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Piccolo Cafè

Michele Casadei Massari: il sogno americano del “Piccolo Café”

Michele Casadei Massari, classe 1975, nasce in Romagna, a Riccione per la precisione. Ben presto si accorge della sua passione per la cucina, passione trasmessagli dal nonno Gigi, figura determinante nel percorso di vita di Michele, il quale ha vissuto a Bali, in Asia, prima di approdare nella Grande Mela soltanto otto anni fa. L’ascesa di Michele a New York è avvenuto in un breve lasso di tempo grazie alle sue capacità e al suo ottimismo nell’affrontare le nuove sfide che la vita gli presenta davanti. Michele è Founder ed Executive Chef del Piccolo Café che conta ben quattro locali a Manhattan oltre a vantare della collaborazione con i più prestigiosi clienti nella moda oltreoceano. L’American Dream di Michele Casadei Massari aggiunge nei prossimi mesi un altro e importante traguardo con l’apertura di un nuovo locale, La Lucciola. Michele, a che età è nata la tua passione per la cucina e perché? Lo ricordo lucidamente, avevo 6 anni e ammiravo il nonno Gigi, il mio cuoco preferito di sempre. Il vecchio viaggiava tutto il mondo con l’atlante e amava spendere i meritati giorni di inizio pensione nella sua cucina economica a legna, a Monterado nelle Marche.  Lo guardavo mentre se ne stava seduto sulla consumata e pizzichina impagliatura della sedia a corredo del solido legnoso tavolo bianco. Lo studiavo nei suoi riti; pulire i tordi, bollire le bietole, pulire le patate, lavare la trippa, fare la cresca, spurgare le lumache e bollire le vongole e infine, filtrare con cura la sabbia. In quel mio piccolo tempo, i giorni scorrevano spensierati, mentre l’amore di mio nonno mi avvolgeva come una coperta, la sua onestà, il suo essere ligio e dedito al lavoro mi rassicuravano facendo crescere in me la consapevolezza dell’uomo che sarei divenuto. Per il nonno la cucina era sinonimo di famiglia, eravamo noi, ero io. Il nonno aveva delle mani bellissime, le più pulite ed eleganti mani da uomo che io avessi mai visto, e con quelle mani tagliava e sminuzzava con rigorosa attenzione tutto, utilizzando coltelli affilatissimi e di epoche eterne, tutti del passato. Nonno Gigi credeva solo nella cottura a legna, diffidava del gas. Nonno Gigi era pulitissimo, era paziente. Quando avevo nove anni cucinai per la prima volta per mia madre e il suo compagno e quella per me fu l’inizio della mia carriera. Devo tutto al nonno, l’uomo con il quale trascorsi i miei giorni migliori, la mia infanzia.   Che percorso di studi hai compiuto?  Mi sono iscritto al corso di Farmacia e l’ho frequentato per un breve periodo, poi sono passato a studiare Medicina, una mia grande passione, ancora oggi compro e leggo libri di genetica. Ecco, il mio percorso di studi universitari è stato scoordinato perché ero distratto, avevo la testa altrove. Sono sempre stato una persona indipendente per cui ho scelto di tuffarmi subito nel mondo del lavoro, avrei voluto portare a termine gli studi in Medicina se non altro per rendere felice il babbo, al quale chiedo venia in questa intervista. Tuttavia devo dire che la passione per le materie scientifiche, come la Fisica o Chimica, spesso incrocia e si coniuga con il mio mestiere di Chef. C’è stato un periodo in cui mi dedicavo a studiare l’uso del sale nella sua composizione ma soprattutto di comprendere cosa fossero e come andassero trattati i grassi, le temperature e le bizzarre forme ed evoluzioni delle proteine, poi gli zuccheri e la loro irreversibilità alle alte temperature. Insomma, io non smetto mai di studiare perché trovo irresistibile il progresso della nostra materia. La cucina e le sue tecniche, gli utensili, l’equipments e le strategie, sono per me la parte affascinante e meravigliosa del mio piccolo mondo, del mio Piccolo Café.  Quando e qual’è stato il motivo per cui hai deciso di lasciare l’Italia?  Non l’ho mai deciso e né mi sono incoraggiato, l’ho semplicemente colto e poi perseguito con tenacia e ardore, ho afferrato l’opportunità e mi sono lanciato. Sono uno testardo e paziente con l’arte del mettermi in gioco, ora lo rifaccio con la mia nuova sfida che è il ristorante La Lucciola. Perché hai scelto New York? Perché volevo un mercato, una piazza, un teatro eclettico, multirazziale e poliedrico, perché pensavo e lo penso tutt’oggi che il viaggio, l’avventura che avrebbe costituito sarebbe stato il vero premio e traguardo di questa sfida, e che sarebbe stato comunque un forte bagaglio di esperienza e sopravvivenza. Raccontami la storia del “Piccolo Café”, com’è nato?  È nato sullo sdraio di una estate calda in Sardegna. Pensavo e ripensavo crogiolandomi su queste domande: cosa mi piace, cosa so fare e cosa posso fare ovunque io sia? La risposta mi venne naturale: me stesso sempre. Ospitare, cucinare, accudire, ascoltare, incontrare, raccontare, vendere, leggere, e quindi condividere. Optai per un atto eccezionale in accordo con la domanda e la risposta, ossia di fare la prima caffetteria tradizionale italiana ever a Union Square durante il mercatino di Natale in uno spazio di un metro quadrato. Mi parse l’idea vincente, l’ho voluto tanto per cui detto e fatto! Mi sono avvalso del visto E2.  Com’è stato il primo periodo? Quali le difficoltà? È stato molto stimolante, difficilissimo ma allo stesso tempo esaltante. Non capivo nulla, ero curiosissimo e mi mettevo sempre nella condizione di ascoltare ed approfondire. La Grande Mela dove tutto era possibile, il più grande “Blue Ocean” di sempre. Non conoscevo nulla di questo mercato e quindi ero estremamente sereno, eccitato e ottimista, quest’ultimo è un mio tratto caratteriale perché credo in tutti e in tutto quello che faccio, sempre. Le difficoltà oggettive furono metriche, ambientamento e orientamento fisico e culturale, capirsi anzi intendersi in tutto al meglio, inserirsi e sincronizzarsi con i luoghi e le persone, ottenere e avanzare, fare i passi giusti. Dal punto di vista lavorativo, pensi che i rapporti siano più facilitati rispetto all’Italia?  Non saprei, perché sono sempre io, sarei sempre io, approccerei comunque il lavoro con lo stesso stimolo e idealismo. Mi sveglio da sempre pieno di voglia di fare e mi pare ci siano sempre opportunità, credo nelle idee e nella loro velocissima attuazione, amo l’Italia e ne sono fierissimo, quindi la vedo sempre come una opportunità e un mercato in continua evoluzione. In questo preciso momento non credo, forse c’è più velocità e pragmatismo, ma vivo a NY , l’America è grande e tanto diversa da NY e non solo NY, credo che qui ci sia meno pregiudizio sull’impresa e che ci sia una atteggiamento di rewarding culturale sincero, mirato al risultato e al perseguimento che stimola e spinge a fare e rifare sempre di più, sbagliare e ricominciare. Spesso la tua domanda la pongo ai giovani italiani che spesso incontro in questa città e le risposte sono molto cambiate oggi rispetto agli ultimi anni. Il governo Obama ha rappresentato il cambiamento, l’entusiasmo, il cambio generazionale e finalmente la risposta all’America “bianca” che oggi torna ad inquietare. È più facile aprire un’attività in U.S rispetto all’Italia?   Potrei non essere aggiornatissimo ma direi che in linea di massima è più facile qui dove tutto è fattibile on line e con l’assistenza gratuita. Come si vive nell’America Trumpiana?  Sto rinnovando in questi giorni il mio visto, quindi mi è facile risponderti: con attesa e speranza e con cauta osservazione. Cosa ne pensi delle politiche dell’immigrazione attuate dal nuovo governo di Donald Trump? Non le ho ancora capite, ma sono certo che questo Paese, ma soprattutto questa città è fatta di diversity, di mix, di tanti desideri, di tante religioni, di talenti e propulsione e qui, a New York, tutto si unisce e si armonizza in questo melting pot razziale e culturale con osmosi naturale. Ad oggi, consiglieresti ad un giovane di trasferirsi per cercare lavoro in America? Consiglierei per ora di attendere e capire al meglio e il prima possibile le direttive per i visto e le concrete opportunità e limitazioni, quindi prima lo studio e l’idea, poi sì, attuandosi velocemente e con ambizione. Pensi mai di rientrare in Italia? Per ora no, e non permanentemente, solo perché qui non ho ancora finito, mi sento di aver appena iniziato. Come ti accennavo prima, sto aprendo un nuovo locale, il quinto, che si chiama La Lucciola. E poi, sai, rientro spesso in Italia, anche ora grazie a te attraverso questa intervista. Ascolto moltissima musica italiana, leggo i giornali e grazie alla nostre magnifiche radio italiane e le loro app (adoro i podcasts) seguo con interesse le vicende politiche del nostro Paese.   Bellissima, colta, intellettuale, sensata, coraggiosa, educata, audace, dialettica e autentica, si capisce che la amo tanto? Per i giovani che ti stanno leggendo in questa intervista, nella tua attività ci sono posizioni aperte?  Visti e nuove o modificate regole di immigrazione permettendo, assolutamente sì, soprattutto ora che stiamo aprendo il nuovo locale.  Dove mandare le candidature?  recruitment@piccolocafe.us Grazie Michele per avermi rilasciato questa intervista e in bocca al lupo nella tua avventura Made in USA. 

Dastid Miluka

Dastid Miluka: l’artista che dipinge l’Albania!

Dastid Miluka è un artista albanese, un pittore per l’esattezza. Dastid, nelle sue creazioni, ama giocare con i suoi personaggi attraverso un gioco di luci e ombre che sono rappresentativi della realtà. Una parata di immagini contrastanti, colori sgargianti, luci e movimento esplorano il teatro della vita, che trova l’equilibrio nel riflesso dei sogni e degli spettri di Dastid. Dastid vive a Bruxelles, e su Anita.tv racconta il suo percorso partendo dalle sue origini, per poi parlare del viaggio che lo ha condotto fuori dai confini della sua madre patria. Dastid, raccontaci qualcosa di te. Dunque, sono nato a Tirana nel lontano 15 settembre del 1974.  Che ricordi hai della tua infanzia? Ho avuto una infanzia felice, ne ricordo la pienezza e la ricchezza di quel periodo. Quando parlo di “ricchezza” non mi riferisco alla ricchezza monetaria, poiché in quel periodo tutte le famiglie albanesi erano “uguali”, nel senso della condivisione della ricchezza che “apparteneva” al popolo, o almeno questo auspicava il principio della dittatura comunista, mi riferisco ad un altro genere di ricchezza. Io, fortunatamente, ho avuto la possibilità di vivere e di conoscere almeno tre diverse realtà di Tirana e questo mi ha permesso di venire a contatto con diverse realtà sociali che mi hanno dato, di conseguenza, l’opportunità di accrescere la mia sensibilità verso le tematiche sociali che noi bambini di quel tempo affrontavamo. La mia è stata un’infanzia felice, piena.  In quale periodo hai abbandonato l’Albania, e quali ricordi rimembri? Ho lasciato Tirana dopo gli anni ’90 per poi vivere alcuni anni in Grecia. Successivamente, sono rientrato in Albania e dopo un periodo, abbastanza lungo, nel 2003 ho deciso di trasferirmi a Bruxelles, in Belgio. Il mio percorso di vita non è molto diverso rispetto ai miei connazionali, che come me, si sono imbarcati nell’avventura sognando un destino migliore, fuori dai confini albanesi. È chiaro che lasciare indietro la propria terra, la propria città, i propri cari, è un coltello al cuore, ma tu sai che sei forzato ad andare avanti, a lottare. Un sentimento che difficilmente abbandona il mondo interiore, riaffiora ripresentandosi nella sua asprezza, e come se non bastasse, a quest’ultima si aggiunge l’insicurezza di questa lotta per la sopravvivenza; in un Paese straniero con l’impossibilità di darsi risposte sui mille perché che ridondano la mente. Credo che ogni albanese che ha vissuto e fatto il viaggio può comprendere la dimensione delle mie parole.  È stato un viaggio solitario? No. Mi sono trasferito in blocco con la mia famiglia.  Come hai vissuto i primi anni da immigrante? Non so se esiste qualcuno che può raccontare di aver vissuto i primi anni meravigliosamente! Ovviamente non do per scontato che non ci siano le eccezioni. Tuttavia, i miei primi anni non sono stati facili, anzi. È come nascere di nuovo, ripartire da zero, costruire daccapo. La città, la lingua, la cultura, i modi di dire e di fare del popolo ospitante, la loro storia. Ri-familiarizzare con i nuovi amici e integrarsi sono una serie di processi e impedimenti che bisogna necessariamente attraversare.  Parliamo del mondo del lavoro. Ti sei subito inserito? Inizialmente dovevo imparare la lingua, senza dubbio è il primo ostacolo da superare in una terra straniera. Successivamente ho svolto diversi lavori che non avevano attinenze con il mio mestiere di oggi. Come ho specificato prima, bisogna sempre attraversare un processo prima di mettersi in gioco esponendo le proprie capacità, il proprio talento, oppure, nel mio caso, l’arte. Perché hai scelto Bruxelles? Mio padre già viveva a Bruxelles da diversi anni, quindi ho deciso di fermarmi lì. Quì, ho conosciuto i musei e le possibilità che questa città mi poteva offrire e che senz’altro nell’Albania di quegli anni non avrei potuto trovare. Bruxelles mi ha rapito con il suo surrealismo. È una città che ha una grande tradizione nell’arte, soprattutto nell’arte figurativa. Bruxelles è una città mitteleuropea e questo facilita la possibilità di muoversi su diverse e interessanti piazze europee come ad esempio Parigi, Londra, Amsterdam ecc. Per non parlare che Bruxelles sta conoscendo una rinascita per quanto riguarda le arti figurative e questa fa sì che la città sia attraente sotto molti punti di vista.  Possiamo dire che oggi sei un artista molto apprezzato in Europea. Nel tuo lavoro, qual è il tema che ti sta più a cuore? Sono diversi i temi che la mia sensibilità abbraccia; certamente sono molto colpito dall’umanità, nel senso più stretto delle sfaccettature dalle attitudini alle abitudini degli uomini. Credo che queste tematiche sono la centralità del mio concepire l’arte. Ho un modo del tutto personale nel sfiorare questi temi e che nel tempo ho imparato a definire con più precisione. Per me è molto importante ricercare quei sentimenti già elaborati lungo il processo della creazione, e i rapporti che si stabiliscono attraverso i personaggi oppure le differenti situazioni in cui si trovano. È un lavoro che insegue l’altro, come uno spirale storico. Mi percepisco come un cassiere o un coordinatore della ciclicità che si riferisce ad ognuno inseguendo un filo conduttore. Mi piace lasciarmi andare e selezionare liberamente, e fidarmi del mio istinto originale per poi continuare a sviluppare l’idea fino al suo completamento. La mia è una creazione tempestiva che assume diverse forme. Per me è importante liberarmi nel processo della creazione, per comunicare le mie opere al pubblico.  Quanto c’è dell’Albania nel tuo lavoro? Penso che c’è sempre. Mi considero un artista molto legato alla Patria. Mi sono allontanato dall’Albania in un’età dove il carattere come individuo e artista era ben definito per cui ho conservato tutto dentro di me. Impossibile allontanarmi dalle mie radici, anche non volendo le radici incidono sulla visione di chiunque concepisce arte, in ogni sua forma.  Hai mai pensato di far ritorno in Albania? Senz’altro, non escludo mai l’idea di tornare a vivere nel mio Paese.  Secondo te, quali sono i lati positivi e negativi dell’Albania? C’è molto da discutere su questa domanda ma cercherò di precisare alcuni punti: ciò che trovo di molto positivo in Albania è la natura. Tra i tratti che contraddistinguono l’Albania è la ricchezza naturale che l’intero territorio possiede, a partire dalla flora e alla fauna. Per non parlare poi dei prodotti agricoli. Queste peculiarità possono essere fondamentali per il processo dello sviluppo turistico e per la crescita economica, che ad oggi è il problema principale. Certamente c’è molto da fare in questo luogo traumatizzato dalle scelte politiche, economiche e sociali effettuate nelle ultime due decadi. Voglio valorizzare ciò che in questi ultimi anni è stato fatto e penso che c’è un cammino positivo considerando le soluzioni ai molti problemi che abbiamo ereditato dal passato e queste vanno affrontate e regolate come tutte le altre. È necessario affrettare i tempi per cavalcare l’onda di questo periodo storico che certamente vede i Balcani come un punto chiave nelle politiche internazionali, e in questo l’Albania può rivelarsi il punto strategico.  Come avrai notato c’è un malessere nei giovani che vogliono espatriare che si esprime  soprattutto nei Paesi del Sud Europa. Lo stesso problema è sentito anche in Albania. Come lo interpreti questo desiderio?  È evidente che questo è una tematica molto delicata che ci riguarda tutti a livello europeo. È chiaro che l’interesse di emigrare per studiare o trovare possibilità lavorative migliori è un diritto che dovrebbe appartenere a tutti. Penso, che in Albania, questo tema è molto sentito a causa del caos socio-economico  attraversato in questi ultimi anni che noi continuiamo a chiamare come “una fase di transizione” che sfortunatamente sta andando un po’ per le lunghe. Bisogna distinguere la capacità di movimento che possono avere i giovani europei rispetto ai giovani albanesi che vengono limitati a causa di scelte politiche che ridimensionano il fenomeno permettendo così, ancora oggi, viaggi illegali  causando una piaga molto grande rispetto allo scenario che si potrebbe prospettare se ci fossero politiche economiche d’integrazione con la possibilità di individuare e di reinserire i giovani nel mondo del lavoro con possibilità di crescita. Credo che questa tematica dovrebbe essere la priorità nella politica del governo attuale, e di quelli che verranno.  Credi che l’Albania, ad oggi, risponde ai canoni per entrare nell’Unione Europea? Non mi va di esprimermi in merito, perché non sono un esperto in materia. So che bisogna raggiungere degli obiettivi per poter accedere ed essere alla stessa altezza dei Paesi membri. Tuttavia, credo che l’Albania è in Europa e questo non solo dal punto di vista geografico, penso che il futuro dell’Albania e degli albanesi non può che andare verso l’Europa.  Che rapporti hai con l’Albania, ma soprattutto con gli albanesi di oggi? Il mio legame con l’Albania è spirituale. Lì ho la famiglia, parenti e amici, per i quali cerco di essere sempre presente, quando posso. Cosa ti colpisce ogni volta che torni in Albania? L’energia, la vitalità.  Nel 2016, l’Albania ha perso uno dei suoi più grandi attori. Bujar Lako. Come hai vissuto questa perdita e che legami avevi con lui? È una grandissima perdita per l’arte, per il cinema  albanese. Io appartengo a quella generazione che è cresciuta con i suoi film, che fanno parte, ormai, della memoria di tutti, indelebilmente. La cinematografia albanese ha avuto una grande fortuna nell’aver avuto, e poter ad oggi annoverare, un grande attore come Bujar Lako. Film come “Gjeneral gramafoni”, oppure “Udha e shkronjave” non sarebbero risultati uguali se non ci fosse stata la meravigliosa interpretazione  di questo grande maestro. Credo che Bujar Lako ha lasciato una eredità molto grande all’arte albanese e sono convinto che egli sarà un punto di riferimento per molti in futuro.  Di cosa ti stai occupando ora, stai realizzando una nuova esposizione in Europa? Sono in procinto di lavorare su un nuovo ciclo di opere che porterò in esposizione. Si tratta di un processo che richiede diversi mesi, un suo tempo insomma. Fino ad allora preferisco rimanere in silenzio e non pronunciarmi, almeno fine alla fine di questo nuovo ciclo.