tematica per far presa sul vostro voto. I problemi sono altri e non si può operare il cuore quando invece il problema sta nella pianta del piede. Ma ancora di più la mia richiesta è indirizzata a tutti gli stranieri e ai nuovi civesitaliani. Noi tutti siamo scappati dalle nostre terre per motivi più o meno simili e la tenacia che ci ha accompagnati è stata dettata dall’improbabilità di una vita possibile nei nostri paesi e questo ci ha condotto inesorabilmente alla ricerca di qualunque altra realtà dove poteva essere garantita il respiro alla vita. Non abbiamo avuto paura perché noi eravamo la paura. Era dentro noi. Il terrore. Gli stranieri fanno paura perché nel loro sguardo si manifesta tutta la loro storia, il loro tragitto e la loro disperazione. Siamo tutti sulla stessa barca e non voglio condannare chi ha vissuto in assenza dell’orrore, ciò che vorrei è servire e portare una testimonianza che renda frutto e sia capace di unire saldamente culture diverse al fine di cooperare per il bene comune che è il diritto alla vita e al lavoro. Voglio chiudere con una massima di Rita Levi Montalcini, una donna e studiosa straordinaria che tanto ho amato: “Purtroppo buona parte del nostro comportamento è ancora guidata dal cervello arcaico. Tutte le grandi tragedie, la Shoah, le guerre, il nazismo, il razzismo – sono dovute alla prevalenza della componente emotiva su quella cognitiva. E il cervello arcaico è così abile da indurci a pensare che tutto questo sia controllato dal nostro pensiero, quando non è così.”

Digerire (parte II) Rinascere nel viaggio. Nel dolore

Parliamo delle donne. Voi li vedete questi migranti, questi esseri umani che il mondo arabo sta vomitando sulle coste italiane, al confine francese, la materia che sta generando un problema diplomatico tra Italia e Germania, tra Italia e Francia, tra Italia e Unione Europea. Dai luoghi delle rivolte, della guerra civile e delle dittature la maggior parte degli immigrati che partono sono uomini, anche se negli ultimi anni questo fattore è venuto sempre meno. Allora io mi chiedo e vi chiedo: dove sono le donne? Restano nelle zone di guerre, restano indietro per affrontare da sole quello che resta delle rivoluzioni, delle rivolte, a ricostruire dopo la morte, a rinascere, aspettando magari un giorno il ritorno dei loro uomini. Alle donne il compito di rifondare la società, di farla uscire dallo stato semi tribale o dittatoriale e agli uomini quello di cercare fortuna nei paesi cosiddetti avanzati. Nei cosiddetti paesi civili una ragazza come me non può prendere un autobus da sola, né alle quattro del mattino, né a mezzogiorno e men che meno alle nove di sera. Nei paesi cosiddetti civili una ragazza come me non può e non deve vivere una vita da single senza che questa diventi un vero e proprio inferno. Questi paesi sono civili come una guerra, civile. Questo perché ci si è dimenticati della donna. La donna è diventata ormai oggetto del pubblico piacere, la possibilità dell’essere forti in quanto esiste un sesso debole, l’attrazione degli occhi. La percezione della realtà oggigiorno è un grido d’allarme che riguarda l’incapacità atavica di affrancarsi da determinati preconcetti culturali. Ho sempre avuto la sensazione che una donna che viene da realtà di sofferenza, da un paese in smobilitazione, che ha subito atrocità di ogni tipo, è una donna che può essere facilmente succube, che si può addomesticare magari anche soltanto con la commiserazione. Se poi una donna, compiace il desiderio di certi uomini, può essere vista inconsapevolmente, in certi casi, come un trofeo di caccia in una società ancora a trazione “testosteronica”. In tutto questo c’è un “ma” dovuto all’intelligenza che una donna può avere e questo può spiazzare e rendere furioso il misericordioso ominide di turno. Le donne che partono devono affrontare nel viaggio una triplice lotta per affermarsi: come straniere, come donne e come persone lucide ed intelligenti. Molti paesi d’Europa cosiddetta “democratica” hanno grandi problemi ad accettare l’integrazione e l’emancipazione perché lo straniero fa paura, è destabilizzante; se poi ha anche idee proprie e autonome diventa una minaccia. Il vulnus umano sono gli occhi, una ferita aperta. Il dolore delle donne sta proprio in quel modo di non essere mai considerate in quanto esseri uguali con gli stessi diritti e doveri. Vivit sub pectore vulnus cioè la ferita sanguina nell’intimo del cuore, come diceva Virgilio nell’Eneide in riferimento a Didone, e per molte donne è proprio così. In molti paesi la donna viene rappresentata come essere immobile attaccata alla realtà delle cose, attaccata alla tradizione da preservare. Ci sono molti miti che potremmo citare a partire da Penelope che doveva restare nella zona della dimensione reale della vita, in attesa del ritorno del suo uomo. La donna immobile legittima la mobilità dell’uomo. La visione immobilista sulle donne trova le sue origini nel mito ma è anche un fatto storico poiché il viaggio viene associato soltanto alla virilità dell’uomo e questo genera un carattere antitetico alla femminilità. Le ragioni di questa discriminazione vanno ricercate anche nella letteratura ufficiale dei primi del Novecento quando le figure di riscatto della nazione non potevano essere femminili e tanto meno, qualora lo fossero state, le avrebbero elogiate. La mia personale storia è sicuramente collocabile in quella di figlia di una donna, quale mia madre, che ha compiuto la difficile scelta di espatriare in cerca di un futuro migliore, in cerca di possibilità ma soprattutto in cerca di una possibile realtà dove fondare le proprie radici e ricostituire la propria identità e riprendere in moto ciò che a certe donne come mia madre è stato negato o non è stato possibile. L’emigrazione femminile dovrebbe essere un argomento da riprendere, a prescindere dall’entità numerica di chi parte e di chi resta, e merita un approfondimento dal punto di vista storico proprio per la sua specificità e peculiarità. Il mio breve racconto non ha la presunzione di essere un articolo che tratta il viaggio delle donne come un trattato antropologico sulle donne ma una semplice riflessione che mi induce ad addentrarmi in quanto io stessa sono stata e sono tuttora soggetto di e nella storia. Il viaggio, sia quello delle donne che partono o di quelle che rimangono e sia quello degli uomini, rappresenta la possibilità che una forza generatrice capace di mutare, trasformare, raffinare e innalzare gli spiriti porta al cambiamento. Questo viaggio si compie attraverso la consapevolezza del dolore da superare. Il dolore in qualche maniera rappresenta già la fonte di emancipazione umana. Quell’antico obbligo al dolore, in quanto si compie una scelta attiva e talvolta o spesso passiva, è una viva ed essenziale componente psicologica e biologica e non è contaminato dall’illusione ottimistica dell’idealismo e del positivismo in modo deciso e radicale ma è capace di interpretare l’inquietudine profonda che la società occidentale vede come minaccia a causa del crollo dei valori tradizionali, messi in crisi dall’attivismo spregiudicato e dallo spirito di sopraffazione dei mercati e dunque del capitalismo. Il dolore è un atto di iniziazione, non è mai fine a se stesso. Nel dolore non vi sono casualità ma soltanto possibilità. Arrivare “attraverso” il dolore per ottenere la possibilità. Infine il dolore è cosa unicamente di Dio, appartiene soltanto a Lui in quanto Egli è la felicità infinita e soltanto nel Signore Gesù si trova la conclusione dell’angoscia misteriosa del dolore. É così che il viaggio si identifica profondamente nella vera e unica visione cristiana che nel dolore trova la sua fonte di liberazione, cioè un’azione libera. Il viaggio nel nostro tempo è di tutti noi, di piccola o grande distanza, per cui il dolore è tutt’uno con tutti noi, tutt’uno con Dio, anzi lì è Dio stesso. Il viaggio, in quanto non vive nell’accezione da protagonista o spettatore ma quello di strumento, ci porta a spogliarci delle nostre debolezze e dalle falsità e illusioni e in esso il nostro spirito si emancipa alla Verità. Il dolore e il viaggio sono essenza delle “uoma” cioè delle donne. Fa parte della loro rinascita, è capacità di discernimento, vive in coloro alle quali è toccato nuovamente riconoscersi e che sanno e sapranno sempre trascinarsi avanti. Più della consapevolezza del peccato, più del farsi “attraversare” dal viaggio e dal dolore più del “qui non finisce mai…” e più del silenzio dell’essere in orrore una donna che rinasce è un atto, un dono, della splendida creazione. di Anita Likmeta su The Huffington Post

Digerire

Mi chiamo Anita Likmeta, sono arrivata in Italia 16 anni fa. Sono l’esempio perfetto di quello che accade oggi nel mondo. Io sono una immigrata proprio come quegli egiziani, libici, somali, etiopi che stanno ammassati in centri che sembrano dei veri e propri campi di concentramento. Io sono una delle migliaia di persone, non rifugiati politici, non profughi di guerra, non immigrati clandestini, ma persone che anni fa hanno attraversato il mare su un barcone, sperando di trovare in Europa qualcosa di meglio rispetto allo scenario di morte che lasciavo. Io vengo dall’Albania. A casa mia c’era la guerra civile, e voi per fortuna non lo sapete, non lo sapete più cosa è una guerra civile. Non sapete più cosa vuol dire quando ci si ammazza tra fratelli, tra cugini, tra vicini di casa, tra un paese e l’altro. Si spara a vista, a qualunque cosa si muova, si entra nelle case, si fanno i rastrellamenti, si stuprano le donne. Così iniziava il mio breve racconto che parlava del mio viaggio pubblicato dal giornale “Il Fatto Quotidiano” il 13 ottobre 2013. Dal giorno in cui pubblicarono questo articolo sono accaduti molti avvenimenti, addirittura anche la televisione mi ha cercata, la mia storia ha fatto un giro incredibile e per me è stato del tutto inaspettato. Ricordo il giorno in cui negli studi di Sky Tg24 mi ospitarono, ricordo i volti dei ministri della Lega, ricordo i loro sguardi nella sala d’attesa. In quel momento alla mia mente sovvenne una frase che il ministro inglese Winston Churchill sosteneva: “I Balcani producono più storia rispetto a quanto ne riescono a digerire”. Ecco la parola digerire mi porta a riflettere molto. Io non ho mai digerito quel modo di guardarmi di talune persone. Non ho mai compreso il motivo per cui negli occhi di chi scrutavo si leggesse una certa predisposizione alla pena, cioè non parlo della ‘pietas umana’ in quanto solidarietà e commossa partecipazione che si può provare nei confronti del dolore degli altri, ma forse più pena come una sanzione giuridica comminata a conseguenza della violazione di un precetto di diritto. È importante per certe persone far comprendere la realtà delle cose. Emanciparsi dalla propria realtà culturale e sociale non è abbastanza, ma ancora di più non è abbastanza se si tratta di una donna. Talvolta mi chiedono “di dove sei?” e io “…vengo dall’Albania” e capisco subito da quel rigurgito l’impertinente pregiudizio. Potrei andare oltre e raccontarvi tanti piccoli episodi di svariata natura e della bassa moralità di talune persone influenti che mi hanno cercato o di chi con sfacciataggine si è proposto ma non ho voglia di fare la sbruffoncella da quattro soldi, non ne ho il tempo. L’oscurantismo, la misoginia nera della vecchia Europa cattolica, chiusa, medievale e assolutista talvolta non ha nulla da invidiare alla peggiore pratica del fondamentalismo islamico. di Anita Likmeta su The Huffington Post