Durazzo

Terremoto Albania: quanto è illegalità e quanto calamità naturale?

È trascorsa una settimana dalla prima scossa di terremoto che ha piegato la mia città, Durazzo, e tutta l’area circostante. Giorni terribili, abbiamo pianto 50 morti e ancora stentiamo a credere a questa disgrazia che colpisce sempre di notte. Così come avvenne a L’Aquila, Accumoli, Amatrice, Catania, Ischia, Norcia, Castelsantangelo sul Nera, Mormanno, Medolla Emilia Romagna ecc. Perché il male ti accoglie sempre così, quando sei nella parte più buia della vita. Non bussa, irrompe piombando la sua tragedia e violenza mortificando le nostre ragioni, le nostre certezze, tutti i piani. Durante questi giorni e ore ho ricevuto messaggi, mail, commenti di sostegno e vicinanza da parte dei miei colleghi e non, e che non smetterò mai di ringraziare abbastanza. Poi ho letto commenti dai toni più inappropriati, quelli dove mi suggerivano come avrei dovuto rispondere, come mi sarei dovuta vestire, piuttosto che commentare le parole che ho detto durante le mie interviste sulle reti nazionali in cui ho presenziato. Che sia chiaro, io sono abituata ad ogni genere di critica da sempre, e poi fa parte del mio lavoro, perché sono fermamente convinta che ogni crescita avviene scambiando opinioni diverse, perché ognuno è libero di esprimere la propria idea, persino di offendere, in fondo al netto delle azioni ognuno si veste con le parole che meglio lo/la rappresentano. Tuttavia, uno dei commenti più frequenti che ho letto sui miei account social e più in generale sui vari gruppi su Facebook era inerente al fatto che nelle mie interviste e articoli avrei “sparlato” dell’Albania, degli albanesi e che i panni sporchi si lavano in casa propria. Ecco, cari connazionali, ovunque voi siate nel mondo, quando nei miei articoli e video parlo di criminalità mi riferisco proprio a questo modo di fare e dire. Il vero marcio è intrinseco in questo pensiero, dunque nelle fondamenta del nostro Paese, nelle nostra ossa, le nostre case. Viviamo nell’era della globalizzazione, la “casa propria” è il non luogo. Noi piangiamo, ridiamo, scherziamo, piaciamo, offendiamo, ci arrabbiamo con le emoticons. Una faccina e la democrazia 2.0 ringrazia, gli algoritmi ci premiano, isolandoci in un mondo parallelo, una specie di second life dove, attraverso le bubble filters, si ha l’impressione di essere giusti, di essere migliori rispetto alla quotidianità che pretende di viverci piombandoci in quei pochi metri quadrati di libertà dove confina la nostra vita. Ecco, in questo spazio liquido così condiviso, quindi così reale, versiamo la nostra umanità, emoticon dopo emoticon. Ho sempre pensato che i rappresentanti politici, i nostri governanti, sono l’esegesi di ciò che siamo e rappresentiamo per noi stessi e dinanzi al mondo. Negli ultimi mesi ho ricevuto numerose segnalazioni da parte dei cittadini di Durazzo in merito a molte strutture che risulterebbero non regolari ma che qualcuno ha regolarizzato. Dove la moltitudine accetta come consuetudine l’omertà, quei pochi individui che si battono per la democrazia e per uno stato dalle regole più trasparenti diventano dei personaggi orwelliani, gli ultimi uomini della terra. Ecco io voglio parlare per questi ultimi che non prostituiranno mai la libertà per allinearsi a quel modo di fare ed esistere ereditato da un passato che ancora si ostina a presenziare come un fantasma pilotando così le coscienze di molti a discapito dei pochi. Il mio cuore si stringe forte ai familiari delle vittime, a tutti coloro che hanno perso le case, a coloro che stanno trascorrendo le notti nelle tende, ai bambini che in quelle macerie hanno perso il sorriso. Il mio cuore piange le vittime, le mie parole non potranno mai sollevare ciò che si è perso nel tempo ma so per certo che se tutti insieme scegliessimo di risvegliarci nella bellezza della verità, potremmo un giorno narrare ai nostri figli e nipoti che il vero fondamento della democrazia è la libertà di alzarci in piedi e testimoniare le ferite, perché il silenzio uccide ancor più di ogni mafia. Ma soprattutto che nessun gioco di potere vale la vita, le vite di tutti noi. Coloro che scelgono di stare in silenzio valorizzano la violenza degli omertosi e ignavi, che in base a come il potere, piccolo o grande che sia, li accarezzerà facendo chiudere le loro dentature acuminate, abbasseranno lo sguardo perché pensano che è così che va il mondo, così è sempre stato fatto, un cordone ombelicale duro a spezzare, una catena demoniaca che ha sprigionato la sua rabbia il 26 novembre 2019.

L’Albania tra turbocapitalismo e terremoti.

Sulla costa orientale dell’Europa, a sud dei Balcani, per la precisione nella città di Durazzo, c’è una lunghissima teoria di case, una appiccicata all’altra che si estende per decine di chilometri. Per chi l’ha visitata negli ultimi anni, la città che si allunga in verticale con arti informi, rimembra la selvaggia Rimini del dopoguerra. Interi villaggi e paesi che si uniscono al lembo della città di Durazzo, come un lenzuolo unico esposto su un grande balcone che si affaccia sull’Adriatico, mare nostrum. Nostro degli albanesi, nostro degli italiani. Durazzo venne fondata nel 627 a.C da colonizzatori corinzi e corciresi con il nome di Epidamno (Ἐπίδαμνος), ma furono i romani, successivamente alle guerre illiriche, a ribattezzarla in Dyrrhachion (Δυρράχιον), poiché, si narra, il vecchio nome fosse di mal auspicio in quanto evocava la parola “damnum” che significa perdita e svantaggio. Ma la città di Durazzo poggia le sue fondamenta su un territorio alluvionale dalla scogliera vulnerabile, ed è proprio questa la vera traduzione di Epidamno e/o Dyrrachion (δυσ-cattiva, ῥαχία – scogliera). Nel V secolo la città venne colpita da un violentissimo terremoto che causò importanti danni ma l’imperatore di Bisanzio Anastasio I, costruì un ippodromo e una possente cinta muraria, alta 12 metri, per proteggere la cittadina. Come riporta lo storico bizantino Giorgio Pachimere, nel 1273, la città venne colpita nuovamente da un feroce sisma, ma la muraglia, che nel tempo era stata ridotta a 6 metri, contenne i danni permettendo a Dyrrachion una rapida ripresa sotto l’aspetto economico e questo grazie anche al Regno di Carlo d’Angio’ che fece di Dyrrachion il più grande centro commerciale per la produzione e lo smistamento del sale. Ma fu il terremoto del 1926 che danneggiò la città in maniera significativa, tale da permettere successivamente una ricostruzione dal taglio più moderno, che è quella che conosciamo oggi. Il 26 novembre 2019 Durazzo sopravvive ad un ennesimo terremoto di magnitudo 6.5, che ha causato la morte di 15 cittadini e oltre 600 feriti. Ma le cifre sono inesatte, destinate a crescere nelle prossime ore e nei prossimi giorni. Dopo la seconda guerra mondiale, sotto il regime hoxhaista, venne realizzata l’autostrada che collega Durazzo a Tirana, ma dobbiamo arrivare agli anni 90, per l’esattezza nel 1998, perché l’Albania conosca il suo risveglio edilizio. In questi ultimi 20 anni i lavori svolti per la ricostruzione del Paese sono stati ingenti, un po’ come per l’Italia del dopoguerra. Neppure le piramidi finanziarie del 1996 sono riuscite a demotivare gli albanesi. Ma oggi, abbiamo capito bene anche noi il vero senso del capitalismo, anzi di questo turbocapitalismo, che in Albania ha edificato le sue radici su un fondale instabile. Lo sanno bene gli albanesi che il territorio che si affaccia sul Mar Adriatico si appoggia su una fragilità idro-geologica che nel corso dei secoli ha turbato la città a più riprese. Come avvengono gli appalti? Che ruolo ha il governo albanese in merito a questo scempio? Qual è la gestazione degli introiti economici che puntualmente volano su Tirana per poi disperdersi in un mare di carta, passando di mano in mano. Le domande sono tante e spinose, ma in Albania funziona così: se tu hai i soldi, paghi e chiedi il condono edilizio. Paghi e sei in regola, paghi e il territorio è edificabile. Una marea di carta che regolamenta il piano edilizio. Insomma, cose che neppure gli oligarchi del 433 a.C, che uccidendo i dissidenti di Dyrrachion e aiutando i corciresi, causarono la prima guerra della Storia antica, conosciuta meglio come la guerra del Peloponneso. Eppure questo territorio fangoso, qual è l’Albania, cerca aiuto, e non può ribellarsi alla dittatura burocratica, al clientelismo, all’ignoranza che imperversa, al silenzio dei pochi a favore dei molti. Avete capito bene, sono molti, perché funziona così questo capitalismo, ti lega a una ragione per cui tu singolo hai qualcosa da guadagnare quando invece è la comunità a perdere. Perdiamo il limite nell’autodefinirci un popolo, nella sua tradizione, nella sua cultura, nell’anima. L’Albania di queste ore non c’e l’ha più. Esseri alogòi che non possono permettersi di sottrarsi al giogo a cui si sono legati. Briciole di umanità verranno sparse in queste ore, ma domani è un altro giorno e tutto verrà dimenticato per una tragedia che sembrerà più grande, che è la tragedia che siamo noi.

Donne in fuga dalla guerra in Siria.

Un fuggire transitivo

Mi capita spesso, ultimamente, di sentire un forte senso di apatia, di sentirmi inerme dinanzi al frastuono delle notizie quotidiane, alle urla, alla banalità, al turpiloquio, alla mise en scene bieca e oscena a cui ci hanno abituato i talk show, tutti i talk show. Eppure li guardo sugli schermi di tutti i telegiornali, quelle immagini e storie che ti stuprano l’anima, quegli occhi di quegli uomini e donne che aspettano su tutte le Diciotti, o nei campi profughi. Le speranze nutrite, le attese nei luoghi comuni. L’ansia perché in questa storia ti è capitato di raffigurare l’individuo diverso, l’altro, che in fondo gli altri siamo tutti noi. L’uomo senza Stato, l’uomo abbandonato, l’uomo senza Storia, l’uomo vinto. L’essere transitorio, in questo tempo che si piega attraverso i permessi negati, e l’umanità inasprita dentro le poesie mai lette che si trovano nelle tasche di coloro che non conosceranno mai il risveglio in quel tempo di quel luogo sognato. Conosco quegli occhi, sono anche i miei, mentre mi cerco ancora tra un libro e un articolo, un decreto legge, forse. Non sono mai riuscita ad abituarmi alla mia nuova condizione di cives libero, è come se una parte di me fosse rimasta ancora lì, sul porto di Bari, che vent’anni fa mi dava rifugio. Fuggire è una condizione dell’uomo da tempi immemorabili, fuggiamo tutti in qualche maniera. Da una terra che non ci dà opportunità per crescere, da una situazione familiare, da una relazione che ci sta stretta, o semplicemente da una vita che ci imprigiona. Ecco, che fuggire assume un significato più ampio, un diritto legittimo di cui non potremmo privarci. Sono nata nella città di Durazzo, e cresciuta tra le colline e montagne albanesi che si affacciano sul Mar Adriatico. L’Albania è piena di laghi e fiumi, di cui da piccola, ne seguivo il corso che puntualmente approdava sulla spiaggia di Lalzi, a pochi chilometri da Durazzo. Sono rimasta sempre molto colpita dall’immagine dei fiumi che vedevo concludersi sul Mare Nostrum; trascorrevo ore e ore per cercare di capire dove finisse tutta quell’acqua dolce. I fiumi sono tutti diversi, ci sono quelli impetuosi, quelli risoluti, quelli lenti, quelli fangosi, quelli informi, quelli rassegnati, e quelli a delta che appaiono solenni. E questi fiumi si mischiano all’acqua salata, altri la sporcano, altri deviano, altri ancora irrompono, distruggono, e infine, al tramonto della stagione invernale, mi è capitato di osservare un fiume che sembrava danzasse con il mare. E anche il Mare non riceve allo stesso modo, come la costa non consente a tutti i fiumi di abbandonarsi nella stessa maniera. La vita di una natura che combatte anche con se stessa, il racconto geologico di un viaggio che non conosce la fine. L’incontro di rivoli d’acqua, di pietre sparse, di sabbia muta, di perle preziose. Le nostre, quelle di tutti noi. Fuggire è un verbo transitivo, significa andare verso, perché ogni sistema vivente, che porta in se la complessità, saprà resistere al cambiamento del suo equilibrio.

Enver Hoxha Statua

La demolizione del Teatro Nazionale d’Albania? Un atto di suicidio storico

di Anila Dedaj su Gazeta Shekulli Quale potrebbe essere il futuro di una generazione che ignora il suo passato? Rifiutare la storia e la memoria, anche attraverso il crollo di un edificio storico, significa abbandonarsi alla possibilità di ripetere gli stessi errori, oppure peggio ancora, i crimini. Ignorare la volontà e l’opinione degli artisti, intellettuali e cittadini ci mette in guardia rispetto un’era buia che abbiamo già vissuto. Cosa segna la demolizione del Teatro Nazionale d’Albania, al di là del crollo di un edificio, la cosiddetta “Mecca” della cultura albanese? Per la giornalista italo-albanese Anita Likmeta, attiva nei più importanti media italiani, oggi più che mai non può e non deve essere messa in discussione il Teatro Nazionale, perché chi in Albania parla ogni giorno di progresso dovrebbe essere consapevole che un Paese non può progredire senza cultura, ancor meno senza Storia. La ragazza di Durazzo fu costretta ad abbandonare l’Albania quando era solo una bambina, durante uno dei periodi più fragili del nostro Paese. Ma si sa che a 11 anni, un bambino non può ribellarsi agli abusi di un governo e dei suoi governanti.  Ma oggi, che è riuscita a vincere la sua battaglia contro quel volume di morte che molti di noi hanno conosciuto, Likmeta è decisa ad ostacolare la scelta del governo e a combattere a fianco di connazionali che, come lei, hanno a cuore la storia e la cultura albanese.  Likmeta è un nome popolare per il pubblico italiano quanto per quello albanese, non solo per il suo contributo mediatico, nel campo della tecnologia e dell’innovazione, degli impegni nei gruppi politici, ma anche per la sensibilizzazione alle questioni sociali, in particolare a quelle dell’emigrazione e della storia albanese. Oggi il Teatro Nazionale è anche la sua battaglia. Oltre alla determinazione per sensibilizzare l’opinione pubblica, Likmeta racconta a “Shekulli” di aver inviato una lettera, firmata da scrittori e artisti albanesi come Robert Budina, Rudi Erebera, Kastriot Çipi e Lindita Komani, all’Onorevele Romano Prodi, il quale nel 1998 intervenne in Albania per fermare le navi in direzione delle spiagge italiane che portarono a morte dozzine di albanesi, oltre a dare un’assistenza finanziaria concreta. Secondo la giornalista, in Albania dovrebbe essere istituita una commissione per la verità e la riconciliazione nazionale albanese. “Come ho detto in altre occasioni, c’è una continuità ambigua tra il vecchio e il nuovo sistema ed è necessario dare volto a quei criminali e a quella storia da cui tutti dovremmo prendere le distanze. Questo sarebbe un passo importante verso un’Albania liberale “. A questo punto ci viene da chiederci se oggi l’Albania vive un nuovo sistema totalitario sotto le fragili vesti della democrazia? Secondo Likmeta, per capire se l’Albania sta vivendo una nuova forma di dittatura, il cittadino dovrebbe chiedersi se si sente impotente dinanzi alle scelte che lo Stato impone come punizione contro una migliore coscienza pubblica, piuttosto quando lo Stato costringe i cittadini ad una cooperazione silenziosa.  Anita, da quasi 10 mesi gli artisti albanesi protestano contro la decisione del governo di demolire il Teatro Nazionale. Qual è la tua opinione in merito? Comprendo e condivido appieno la posizione degli artisti, degli scrittori, degli architetti, della cittadinanza e di tutta la classe intellettuale albanese. Il Teatro Nazionale dell’Albania rappresenta un simbolo di quella Storia che ci ha caratterizzato. È una nostra cicatrice, come lo sono anche altre, che dovrebbe fungere da promemoria, ogni volta, per ricordarci quello che abbiamo vissuto, e subito. L’Albania ha attraversato periodi difficili, è stata attraversata da eserciti in varie epoche, dagli svevi agli angioini, ai veneziani, ai cinque secoli di dominazione ottomana, all’invasione fascista, a mezzo secolo buio della dittatura hoxhaista, alla grande diaspora, alle piramidi finanziarie, ai morti del canale di Otranto. Ecco, queste sono solo alcune delle cose che hanno trovato spazio entro i nostri confini. L’Albania è stato teatro di guerra, la via per l’Oriente, la terra di mezzo. L’Europa sta attraversando un periodo delicato, si stanno mettendo in dubbio le fondamenta di principi che pensavamo fossero saldi, si sta mettendo in discussione i valori della democrazia, delle libertà conquistate in oltre 70 anni di pace. Oggi più che mai non si può mettere in discussione il Teatro Nazionale dell’Albania, perché se è vero che il progresso è importante, è tanto vero dire che non c’è progresso senza cultura, non c’è progresso senza analizzare la propria storia. Prima del Teatro Nazionale, in Albania ci sarebbe bisogno di creare una Commissione per la verità e la riconciliazione nazionale albanese, perché, ribadisco come ho fatto già in altre occasioni, c’è una continuità ambigua tra il vecchio sistema e il nuovo e che è necessario dare volto a quei criminali e a quella storia da cui dovremmo tutti prendere le distanze. Questo sarebbe un passo importante verso un’Albania liberale. E quest’ultimo si chiama progresso, da non confondere con l’occidentalismo a cascata.  La legge adottata per il crollo del Teatro Nazionale è stata restituita due volte dal presidente Ilir Meta, a causa di irregolarità. Nonostante questo, i deputati della maggioranza sono tornati in Parlamento con 75 voti a favore. Come vedi la disapprovazione dei parlamentari, non solo la volontà degli artisti, ma anche la decisione del Presidente? In Albania assistiamo ad un revisionismo reazionario, il che spiega le ragioni per cui la classe politica sudditante vuole la demolizione del Teatro Nazionale, uno dei simboli dell’era fascista a Tirana. Questo revisionismo sta aprendo la strada ad una democrazia autoritaria, e chi ha la possibilità di mettere il naso fuori dalla propria porta ne sente subito l’odore, perché é visibile. Perché anche in Albania il capitalismo sta esprimendo la sua natura, spiega la sua ragione attraverso la rivoluzione tecnologica come effetto obbligato: ricchi sempre più ricchi, poveri sempre più poveri ed emarginati dal resto della società. È un regime che si palesa visibilmente, li vediamo questi emarginati ai piedi del Plaza di Tirana, sui semafori che cercano aiuto, sulle stazioni degli autobus quando scendono le loro galline da vendere al mercato. Un mercato padrone, arrogante ed impaziente che disprezza ogni forma di resistenza, ogni forma di antifascismo come quello della lotta al diritto di avere una storia, al diritto di conservare la memoria, al diritto di opporsi perché come diceva Albert Camus “Non esiste destino che non possa essere superato dal disprezzo”.  Quando lo Stato solleva il cittadino dalla responsabilità morale, senza la quale un uomo non può definirsi tale, quel Governo sta trasformando e veicolando ogni tentativo di resistenza pubblica in un suicidio storico. Lei vive in Italia, un Paese in cui il patrimonio culturale è considerato prioritario, preservando attentamente edifici architettonici secolari. Secondo lei, cosa significa per una città come Tirana, per non dire per l’Albania, la scomparsa di uno dei monumenti istituzionali? In Italia è un po’ difficile mettere in discussione i monumenti realizzati in epoca fascista, anche perché sarebbe un investimento generoso visto il numero di opere presenti sul territorio. Tuttavia torno a ribadire che in Albania non si tratta di una scelta culturale, si tratta di business, si tratta del valore che i politici albanesi, incluso il Presidente Meta con il suo silenzio, hanno dato alla nostra Storia perché è di questo che stiamo parlando. Si sono dati una etichetta e si sono messi in vendita. È chiaro che questa è una operazione in cui ci sono molti interessi in ballo. Forse la politica albanese si deve ricordare che non siamo noi a lavorare per loro, ma che il popolo li ha eletti affinché facessero i nostri interessi e non quello dei privati stranieri che con poche briciole si comprano il loro consenso. Se il Teatro Nazionale verrà demolito nessun albanese lo perdonerà, soprattutto la Storia non lo perdonerà. Gli albanesi non hanno bisogno di nuovi centri commerciali, di carrelli della spesa dove trascinare la vergogna. L’Albania non ha bisogno di un nuovo Teatro, l’Albania ha bisogno di affrontare i suoi demoni, di dare un senso alla sua storia, di ricominciare dalla cultura.  Gli artisti albanesi stanno cercando di coinvolgere i media stranieri e istanze politiche su questo tema. Anche lei sta cercando di fermare la distruzione del teatro. Può dirci qualcosa di più sulle sue iniziative? Quello che sto cercando di fare è sensibilizzare sempre di più l’opinione pubblica in merito alla situazione che sta avvenendo in Albania. Abbiamo inviato una lettera a Romano Prodi, il quale ha già avuto modo di intervenire in Albania nel 1998 per fermare le partenze di barconi verso le coste italiane. Ma non ci fermeremo qui, abbiamo intenzione di rivolgerci agli organi europei e perfino all’Unesco se servirà per fermare questo scempio. Il mio è un interesse puramente culturale e storico. Ho lasciato la mia terra natia quando avevo soltanto 11 anni, ero una bambina e non potevo reagire ai soprusi di quel governo che ci lasciò come popolo in balia degli eventi, a bussare come disperati alle porte del mondo. Oggi mi sono conquistata la mia libertà, e ho una voce che non cesserà mai di battersi per perorare la causa e gli interessi dei miei connazionali che combattono come me le  ingiustizie, come quella di demolire un pezzo della nostra Storia e memoria.  Lei è un personaggio pubblico e spesso si fa carico delle cause albanesi. Perché pensa che questo monumento dovrebbe essere preservato? Ha un messaggio per i governanti albanesi riguardo al Teatro Nazionale? Utilizzo i miei canali social per rimanere sempre in contatto con le persone, con i nostri connazionali sparsi per il mondo. Mi piace leggere le loro storie, scambiare opinioni, discutere scelte politiche, gioire degli obiettivi raggiunti. Perché ogni vittoria di un cittadino albanese nel mondo è una conquista per tutti noi che abbiamo lottato stando a testa bassa ad aspettare che arrivasse il nostro momento. Quello che dico agli albanesi è quello che ripeto, e continuo a ripetermi, a me stessa ogni giorno: la dittatura, l’anarchia, le morti, non sono colpa mia. Non sono una mia responsabilità. La responsabilità è singola ed appartiene ad ognuno di noi. Che il valore di una persona si pesa con le scelte che compie ogni giorno. Ma che anche la “non scelta” e il “silenzio” sono una scelta, sono una responsabilità. Per comprendere se l’Albania sta vivendo una nuova forma di dittatura, il cittadino deve chiedersi se si sente impotente dinanzi a scelte che lo Stato impone come condanna contro una migliore coscienza pubblica, quando lo Stato obbliga i cittadini ad un collaborazionismo silente. Quando lo Stato solleva il cittadino dalla responsabilità morale, senza la quale un uomo non può definirsi tale, quel Governo sta trasformando e veicolando ogni tentativo di resistenza pubblica in un suicidio storico. Per cui la domanda che pongo al lettore che sta leggendo sino a qui è: tu, che ruolo e da che parte stai in questa Storia? 

Albania durante gli anni '70.

Albania 1970: le donne e il comunismo

di Ismete Selmanaj Mi chiamo Ismete Selmanaj, sono una cittadina italo-albanese. Sono nata a Durazzo, e come tanti miei connazionali sono emigrata in Italia nell’ormai lontano 1992, subito dopo la caduta del regime comunista di Enver Hoxha. Messina è la città che mi diede ospitalità in quegli anni bui, nella città siciliana sono nati e cresciuti i miei tre figli. Sono trascorsi più di 25 anni da quei fatti terribili che videro protagonista il mio Paese, il mio popolo, e solo oggi riesco a focalizzare in maniera nitida quel passato di cui sono stata testimone. Il partito sceglieva per me, per noi, per tutti noi. Ognuno di noi aveva un destino prestabilito, un destino che lo Stato sceglieva, e che noi tutti dovevamo compiere per il bene della collettività. Ho sempre amato la letteratura, e quando frequentavo il ginnasio in Albania ho scritto poesie e racconti riuscendo a vincere anche concorsi letterari. Ho smesso la mia passione per intraprendere gli studi universitari che il partito scelse per me. Durante il regime comunista nessuno dei giovani aveva la possibilità di compiere una scelta libera. Il partito sceglieva per me, per noi, per tutti noi. Ognuno di noi aveva un destino prestabilito, un destino che lo Stato sceglieva, e che noi tutti dovevamo compiere per il bene della collettività. Lo Stato decideva di quanti ingegneri, fisici, matematici, chimici, biologi, architetti, scienziati, economisti, pittori, e giornalisti avesse bisogno. Era chiaro a tutti che il regime focalizzava la sua attenzione sulle materie tecniche, mentre quelle umanistiche erano quasi del tutto ignorate. Gli scrittori che non si allineavano alle volontà del Partito venivano perseguitati, esclusi, denigrati, abbandonati. Lo Stato dava molta rilevanza al numero degli scrittori presenti sul territorio, quelli che obbedivano, gli scrittori del regime, venivano idolatrati, premiati affinché la loro opera fosse un encomio al regime stesso. Gli scrittori, che oggi definiremmo borderline piuttosto che non si allineavano alle volontà del Partito, venivano perseguitati, esclusi, denigrati, abbandonati in una specie di oblio. Questi scrittori venivano addirittura minacciati, oppressi dal regime molti di loro si suicidavano poiché era l’unico modo per manifestare il loro dissenso. In tutto questo quasi nessuno menziona le condizioni della donna albanese, del suo ruolo nella società, e io di questo voglio parlare. Mi chiamo Ismete Selmanaj e sono l’autrice di “Verginità Rapite”, e della storia di Mira, la protagonista del romanzo, che vi voglio raccontare.  

Anita Likmeta

La ragazza di Durazzo si candida in politica in Italia: non dimentico le mie radici!

di Valeria Dedaj La giornalista e blogger Anita Likmeta, grazie al suo bagaglio professionale e la sua volontà di agire, è oggi una delle candidate di uno dei gruppi politici che sta facendo più parlare in Italia, 10 Volte Meglio. In questa intervista racconta i ricordi che custodisce per il suo Paese natio e il suo desiderio di contribuire all’Albania. Anita custodisce caramente i ricordi di un’infanzia trascorsa tra le colline di Rrubjekë, nell’entroterra albanese, quando sognava grandi storie di cui sarebbe stata la protagonista. E con tanta intransigenza Anita Likmeta conserva i valori come la verità, l’onestà e l’integrità come parte inseparabile di lei. Nota per il suo contributo nel mondo della tecnologia e dell’innovazione, all’impegno sulle questioni sociali e all’attenzione sul fenomeno dell’immigrazione, Likmeta si racconta in esclusiva su “Shekulli“, dove condivide emozioni, storie e i suoi piani per il futuro, compresa l’Albania. Se torniamo indietro nel tempo, quali sono i ricordi che salva dell’Albania? Se penso alla mia infanzia, penso alle colline di Rrubjekë. Ricordo quando le terre erano statali, l’immagine di donne e uomini che imbracciavano le loro zappe dirigendosi al lavoro. Ricordo gli abiti modesti, e dai colori opachi, che coprivano le gambe stanche delle donne, le quali affondavano le zappe coordinandosi tra una zolla di terra e l’altra. Ricordo quando mi dissero che mia madre era partita per l’Italia con la prima nave assieme alla sorellina e al fratellino, di appena 9 mesi. Il caos post regime, il primo giorno di scuola a Rrubjekë, il comizio dell’allora Primo Ministro Sali Berisha nel piazzale della scuola gremita da contadini urlanti che vedevano in lui un miracolo, l’eroe che li avrebbe condotti in una dimensione di vita migliore. Ma così non fu e non poteva esserlo. Ricordo gli anni delle piramidi finanziarie, mio zio, che nonostante gli sforzi del nonno a farlo ragionare, vendette casa ma poi perse tutto, e infine disperato e umiliato partì per la Grecia per fare un lavoro misero perché ai cittadini albanesi di quegli anni erano stati depredati anche da quei pochi averi che avevano. La quiete che precedeva la guerra civile del 1996-97. Ricordo quando la TVSH trasmetteva le lezioni per i bambini perché non potevamo andare a scuola a causa delle sommosse in atto. Ricordo le parole di mio nonno che mi diceva che gli albanesi sono un popolo con una grande storia ma che 50 anni di dittatura hanno piegato lo spirito critico nelle persone, il regime ha indebolito la volontà di farsi voce, di farsi coraggio. Nonno era un socialista liberale, e prima di partire per l’Italia mi raccomandò di studiare, mi chiese di non dimenticare mai le radici perché prima o poi si torna sempre da dove si è partiti. Quali erano i suoi primi sogni per il futuro? Da piccola amavo leggere, lessi tutti i libri di cui l’istituto elementare disponeva. Quando rientravo da scuola e portavo a pasciare le pecore nelle terre con mio cugino, mi portavo sempre con me racconti di autori stranieri come Gianni Rodari, piuttosto i classici greci che ho amato tantissimo. Onestamente da piccola non mi era ancora chiaro cosa avrei fatto concretamente, ma sognavo grandi storie di cui sarei stata la protagonista. Eccellevo negli studi, amavo dipingere e avrei voluto studiare arte, ma vivevo in campagna e i nonni erano troppo anziani e non avrebbero potuto seguirmi. La partenza per l’Italia, come è avvenuto? Aveva solo 10 anni, quali i ricordi di questo viaggio sconosciuto per lei? La partenza per l’Italia è un ricordo vivo nella mia memoria. Erano circa le undici del mattino quando io e la mia famiglia partimmo da Durazzo, salita a bordo raggiunsi la poppa e stetti lì tutto il tempo a guardare i volti delle persone. C’era tanta gente, tanti bambini, le loro urla, e poi i pianti. Persone, che forse, si salutavano per l’ultima volta. Stetti lì, aggrappata a quell’istante, all’immagine della mia terra rimpicciolirsi, ad ogni metro. Raggiungemmo Bari nella notte del 3 giugno del 1997. Ricordo i controlli della polizia italiana, le strade illuminate, e poi gli autogrill, e l’odore dei cornetti caldi al cioccolato. Molti albanesi ricordano i loro inizi discriminatori. Ma quanto si è sentita straniera in Italia, e ci sono state persone che le hanno dato una mano per alzarsi, anche moralmente? La prima difficoltà che ho trovato è stata la lingua, trascorsi tutta l’estate a studiare la grammatica italiana perché avevo bisogno di comunicare, di raccontare, di misurarmi con i compagni italiani. Poi le lingue sono diventate una passione per me, oggi ne parlo sei. Sono stati Socrate, Platone, Seneca, Virgilio, Dante, Boccaccio, Petrarca, Manzoni, Marx, Nietzsche, Goethe, Dostoevskij, Čechov, Puškin, Brecht, Levi, Arendt, de Beauvoir, de Saint-Exupéry, Silone, Spinelli, Hajdari ecc. a crescermi, a motivarmi e a credere che potevo realizzare qualsiasi cosa io avessi realmente voluto, e così è stato, nonostante tutte le difficoltà. L’Albania è sempre presente nei miei pensieri. In Italia ha concluso gli studi liceali ed universitari. Poi Parigi è stata un’altra destinazione nella sua formazione. Cosa può dirci in più? Dopo la maturità classica, ho conseguito gli studi all’Accademia di Arte Drammatica “Corrado Pani” a Roma dove ho studiato drammaturgia. Successivamente mi sono iscritta e ho conseguito la laurea in Lettere e Filosofia all’Università degli Studi “La Sapienza”. Poi ho vissuto a Parigi, per due anni, dove ho potuto approfondire gli studi in Filosofia, e dove ho avuto l’opportunità di lavorare ad un documentario in cui ho intervistato artisti, politici, comunicatori, scrittori tra cui Ismail Kadaré. Durante i suoi studi a Parigi ha lavorato ad un saggio storico in merito alle relazioni tra l’Albania e l’Italia durante la Seconda Guerra Mondiale. Ma qual’è il suo rapporto concreto con la sua terra natia durante questo periodo di 20 anni? L’Albania è sempre presente nei miei pensieri, inoltre in Italia sono Co-Founder di una Holding di Comunicazione che si occupa di Digital Transformation e abbiamo sedi in 3 Paesi europei tra cui l’Albania, dove abbiamo una società, Bit2Be Shpk che si occupa di software. Cerco nel mio piccolo di contribuire, anche se mi piacerebbe molto mettere a disposizione le mie conoscenze e professionalità al servizio dell’Albania. Attrice, giornalista, blogger, e non solo. Dove si rispecchia di più Anita? Sopra ogni cosa, a me piace fare. Trovo che sia la cosa più bella in assoluto vedere le tue idee prendere forma. Ad oggi posso dire che, nonostante la storia di cui sono stata co-protagonista assieme ad altri albanesi, ho vissuto la vita che volevo. Non sono attaccata alle cose, tutto ciò di cui ho bisogno è sempre con me. Ho imparato che tutto è in perpetuo movimento e che siamo davvero nulla dinanzi ai grandi eventi della vita. Verità ed integrità sono per me i valori più alti.  Infine, è tra le candidate di un gruppo politico in Italia. Cosa puoi dirci in merito a questo movimento? Il movimento politico nazionale di 10 Volte Meglio è un gruppo composto da professionisti, imprenditori, manager, a cui potrò contribuire portando i miei valori perché oggi più che mai ritengo sia necessario prendere posizione per cambiare lo status quo delle cose. Trovo che in Albania ci sia una continuità ambigua tra il vecchio e il nuovo. Quali sono i suoi obiettivi in questo settore della politica? L’Italia è il Paese in cui ho scelto di vivere, il Paese che, vent’anni fa, mi ospitò dandomi la possibilità di studiare e soprattutto gli strumenti per potermi sollevare e realizzare nella vita. Per me queste sono ragioni più che valide che mi spingono oggi a fare qualcosa per contribuire a un’Italia che sia capace di rispondere al fenomeno della globalizzazione e in grado di misurarsi con le sfide di un’economia mondiale sempre più interdipendente. Perché credo in un’Italia inclusiva, che sia davvero multietnica e multiculturale e che veda nei “New Italians” non un problema, ma una reale risorsa dalle potenzialità ancora inesplorate. Credo nei valori europei del Manifesto di Ventotene, che superino il modello comunitario verso una politica continentale realmente federale e che abbia all’orizzonte il grande sogno europeo cresciuto con la generazione Erasmus: gli Stati Uniti d’Europa. Questo mio impegno nasce dalla profonda convinzione che quello che stiamo vivendo oggi sia un cambiamento tecnologico senza eguali nella storia. Per questo ritengo che una nuova politica debba essere in grado di dare le giuste risposte ai problemi etici e sociali che questo fenomeno comporta, rimettendo sempre al centro le persone. Che cosa pensa dello sviluppo della politica albanese, cosa la incuriosisce? Ha mai sentito il sostegno della politica albanese quando era immigrata?  Nei miei articoli parlo spesso della politica albanese. Ho seguito con molta attenzione le elezioni, e sono rimasta molto colpita dal malcontento generale dei cittadini albanesi, nei loro commenti leggevo la resa, come se votare fosse una perdita di tempo verso uno status quo delle cose già predefinito. Ecco, io credo che bisognerebbe istillare il senso civico in Albania, ma soprattutto sarebbe fondamentale creare una Commissione per la verità e la riconciliazione nazionale albanese, perché credo ci sia una continuità ambigua tra il vecchio e il nuovo, ma che soprattutto non abbiamo dato volti e nomi a quei criminali e a quello storia da cui dovremmo tutti prendere le distanze. Questo sarebbe un piccolo, grande passo sociale verso un’Albania liberale. Per rispondere poi alla tua domanda, non ho mai sentito il supporto della politica albanese, ma sono certa che avranno avuto il loro gran da fare in questi anni. Tuttavia, la sua vita è concentrata sull’Italia, ma ha mai pensato di ritornare in Albania. Se sì, quale sarebbe il contributo che potrebbe dare? Diciamo che non escludo nulla, come dicevo prima mi piacerebbe poter contribuire in maniera visibile e concreta in Albania, mettere il mio bagaglio di esperienze e professionalità al servizio della collettività, e avrei già alcune idee valide, se avessi il sostegno del governo albanese potrei agire diversamente ed essere più veloce. E infine, quali sono i progetti di Anita per il futuro, anche in politica? A breve termine, sogno l’Albania in Europa. Quello che so per certo però è che rimarrò la stessa bambina sognatrice delle colline di Rrubjekë, e in ogni caso integra ed onesta.

“Where the crows would have sung”, Photo & Reportage Elton Gllava.

I bambini di Bulqizë: se qui non ci fosse stato il cromo, i corvi avrebbero cantato!

di Gëzim Qadraku Non molti sanno che l’Albania è ricchissima di risorse minerarie quali nichel, carbone, rame e cromo, quest’ultima è in quantità e qualità molto elevata. L’Albania è stata sino al 1990 il terzo produttore mondiale mentre oggi è l’unico Paese dell’area europea che possiede giacimenti così rilevanti di cromo. Secondo l’AKBN (Agenzia Nazionale delle Risorse Naturali dell’Albania), la quantità di cromo presente sul territorio supera i 10 milioni di tonnellate. Inoltre, l’Albania, è tra i Paesi dell’area mediterranea a possedere i più importanti giacimenti di fosfato e bauxite, piuttosto le riserve lapidee. Ad oggi le attività estrattive vengono concesse dal Governo albanese a società private albanesi che fanno da ponte a quelle straniere. C’è una città in particolare in Albania, Bulqizë, al confine con la Macedonia dove la presenza di cromo è maggiormente elevata. Negli ultimi dieci anni le attività estrattive sono aumentate notevolmente, così come è aumentato il numero dei lavoratori morti sul luogo di lavoro. Ma è di un altro fatto di cui vi voglio parlare, e riguarda lo sfruttamento sul lavoro dei bambini. A Bulqizë le manifestazioni da parte della cittadinanza non mancano ma spesso queste voci vengono taciute, così come vengono taciute alla cronaca internazionale le responsabilità da parte del Governo albanese, piuttosto la mancata presa di posizione da parte delle Organizzazioni Internazionali per quanto riguarda i diritti civili e quelli del bambino. Elton Gllava, fotografo albanese che vive in Italia dal 1992, ha lavorato per quattro anni ad un reportage fotografico in cui ha denunciato le condizioni dei lavoratori, del territorio e soprattutto dello sfruttamento del lavoro minorile. Una città distrutta e ribattezzata dai suoi cittadini come la valle della morte. Le prospettive di vita di chi nasce in questo territorio sono bassissime a causa della presenza eccessiva del cromo esavalente. L’unica possibilità sarebbe quella di abbandonare la città ma le condizioni di miseria generale in cui vive quasi tutta la collettività hanno piegato questi uomini e i loro bambini al lavoro di estrazione in questi giacimenti dove molti sono coloro che trovano la morte. Nonostante Bulqizë sia un piccola città, che conta intorno ai 15 mila abitanti, la città è un punto cruciale per la ricerca e lo smistamento del cromo, grazie al quale le persone riescono a sbarcare il lunario ogni fine mese. Il 25%  del Pil albanese dipende da questa pietra, della quale vengono esportate 120.000 tonnellate l’anno, per un fatturato che si aggira intorno ai 42 milioni di dollari. Una cifra enorme, che teoricamente dovrebbe permettere a chi lavora nelle miniere di permettersi una vita piuttosto agiata, ma purtroppo non è così. Il salario dei minatori si aggira intorno ai 15 euro al giorno, cifra assolutamente insufficiente per badare a tutte le spese. Il cromo viene estratto e inviato a Durazzo, dove poi i grossisti lo vendono ad Europa e Cina. Questo  metallo viene utilizzato per creare l’acciaio inox o per cromare gli oggetti, dando loro quell’aspetto lucido. Gllava racconta attraverso le immagini le condizioni di vita dei cittadini, e quelle dei bambini che invece di vivere la loro infanzia e andare a scuola sono costretti a lavorare e aiutare i loro genitori. I bambini, come gli adulti, iniziano il turno di lavoro nelle prime ore del mattino. Nell’ultimo anno, i giornali albanesi hanno cominciato a evidenziare le problematiche che interessano l’area dei giacimenti ma senza trapelare fatti e dati che raccontano di una realtà drammatica in cui i diritti civili sono del tutto ignorati. I minatori albanesi hanno organizzato più volte manifestazioni in cui denunciavano le loro condizioni chiedendo più tutela alle istituzioni, l’aumento di salario e l’abbassamento dell’età pensionabile a 50 anni. Le proteste servono ai lavoratori per esprimere il loro dissenso al governo albanese invitandoli a prendere posizioni a riguardo di un settore che incide  in una percentuale importante sul Pil del Paese. I minatori non denunciano direttamente le morti sul lavoro poiché, come alcuni giornali albanesi sostengono, ricevono continue minacce di morte e ricatti. Elton Gllava è rimasto a stretto contatto con i cittadini di Bulqizë, instaurando con loro un rapporto di amicizia. Ne è nata così una mostra fotografica, dal titolo: “Dove i corvi avrebbero cantato”. Scelta questa, condizionata da una frase che un vecchio disse al fotografo aspettando il passaggio di un corteo funebre: “Se qui non ci fosse stato il cromo, i corvi avrebbero cantato”. Parole che danno ulteriore riprova di come questa pietra sia fondamentale per la gente di questa città e per lo stato albanese. Allo stesso tempo, fortunatamente, il lavoro onesto di professionisti Elton Gllava ci permette di comprendere a pieno la situazione ingiusta che la gente del posto e soprattutto i bambini stanno vivendo. L’auspicio è che le condizioni dei minatori possano migliorare, e che i bambini possano ritornare sui banchi di scuola, a fare ciò che dovrebbero fare a quell’età, ovvero studiare e sognare.

Albania

Myrteza Minxhaj: prima che la Storia si dimentichi di noi

Succede che, sfogliando migliaia di mail e messaggi che mi arrivano ogni giorno, capita di leggere le parole di un uomo che ha una storia speciale. Myrteza Minxhaj è uno dei protagonisti di quello sbarco biblico che avvenne nel 1991 nel porto di Brindisi. Oggi racconto la sua storia. Myrteza, raccontaci chi sei. Sono nato il 22 maggio del lontano 1953, nel mese di Ramadan ed è per questo che mi hanno dato questo nome, affinché io, orfano, potessi ricordare. La mia città natale, Delvina, è posizionato a sud dell’Albania, nella Çameria. Com’è stata la sua infanzia lì? Non sono rimasto per molto nella mia città natale, dopo alcuni anni ci siamo spostati andando sempre di più verso ovest, come nel paese di Sasaj, dove sono cresciuto e formato. I dieci anni trascorsi in questa parte dell’Albania mi risultano oggi come ricordi lontani; ogni volta che ho la possibilità di fare ritorno incontro vecchi amici di scuola. Mi sembra di vedere un vecchio film. Quando vi siete allontanati dall’Albania. Quale il ricordo? C’è un motto albanese che recita “L’Albania si rivolta ogni cento anni”, così come accadde con il comando italiano a Valona un secolo fa. La stessa  incomprensione ci ha portati all’anarchia totale nel 1991, ma questa volta gli albanesi non avevano di fronte il corpo italiano ma il nostro governo in assoluto immobilismo, piegati dal regime dittatoriale che avevamo appena superato. Abbiamo provato e vissuto tutte le difficoltà del momento, abbiamo aspettato a lungo, fino al giorno in cui ci è apparso possibile accarezzare il sogno di ricominciare una possibile vita altrove. Per me, come credo per molti, non ci sarebbe stato nessuna guerra civile, neppure la morte mi avrebbe fermato. Nel 1991 facevo il meccanico sulla nave Kallmi, per cui ero favorito qualora avessi optato nella scelta di espatriare. Il 5 marzo ricordo che c’era grande clamore, ricordo tutte le urla delle persone che erano parcheggiati fuori dall’area portuale.  La mattina seguente, il 6 marzo 1991, rientrammo nel porto per il cambio del turno. Io, con altri colleghi, ci stavamo spostando nell’area trattamento minerali quando vidi alcuni ragazzi del mio palazzo che mi chiamavano per chiedermi se li potevo aiutare a farli passare per poi salire sulla nave. Assieme ai miei colleghi facemmo entrare il gruppo dentro la nave che a breve sarebbe partita. I ragazzi del mio condominio mi guardavano da lontano e uno di loro ricordo che mi chiese “Myrteza, perché non sali? Dai, parti con noi”. Appena udii le parole che mi dissero, il respiro mi si ruppe nel petto, l’angoscia mi avvinghiò lo stomaco. La testa mi poneva mille domande. Di mia moglie, mia figlia, che ne sarebbe stato? La decisione era una certezza in me. Non avrei mai scelto di  sacrificare mettendo a rischio le loro vite. Perché un maschio, in fondo, fa quel può. E con questi pochi pensieri in tasca salii su quella nave prendendo parte a quello sbarco di dimensioni bibliche per cui l’Albania come gli albanesi verranno ricordati, ancora per molto tempo. Cosa si ricorda di quelle ore in viaggio? Sono trascorsi 26 anni, eppure una scena mi sovviene spesso alla mente; ricordo una coppia di Scutari che si avvicinarono a me chiedendomi se li potevo far salire a bordo e che potevano pagarmi con 40.000 lek. Quei soldi erano arrotolati e legati da uno spago. Mi spiegarono che erano a Durazzo perché pensavano di acquistare in città un televisore perché nel loro paese non era possibile fare un acquisto del genere. Comunicai a loro che il viaggio era gratuito e che non mi dovevano nulla. Ma l’uomo insistette raggelandomi nelle sue parole: “Prendi questi  soldi fratello, goditeli come potrai. L’unica cosa che vogliamo è salire a bordo e partire. Sono 60 anni che viviamo in una prigione a cielo aperto: i miei nonni, i miei genitori e adesso la mia famiglia. Voglio partire per piangere anche quel poco che troverò.” A sentir le sue parole subito mi vennero in mente i versi del poeta Migjeni che alla domanda “Per il cadavere del bambino chi dobbiamo ringraziare?” egli rispondeva “Spedite il corpo morente dell’infante al deputato, al ministro o a qualcun altro”. E lo sbarco? Il 7 marzo 1991 raggiungemmo il porto di Brindisi nelle prime ore del mattino, erano le cinque. Il viaggio, ringraziando il buon Dio, fu buono. All’arrivo al porto di Brindisi ricordo il grande calore con il quale fummo ricevuti. Gli italiani si sono mostrati un popolo amico, un popolo meraviglioso, pieno di umanità. Per molti di noi, quel giorno segnava l’inizio di una nuova vita. Molti di noi erano coscienti che nella perdita c’era la possibilità di una vittoria: una vita possibile, dignitosa. Molti di noi, almeno oggi, non vogliono più ricordarsi, talvolta non vogliono accettare di essere parte di quel mosaico che nei peggiori incubi ancora urla per essere raccontato. Come ha vissuto i primi anni da immigrato? Cosa posso dirle, cara giovane ragazza, i primi anni sono stati difficili. Il pensiero costante era sempre quello di riuscire a inserirsi nel tessuto sociale italiano, un’impresa molto ardua. Come la lingua, il primo ostacolo da superare perché ci impediva ogni sorta di possibile di comunicazione con gli italiani. Lei è uno storico, è stato pubblicato in Albania, quali lavori ha dovuto svolgere nei primi anni in Italia? Come si manteneva? Ho sempre amato la storia, la letteratura, le arti in generale. In Albania, da giovane, mi sono specializzato in meccanica e in agraria. A Durazzo, ho lavorato nel reparto dell’area portuale ed è qui che ho sviluppato la mia passione per i testi storici e la letteratura. In Italia ho fatto qualsiasi genere di lavoro per mantenere me e la mia famiglia. Poi nel tempo ho avuto la possibilità di lavorare sui miei saggi che hanno trovato l’interesse di case editrici albanesi. Il mio primo saggio storico “Vitelia gadishulli ne perendim” è stato pubblicato e tradotto anche in italiano grazie al giornalista Hasan Alia.  Perché avete scelto l’Italia per vivere? La risposta è semplice: io vivevo in Albania di fronte al mare e sapevo che dall’altra parte dell’Adriatico c’era l’Italia, un Paese a cui l’Albania è legato per tanti motivi storici. Di conseguenza vivere in Italia è stata una scelta abbastanza naturale. È chiaro che l’Albania è al centro dei suoi studi. Assolutamente. L’Albania è il centro dei miei studi e delle mie ricerche storiche, archeologiche, geografiche e linguistiche. Ha mai pensato di far ritorno e vivere in Albania? Una cosa è certa: noi partimmo nella speranza di trovare quella famosa “busta d’oro” e ad oggi posso dirti che ognuno ha le sue ragioni per rimanere come per ritornare. Quali sono i lati positivi e negativi del Paese delle aquile? Prima di tutto l’Albania possiede è ricca nella flora e nella fauna. Clima mediterraneo, minerali di prima qualità da nord a sud, ricco di falde acquifere e infine di energie dal gas al petrolio. Come spiega la forte immigrazione che sta avvenendo nei Paesi europei, specialmente quelli del Sud come l’Albania piuttosto l’Italia? Penso che il problema coinvolge tutta la popolazione mondiale che sempre di più emigreranno verso i Paesi del nord Europa che si presentano più ospitali e favoriscono la possibilità di una vita dignitosa. Pensa che l’Albania è pronta ad entrare nell’Unione Europea? Il ritardo di questo processo non può mettere in dubbio l’ingresso dell’Albania nell’Unione Europea. I problemi causati dai conflitti nell’area balcanica a causa delle tensioni fra i vari Paesi non possono rappresentare un freno per le politiche interne in Albania. Bisogna continuare a migliorare i parametri al fine di raggiungere gli obiettivi necessari per entrare nell”UE, anche perché se dovessimo fermarci ai dissidi dovremmo mettere in discussione le quattro aree di cui l’Albania è stata espropriata e di cui non ha mai avuto risposte dalla comunità internazionale e che forse mai avrà. Insomma non possiamo fermarci a queste questioni, almeno non adesso. In che rapporti è con l’Albania e con gli albanesi? Ho vissuto per 37 anni in Albania, lì mi sono formato come individuo, mi sono sposato e ho messo su famiglia. Ho fratelli, sorelle, cugini e amici. Ho un rapporto speciale con i miei connazionali. Nonostante le difficoltà vissute durante il regime dittatoriale piuttosto gli anni dell’anarchia io non parlerò mai male del mio Paese e tanto meno degli albanesi che stanno cercando di mettersi alle spalle una storia difficile da digerire. Cosa la colpisce maggiormente quando rientra in Albania? Ciò che mi impressiona di più è la crescita esponenziale che vedo ogni volta che ritorno in Albania. La mia città, Durazzo, è in continua crescita sia verticalmente che orizzontalmente. C’è un grande progresso e questo lo trovo molto positivo. Di cosa vi state occupando attualmente? Da circa 15 anni mi occupo di ricerche sulla storia dell’Albania. I miei interessi vertono in quest’area così sensibile perché dell’Albania, a parte i barconi, si conosce poco. Io, nel mio piccolo, cerco di fare qualcosa, di lasciare un mio contributo per tracciare una linea del percorso che, noi come popolo, abbiamo attraversato: dagli Illiri, ai bizantini, ai veneziani, agli ottomani, all’Indipendenza del 1912, al regno con Zogu, all’era fascista, alla dittatura di Enver Hoxha fino al 1991, che mi ha visto tra i protagonisti dello sbarco biblico di cui il mondo è a conoscenza. Come dicevo qualche domanda fa, sono stato già pubblicato con il mio saggio storico “Vitelia gadishulli ne perendim”, adesso sta per essere pubblicato in Albania un saggio storico dell’autore italiano Giuseppe Catapano di cui ho curato la traduzione in lingua albanese assieme a mia figlia. Adesso sto lavorando al mio secondo libro “Lashtesia e gjuhes shqipe” ossia l’eredità della lingua albanese. Io ho un lavoro e una famiglia a cui devo pensare per cui mi è difficile conciliare la mia passione con tutto il resto, ma lo faccio con amore e con dignità nella convinzione di lasciare ai posteri che verranno qualcosa di prezioso, in fondo un libro è sempre uno specchio dove vedersi e chissà forse riconoscersi. Come vede il futuro dell’Albania? Mi viene in mente ciò che lessi tra le pagine del libro di Nostradamus, il quale diceva “Attenti agli albanesi, perché essi non hanno ancora detto l’ultima parola nella Storia”, piuttosto un altro testo che recitava “Gli albanesi hanno sofferto molto, e questo li ha resi lenti nel processo dello sviluppo, ma nella prima metà del 21 secolo apparterrà a loro, i quali conosceranno una crescita  e sviluppo senza precedenti”. Ecco, che uno ci creda o meno, piuttosto metta in discussione certi autori oppure parole, io voglio pensare ma soprattutto sperare che l’Albania e gli albanesi possano far parte di quell’Europa dei popoli che tutti un giorno sogniamo di diventare.

Edison Balla

Edison Balla, giovane promessa dell’arte made in Albania

Edison Balla, giovane promessa dell’arte made in Albania, classe 1997, racconta in questa intervista i suoi inizi di carriera, i suoi maestri, i suoi sogni ma soprattutto dipinge attraverso le sue parole l’Albania odierna, un quadro in continuo movimento.  Edison, raccontaci chi sei? Dove sei nato e quando? Sono nato  a Tirana, in Albania, il 14 gennaio 1997. Inizialmente ho vissuto a Shijak, in provincia di Durazzo; successivamente quando iniziai gli studi liceali mi trasferii a Durazzo, dove ho vissuto per quattro anni, insomma fino a compimento del mio percorso scolastico. Infine, a Tirana dove mi sono iscritto all’Accademia delle Belle Arti.  Qual è stato il tuo percorso di studio?  Come vi dicevo, ho frequentato la scuola elementare nella piccola provincia. Alcune persone, inclusi amici e parenti, quando videro che io nutrivo la passione per il disegno e la pittura, non esitarono ad incoraggiarmi e per questo scelsi di iscrivermi al liceo artistico “Jan Kukuzeli”, dove, per quattro anni, ho avuto l’opportunità di perfezionarmi nell’arte della scultura. Questi quattro anni, molto proficui per me, sono stati fondamentali per la mia crescita, oggi continuo a proseguire i miei studi nell’Accademia delle Belle Arti indirizzo scultura e ceramica.  In cosa ti sei specializzato? Dopo aver sperimentato un pò di tutto al liceo, mi sono specializzato nella lavorazione della ceramica, anche se la pittura è una passione che non morirà mai in me, tanto che, qualche tempo fa, mi ha portato a Capri, in Italia, ad esibirmi e a concorrere assieme ad artisti internazionali. Per me la parola “specializzazione” vuol dire poco, non è congrua a quella che è l’intendimento creativo per un artista. Personalmente alcune idee le percepisco molto di più tridimensionali mentre altre le preferisco vedere come un “telaio”.  Puoi raccontarci un pò meglio la storia della tua famiglia d’origine? Le origini della mia famiglia sono di Tirana, mio nonno lavorava, in passato, come Capo anticriminalità organizzata a Durazzo, fu per questo motivo che noi ci trasferimmo ad abitare a Durazzo, la città che mi ha cresciuto e influenzato anche nella mia identità artistica. La mia famiglia è gente semplice ma grandi lavoratori, i quali hanno realizzato le loro aspirazioni nel pieno rispetto della dignità, attraverso sacrifici.  Cosa ne pensano i tuoi familiari di questa tua scelta?  I miei familiari, inizialmente, non erano d’accordo con la mia scelta perché intraprendere un percorso artistico in Albania può presentare molti ostacoli, specialmente per un giovane come me, quindi è stato molto difficile convincerli, ma la mia tenacia e il mio lavoro li ha portati a pensare che forse dovevano darmi la possibilità di misurarmi con il mio talento e andare fino in fondo. Ad oggi, dopo un percorso di traguardi raggiunti, almeno accademici, i miei genitori sono felici per me, e anzi, mi incoraggiano.  Quali sono stati i tuoi Maestri principali nel percorso che hai fatto in Albania, e quali gli artisti che ti hanno ispirato? Diciamo che sono stati i professori del liceo ad aver profondamente inciso nel mio modo di concepire e fare arte, ma c’è stata una persona in maniera speciale ad aver fatto la differenza per me, la pedagoga Florina Shani, alla quale sono grato e per la quale nutro grande rispetto. Poi, gli artisti che maggiormente hanno influito in me sono Lucian Freud, Rene Magritte, Egon Schiele.  Cosa ti ispira nel tuo lavoro? Nel mio lavoro trovo l’ispirazione nella natura, nella psicologia, mi piace pensare agli aspetti intimi della persona; l’uomo che tutto costruisce e tutto distrugge, il mondo emozionale.  La tua storia è quella di un ragazzo che è nato esattamente nel periodo post anarchico, post guerra civile, insomma sei un Millennians balcanico, come vive un ragazzo come te l’Albania di oggi?  Un giovane d’oggi in Albania deve combattere ancora di più per raggiungere gli obiettivi che si prefissa. In Albania puoi trovare eccellenze in ogni campo per cui il livello di concorrenza è altissimo per non parlare della lotta di classe sociale piuttosto quella politica, e infine economica. Personalmente trovo interessante quando l’ambiente diventa competitivo perché mi porta a migliorare.  Cosa pensi dell’immigrazione? Penso che l’immigrazione  è necessario per conoscere nuovi orizzonti e per misurarsi con nuovi mondi, oltre il proprio. Per quanto riguarda le famiglie, invece, a volte è una scelta incondizionata per tentare la fortuna e costruirsi una vita migliore altrove. Certo, è molto triste pensare di lasciare la patria natia a causa delle difficoltà e dello Stato che non sovvenziona e incentiva con contributi le famiglie. Ma spesso, l’emigrazione si rivela un viaggio molto interessante.  Pensi mai di voler lasciare l’Albania per andare altrove? E se sì, dove ti piacerebbe andare e perché? Sì, l’ho pensato. Per me sarebbe interessante vivere in un altro Paese per sviluppare al meglio le mie possibilità. Ho pensato a Capri, ci sono stato, come vi dicevo, e l’ho trovato molto bello sotto ogni profilo. Mi è piaciuto la gente, il clima, ma soprattutto è un luogo che ispira molto. Onestamente ho sempre amato l’Italia, per la sua cultura e per le possibilità che questo Paese può dare ad un artista. Certo, non escludo a priori gli altri Paesi.  Cosa, secondo te, manca ancora all’Albania?  Penso che in Albania manchino le possibilità affinché un artista possa svilupparsi al meglio, questo perché da noi non si respira ancora un’aria internazionale. Poi, cosa ancora più importante, in Albania manca la capacità di integrare il vecchio con il nuovo. Non ci sono ancora politiche d’integrazione atte a riequilibrare le lotte sociali che viviamo nel Paese.  I tuoi genitori ti raccontano quegli anni? E i tuoi lavori sono condizionati dalla tua storia? No, i miei lavori non sono condizionati dai fattori storici. I miei lavori rappresentano me e quello che io penso, oggi.  Cosa pensi degli ambienti accademici in Albania? Quello che posso dire è che il livello accademico in Albania è molto buono anche se ancora non ci misuriamo con gli standard che l’Unione Europea propone.  Secondo te, il mondo dell’arte è sovvenzionato dalla classe politica albanese? Voglio essere onesto: penso che la politica albanese raramente degna di uno sguardo il mondo dell’arte, ciò a cui noi assistiamo ogni giorno è la messa in scena dei personalismi individuali. Una cosa vergognosa!  Come vedi l’Albania oggi?  L’Albania è un Paese bellissimo, io attualmente vivo qui, anche se incontro molte difficoltà, come le incontrano tutti gli albanesi che ogni giorno nel loro piccolo tentano di fare la differenza con grandi sacrifici.  E degli albanesi, cosa ne pensi? E dei tuoi coetanei?  Io osservo e vedo che i miei connazionali sono spaesati, increduli insomma in una grande difficoltà storica. Personalmente sono fortunato perché sono circondato da artisti e vivo in un ambiente dove pullulano le idee nonostante manchino i fondi. I miei coetanei invece, li vedo pietrificati, passivi e demotivati. Come interpreta un giovane come te le derive totalitariste e ultranazionaliste che in molti albanesi sono presenti? Penso che l’Albania, oggi, sia il nodo da sciogliere per capire molte dinamiche che ancora non sono chiare perché é mancante dal punto di vista delle fonti storiche, non c’è un’unica voce ufficiale. Io sono orgoglioso del mio Paese quanto di essere albanese. Spero soltanto che i politici inizino a mettere da parte i loro personalismi per poi indicarci una strada percorribile per il bene comune.  Pensi che l’Albania e gli albanesi siano pronti per entrare nell’Unione Europea, oppure pensi che questa scelta non è opportuna in questo periodo storico? Penso che non siamo pronti relativamente. In Albania abbiamo ancora problemi di politica interna, come le tasse oppure il debito pubblico nazionale. Qui, manca il lavoro. La domanda che io mi pongo spesso è come possiamo essere pronti per sottometterci a delle nuove leggi da parte dell’Unione Europea quando ancora siamo incapaci di decidere la direzione basilare da prendere, in questo piccolo Paese.  Che messaggio vorresti dare ai quei giovani artisti, albanesi e non, che in Italia e nel mondo ti leggeranno attraverso le tue parole in questa intervista? Il messaggio che io posso lasciare agli artisti e giovani albanesi non è soltanto quello di lavorare per quello in cui eccelliamo e amiamo ma, di farsi forza e combattere per nutrire quell’ego professionale al fine di incamminarci verso il futuro che da oggi si chiamerà anche Albania.  Quali sono le tue speranze, i tuoi sogni?  I miei sogni hanno a che fare con l’arte. ovviamente. E proprio su questo sto lavorando ad una esposizione a Capri, in Italia, assieme a mio cugino Renato Balla, il quale è un fotografo. Nell’esposizione ci saranno i miei quadri accompagnati da installazioni visive. Insomma, posso dire che i miei sogni, ad oggi, in parte si stanno realizzando anche se la strada da fare è ancora molto lunga e non mancano le difficoltà, ma in queste difficoltà incontro persone, giovani e non, che abbracciano le mie speranze e questo è il più bell’abbraccio perché mi incoraggia a fare meglio ma soprattutto mi motiva a lottare per portare fuori, attraverso il mio lavoro, la mia Albania, il mio popolo.  E siamo all’ultima domanda per te, giovane Sig. Balla, se potessi scegliere il tuo colore preferito per dipingere il mondo quale sceglieresti? Il mio colore preferito è il nero. Per me è il colore che contiene dentro tutti gli altri colori, tutti i colori primari sono dentro. Poi, è così che filtro il mondo in quanto penso che il nero, senza l’accezione negativa che gli affibbiano, è il colore simbolo dell’umanità, dell’universo, la vita, la morte, la luce, la passione, il mistero, l’emozione.  Grazie Edison, che la tua arte possa danzare al ritmo dei sogni più belli, di quelli che un giorno ti fanno dire “C’era una volta un mondo…” e poi magari di fronte si trovano un quadro, il tuo. Edison Balla.

La mia vita cambiò su quel barcone per Bari

Mi chiamo Anita Likmeta, sono arrivata in Italia 16 anni fa. Sono l’esempio perfetto di quello che accade oggi nel mondo. Io sono una immigrata proprio come quegli egiziani, libici, somali, etiopi che stanno ammassati in centri che sembrano dei veri e propri campi di concentramento. Io sono una delle migliaia di persone, non rifugiati politici, non profughi di guerra, non immigrati clandestini, ma persone che anni fa hanno attraversato il mare su un barcone, sperando di trovare in Europa qualcosa di meglio rispetto allo scenario di morte che lasciavo. Io vengo dall’Albania. A casa mia c’era la guerra civile, e voi per fortuna non lo sapete, non lo sapete più cosa è una guerra civile. Non sapete più cosa vuol dire quando ci si ammazza tra fratelli, tra cugini, tra vicini di casa, tra un paese e I’altro. Si spara a vista, a qualunque cosa si muova, si entra nelle case, si fanno i rastrellamenti, si stuprano le donne. Ricordo lucidamente il giorno che precedeva la partenza. Un pomeriggio pieno di nuvole di fine maggio. Non comprendevo la dimensione delle cose. L’idea di partire per I’Italia sembrava un sogno. Nessuno dalle mie parti amava I’Italia. L’Albania è stata invasa dai fascisti, i quali non avevano certo portato la civiltà, né il diritto, né I’arte. Guardavo le mani di mia nonna piene di crepe e ruvide e il suo odore che assomigliava ai legni bagnati dalla pioggia d’inverno. L’ANNUSAVO per fotografare nel mio cuore quell’istante, quel momento che non passava mai, fermo, indeciso, tiepido. Ci alzammo e rientrammo a casa. Udii la voce di mio nonno: “Dov è Nini?”; trattenevo le lacrime, volevo essere più forte delle mie emozioni. Respirai profondamente. Entrai nella stanza dove lui sedeva in un angolo a fumare le solite sigarette. In mezzo alla stanza c’era una stufa a legna e sui lati di essa dei barattoli di vetro con olio di ricino e un filo che si accendeva per illuminare l’ambiente. Un grido, il mio,“Nonnino io me ne vado, vado ora” e mi dipinsi il volto di una espressione felice che volevo gli rimanesse per sempre di me. Lui si alzò nonostante i suoi acciacchi, i suoi occhi erano tristi. Mi mise una mano sul volto e mi disse “E dove vai?”, e io “vado in Italia nonno” e lui “brava, diventa una brava bambina italiana”. La nonna mi prese per mano e mi portò fuori dalla stanza, ma i miei occhi rimasero fissi su di lui e mi ripetevo che sarei ritornata. Fuori ad aspettarmi c’era mio zio con la carrozza trainata dal cavallo che mi avrebbe portato fino alla prossima città e lì avremmo preso I’autobus per arrivare a Durazzo. Partimmo. Vedevo da lontano la casa dei nonni rimpicciolirsi a ogni metro che facevo. A un certo punto tutti i miei amici che si erano nascosti nella collinetta uscirono urlando il mio nome e inseguendo la carrozza tutti insieme. “Ciao Nini, ciao. Anche noi verremmo. Ci vediamo presto.” Urlavamo, piangevamo, ridevamo contemporaneamente. DURAZZO. Dinanzi a me c’erano molti piccoli imbarcaderi, appoggiati vicino al porto che non era più controllato dalle forze dell’ordine. Anarchia totale. Gente che tentava di salire e veniva buttata giù, gente in coda, gente che pagava, gente che tentava di mettere un bagaglio più voluminoso e gli veniva scaricato direttamente in mare, disperati vestiti nei modi più strani, soldi che passavano da una mano all’altra, spintoni, bambini attaccati alle madri che urlavano. Si parte e io rimango seduta a poppa per guardare il mio paese scomparire lentamente. Arrivammo a Bari. Io, mia madre, mio fratello e sorella abbracciati. Ci controllarono come se avessimo i pidocchi. Un amico di famiglia ci portò a Pescara. Sono passati degli anni e io sono cresciuta, ho studiato, ho frequentato I’Accademia d’Arte Drammatica “Corrado Pani”, ho successivamente conseguito la laurea nella facoltà di Lettere e Filosofia, ho lavorato con dignità. La libertà racchiude in sé la possibilità di essere felici. E la possibilità di essere felici non è altro che la possibilità di scegliere: un vestito, la fede, un partito politico e, attenzione, un luogo dove vivere serenamente, lavorare e mettere su famiglia. E’ il cardine del diritto dell’uomo, della convivenza con i suoi simili, il cardine della nostra vita per il quale molti prima di noi hanno lottato e perso la vita, per il quale oggi ancora si lotta e si muore. di Anita Likmeta su Il Fatto Quotidiano