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Lettera a tutte le comunità albanesi in Italia e in Europa

A tutte le comunità della diaspora albanese in Italia, Il recente vertice tra i 27 Stati membri dell’Unione europea e i sei Paesi dei Balcani occidentali extra-europei si è concluso con un nulla di fatto. La Bulgaria non ha ritirato il veto sulla ripresa dei negoziati di adesione con la Macedonia del Nord gettando così una pesante ombra sul percorso dell’Albania, che è legato a quello di Skopje. Per l’ennesima volta, sulla questione, non è stata raggiunta l’unanimità necessaria. L’Europa, insomma, ancora una volta, non ha tenuto nella dovuta considerazione l’Albania e il popolo albanese. Per quanto siamo consapevoli di rappresentare una piccola nazione, sia in termini territoriali che demografici, riteniamo che l’Europa non possa e non debba dimenticarsi di noi: la nostra stessa storia, il modello di convivenza interreligioso che rappresentiamo, gli sforzi enormi di democratizzazione dopo la triste parentesi della dittatura comunista, sono una patrimonio che dovrebbe essere tenuto nella massima considerazione da un’Europa che, proprio oggi, cerca di affermare i suoi valori fondanti rispetto a un vasto mondo che li mette violentemente in discussione. Tuttavia, noi albanesi non possiamo perderci d’animo: non siamo figli illegittimi di questo Continente, semmai, abbiamo fratelli distratti. Noi albanesi, come e più di altri popoli, conosciamo il prezzo che si paga per la libertà e non faremo un passo indietro sulla strada che abbiamo intrapreso con coraggio e determinazione. Da questo punto di vista, trovo rincuoranti e piene di speranza le parole del Presidente Mario Draghi, che, a margine del recente Consiglio Europeo, ha dichiarato con fermezza il suo appoggio alla causa albanese: “noi vogliamo che l’Albania venga presa e vada avanti da sola, cioè senza essere più bloccata dalle differenze, dalle divisioni che ci sono sulla Macedonia del Nord”. Come su altre questioni dirimenti, dobbiamo dunque sperare che l’autorevolezza di Mario Draghi, possa giocare un ruolo decisivo anche su questa questione. Oggi, come cittadini albanesi sparsi in varie comunità in Europa e nel mondo, dobbiamo dunque farci conoscere meglio, spiegare meglio le nostre ragioni, di nuovo e da capo. Dobbiamo rivendicare il nostro pieno diritto a sedere nel Consiglio Europeo. In questa fase storica ognuno di noi può contribuire come singolo e come comunità a fare la differenza ovunque si trovi, in Italia come in ogni altro paese europeo. È mia ferma convinzione che se noi albanesi, intesi come individui e come comunità, non parteciperemo attivamente per sostenere l’adesione dell’Albania all’Europa, faremo l’imperdonabile errore di abbandonare i Balcani al disegno egemonico dell’impero russo e di quello ottomano. Noi albanesi sappiamo bene cosa significherebbe per le nostre vite: lo abbiamo già vissuto per troppo tempo. Non vogliamo riviverlo di nuovo. Rroftë Shqipëria! 

Il filosofo Onfray: “La sinistra è diventata l’alleato più attivo del capitalismo contemporaneo”

Michel Onfray, post-anarchico, anticomunista, antiliberale, anticapitalista, attivo nell’area della sinistra alternativa, è uno dei filosofi europei più discussi. Per alcuni è un sovranista, per altri un libertario puro. Dalle sue posizioni iniziali di netto rifiuto del cristianesimo, rilettura della filosofia in chiave materialista, si è mosso verso l’accettazione di un cristianesimo “culturale”. Ha dedicato riflessioni al tema della sensualità, come preminenza dei sensi. Mentre lo intervistiamo cita Diderot: “davanti a me, c’è un solo senso, il tatto, variamente modificato: si tocca con gli occhi, il naso, la bocca, le orecchie, la pelle. È una variazione sul tema materialista presentato da Democrito”. E contesta duramente la sessualità “virtuale”: “La civiltà verso cui stiamo andando è transumanista. I suoi fautori lavorano sulla denaturazione dei corpi”. Politicamente, forse, rimane un àpota. Ma con idee molto chiare, magari discutibili, ma coerenti, su molti temi che ci toccano da vicino. Da un lato le cosiddette élites, che credono nel rafforzamento delle istituzioni sovranazionali, nell’europeismo, nella “società aperta”. Dall’altro i ‘sovranisti’ che vagheggiano un senso forte dell’identità. Alle ali estreme degli schieramenti da una parte c’è chi vuole distruggere i monumenti. E, dall’altra chi crede che il Covid sia espressione del complotto pluto giudaico massonico. Che ne pensa?Bella sintesi dei nostri tempi. Con una precisazione: il “wokismo” è ciò che resta del marxismo dopo la sua esperienza sovietica, sessantottina e mitterrandista. È una sinistra presa in prestito dai campus americani. Pensa che la sinistra si stia occupando più di “suscettibilità” che di questioni sostanziali, dunque?La sinistra ha cessato di essere sociale per diventare “la società”. Si preoccupa meno dei poveri, dei piccoli, dei miserabili nel senso di Hugo, e si concentra sulle minoranze, che impongono la loro legge alla maggioranza, questa è la definizione stessa di dittatura. È sicuro?In passato Hugo protestò contro il sistema che costringeva i poveri, come Fantine, a vendere i propri capelli e i denti per le parrucche e le dentiere ai ricchi. Oggi, alcuni che si dicono di sinistra, giustificano che Fantine possa affittare il suo utero per i figli che i ricchi comprano da loro. La mia sinistra è agli antipodi rispetto all’ideologia di questi nuovi mercanti di schiavi. Allora cosa dovrebbe significare essere davvero di sinistra oggi?Essere dalla parte di Fantine! La sinistra sociale che, negli anni ’90, ha eletto un popolo sostitutivo per sostituire quello che ho definito come il “popolo della vecchia scuola”, con neofemministe, LGBTQ+, arabo-musulmani, immigrati, giovani, ambientalisti settari, è la strada migliore del capitalismo planetario. A favore di lotte di nicchia presentate come civilizzazione: il riscaldamento globale antropogenico, la possibilità di cambiare sesso dalle elementari, la religione migratoria. In questo periodo, possiamo sfruttare i più deboli, i più modesti, i più diseredati, i “miserabili” di Victor Hugo. L’albero della società nasconde la foresta della questione sociale. La sinistra dovrebbe riguadagnare i suoi fondamenti antiliberali perché è diventata l’alleato più attivo del capitalismo contemporaneo, il suo utile idiota. E a proposito di donne. la madre del Manifesto di Ventotene, Ursula Hirschmann, sosteneva che l’unificazione politica può essere una tappa esemplare per le donne. Chi è, secondo lei, la prossima Angela Merkel?Non ci vedo nulla in Angela Merkel che sia veramente femminile o che faccia onore alla causa delle donne. Per rispondere alla sua domanda: la prossima Angela Merkel si chiama Olaf Scholz, d’altronde con lo slogan femminista e demagogico “Er kann Kanzlerin” ha vinto la campagna elettorale in Germania. Oggi, secondo alcuni intellettuali, viviamo nell’epoca del tecno-populismo. Finita la politica, insomma, restano i tecnici (in Italia abbiamo Draghi, in Francia Macron) ma sottratti alla dialettica democratica. Cosa ne pensa?Viviamo sotto un regime di neo-totalitarismo maastrichtiano, e ho raccontato tutto questo in “Teoria della dittatura”, da una lettura dei testi politici di Orwell. L’ideologia maastrichtiana è quella del sansimonismo che vuole escludere i popoli, quello che io chiamo populicidio, riattivando un concetto di Gracchus Babeuf, in nome di un governo di tecnici decretato come governo degli unici competenti. Questa ideologia maastrichtiana chiama populista qualsiasi resistenza che ci ricordi la democrazia. Ha un pool di intellettuali – in Francia Bernard-Henri Lévy, Jacques Attali, Alain Minc e altri -, che lavorano per lei. Ideologia Maastrichtiana, dice. Parliamo di Europa. Sappiamo che è un concetto instabile. L’Europa è attraversata da almeno tre filoni culturali, spesso in conflitto o difficilmente declinabili in una sintesi comune: quello latino, quello germanico e quello slavo. Cosa pensa a riguardo?L’unità di questa Europa si deve al collante giudaico-cristiano. La Francia, l’Italia, la Spagna cattolica, i paesi del nord protestanti, la Russia e altri paesi dell’Europa centrale ortodossi hanno hanno questo in comune. Ma il progetto europeo è vario e multiplo: Napoleone e Hitler volevano l’Europa. L’estrema destra, quella vera, voleva un’Europa cristiana antibolscevica. La Cia vuole la stessa Europa dei maastrichtiani, di destra e di sinistra, che attualmente sono al potere, Macron compreso. Lei ha dichiarato “Eric Zemmour è un intellettuale in politica. Quando vuoi essere Presidente della Repubblica, non hai più gli stessi doveri di quando sei un intellettuale dietro un microfono”. Come lo giudica?Zemmour riattiva la mitologia platonica del filosofo re, e io non credo a questa favola. Tutti coloro che sono stati intellettuali in politica o hanno avuto successo è perché hanno abbandonato l’intellettuale che era in loro, o hanno fallito perché hanno abbandonato il politico. Marco Aurelio era un grande filosofo, ma l’imperatore che era in lui non era molto Marco-Aureliano. Lenin era un re filosofo che si trovò presto a suo agio nel mantello del re, dimenticando il filosofo. L’etica della convinzione è dalla parte del filosofo, l’etica della responsabilità dalla parte del principe. Eric Zemmour che è un intellettuale in politica diventa sempre meno intellettuale e sempre più politico. Questo può essere il prezzo da pagare per esistere politicamente, ma, sicuramente, è il prezzo da pagare per smettere di essere un intellettuale. È nozione comune che lei si definisca “ateo cristiano”. Che vuol dire?Sono un ateo, chiaramente. E non soffro di pignolerie concettuali, vale a dire che per me Dio non esiste e le religioni sono finzioni, ma vivo in una civiltà di stampo giudaico-cristiano. Tuttavia, non pretendo di dire che sono sfuggito a questa “formattazione”. Se non altro perché la mia etica, la mia morale, i miei valori provengono dal mondo greco-romano, assorbito dal mondo giudaico-cristiano. E che anche la mia emancipazione da questa civiltà è il prodotto stesso della de-composizione di questa forma di vita.

Kaja Kallas, Primo Ministro dell’Estonia, ha bruciato tutte le tappe divenendo una delle figure chiave della politica nell’Est Europa

Ultimamente si è parlato dell’est solo a proposito dei paesi dell’area Visegrád. Di quanto le loro politiche in tema di questione femminile e di migranti siano lontane dalle linee guida dell’Unione Europea. Ma l’Est Europa ci rivela anche delle sorprese, proprio in quell’area, i paesi Baltici, dove i dissidi territoriali, linguistici e politici, non sono mai mancati né possono ritenersi risolti. L’Estonia è un ex Paese dell’area Urss che oggi conosce una fase di potente emancipazione impersonata dalla figura di Kaja Kallas. Filo atlantista ed europeista convinta, la Kallas ha le idee chiare in termini di politica interna ed estera. Se dovessi votare per la donna dell’anno, ora che Angela Merkel si gode un meritato riposo, voterei sicuramente per Kaja Kallas. Leader del partito riformatore estone dal 2018, è stata eletta primo ministro a Tallinn a gennaio 2021. Il suo mandato è iniziato non senza difficoltà: oltre ai problemi derivanti dalla gestione della pandemia, la neo Premier ha dovuto dimostrare le sue capacità in termini di strategia politica, opponendosi alle pressioni di Mosca. Le mire espansionistiche della Russia sull’Estonia (indipendente dall’Urss dal 1991), per farla rimanere in posizione ancillare rispetto ai suoi interessi geopolitici, si sono fatte in questi mesi sempre più pressanti, complice anche la crisi dei migranti innescata da Lukashenko al confine con la Polonia. Ma anche su questo fronte la Premier estone sembra non scomporsi: attacca duramente la “matrigna” Russia rispetto alle sue mire in Ucraina, rivolgendosi a Putin con una fermezza di cui sembrano piuttosto difettare molti paesi del continente europeo. OPINIONI / L’Europa è in guerra (di A. Likmeta) Ma chi è davvero questa donna, ostile al Cremlino e decisa a raccontarci una nuova storia dell’Estonia e quindi dell’Europa? La Kallas è una figlia d’arte, se così si può dire. Suo padre, Siim Kallas, è stato membro del Consiglio Supremo dell’Urss, Direttore della Banca Centrale della Nuova Repubblica Indipendente Estone. È stato Ministro degli Esteri e Premier dal 2002 al 2003. Infine è approdato a Bruxelles, dove è stato Commissario Ue e Vicepresidente della Commissione Europea. La Kallas è inoltre nipote di Eduar Alver, fondatore della Repubblica nel 1918, mentre sua madre fu una delle tante deportate nei gulag siberiani, quando lei aveva appena 6 mesi. Una storia incredibile, e fortemente simbolica: la storia personale di Kaja Kallas incarna la storia nazionale di un paese dell’Est che fa di tutto per emanciparsi dall’influenza russa, cercando – e trovando – i suoi modelli di riferimento a Ovest. Così, per genealogia, carattere e intenzioni, la Kallas rappresenta la figura chiave per il contrasto alle mire espansionistiche di Putin in Europa. Non a caso, è stata proprio lei a posizionarsi con tanta decisione contro il North Stream, il gasdotto pensato per connettere la Russia alla Germania. La Kallas, che ha lo sguardo rivolto a Washington in funzione atlantista, ha da subito stigmatizzato il progetto coma la riedizione in chiave energetica del patto di Molotov-Von Ribbentrop. Un patto dove però l’Europa potrebbe, proprio per sudditanza energetica, dover derogare ai propri principi fondanti in cambio di forniture. Chiusi i rubinetti, insomma, una riedizione post-moderna del “generale inverno” potrebbe congelare i principi etici fondanti dell’Europa aprendo la strada al nuovo autoritarismo che avanza da Est. In definitiva, il Primo Ministro Estone, rappresenta allo stato attuale un piccolo ma indispensabile baluardo europeo contro l’involuzione politica del continente. Ella, forse unica fra tutti i leader europei, non si è mai lasciata intimidire. Forse perché la sua storia personale le ha insegnato a distinguere uno stratega, come, nel male, fu certamente Stalin, da un buon tattico, quale è sicuramente Putin. In altre parole, sa che un militare, finita la battaglia, è solo un uomo che cammina verso la fine dell’orizzonte degli eventi, accompagnato dal suo cappello.

La rabbia e l’umiliazione. La Pornografia Non Consensuale è la nuova piaga sociale

Rabbia, silenzio, e umiliazione. Oggi è la giornata per l’eliminazione della violenza contro le donne, e proprio oggi è opportuno parlare di una forma di violenza in aumento costante, dai numeri allarmanti. Una forma di violenza che è difficile combattere, è difficile accertare nella sua presenza concreta, ma di certo è sempre più diffusa. Sto parlando della Pornografia Non Consensuale (in inglese NCP, non consensual pornography), vale a dire la diffusione di foto e filmati a carattere pornografico senza che il soggetto abbia dato l’assenso. La conosciamo come “revenge porn”, la classica situazione in cui il fidanzato o il marito, abbandonato, mette online foto o filmati della propria ex. Molto spesso i filmati sono corredati da nome, cognome, profilo social della vittima. E le conseguenze sono devastanti: Secondo una ricerca Eurispes (2019) le vittime di “Revenge Porn” sono nel 90 per cento dei casi donne, con ricadute durissime sulla vita personale. Il 50 per cento delle vittime pensa al suicidio. Anche le conseguenze professionali sono pesantissime: oltre il 70 per cento dei candidati ad un posto di lavoro viene escluso a causa della web reputation. Secondo una ricerca del 2020 del servizio analisi della Polizia Postale In Italia il fenomeno è in aumento e sta raggiungendo picchi preoccupanti, con due episodi di revenge porn segnalati al giorno, e un migliaio di indagini in corso a fine 2020. L’associazione “Permesso negato”, che si occupa del problema, in una ricerca di questi giorni ha evidenziato che negli ultimi 12 mesi i gruppi Telegram dedicati allo scambio di questo tipo di materiale sono passati da 89 a 190. Raddoppiati. Si tratta di una vendetta simbolica – ma dalle tragiche ricadute pratiche- dell’uomo, del maschio, nei confronti della donna. Una versione moderna, hi tech (ma sappiamo che non c’è fenomeno contemporaneo che non abbia una sua chiave mitologica vera, forte e viva) del mito di Apollo che sputa sulle labbra a Cassandra, condannandola a non essere mai più ascoltata. Una forma di carachter assassination non meno reale di quella che a volte, purtroppo, avviene nei fatti. E non sono solo le donne a dover portare il peso dell’aspetto selvaggio, violento, del mondo digitale, che si rivela come una specie di nuova giungla pronta ad inghiottire i più deboli. Il revenge porn è solo una delle facce della pornografia non consensuale. Le altre sono, ad esempio, la “sextortion”, ovvero il minacciare di rendere pubblici i filmati e i video a meno che la vittima – donna, uomo, ma in particolare minore- non paghi un corrispettivo. Di questi giorni la notizia dell’arresto di un uomo a Scafati che individuava vittime -spesso minori disabili- si procurava con l’inganno foto intime e tentava di ricattarli. In altri casi la diffusione di materiale pornografico non consensuale avviene a semplice, ma non meno odioso, scopo di bullismo cibernetico. Il lato cyber-rape della nostra cultura esiste, insomma. Non se ne parla abbastanza, e non si fa abbastanza per contrastarlo. Anche se, di recente, il Garante della Privacy ha deciso di abbassare la soglia per possibili denunce anche ai maggiori di 14 anni, e ha costruito un protocollo di intesa con Facebook, Instagram, Whatsapp perché i video vengano fermati anche prima della loro diffusione online. Esistono anche realtà come ealixir.com, azienda specializzata in reputazione digitale, che consente, a chi ne faccia richiesta, di cancellare gratuitamente foto e video compromettenti. Sono iniziative necessarie e meritorie, ma non risolutive. Perché l’idea stessa di screditare o meglio “sputtanare” una vittima più debole usando il ricatto sessuale rappresenta non solo la faccia oscura di un’epoca, ma anche il lato oscuro di un’identità maschile sempre più incerta, oltre che un meccanismo antropologico – quello del debole che paga per il forte- ancora troppo consolidato in una società a cui piace definirsi progressista, ma che, evidentemente, non ha ancora scardinato meccaniche di dominazione tribali. Ancora siamo all’uomo che zittisce la donna. Nell’epoca in cui, con la morte di Dio, gli uomini sono diventati dei “gli uni per gli altri”, ciascuno può arrogarsi il diritto di sentirsi come il dio Apollo che zittisce la vittima umana. Lasciandola, come capro espiatorio, in balia del silenzio e della riprovazione generale. Rabbia dunque, silenzio e umiliazione.

L’Europa è in guerra

C’è una guerra in Europa. Una guerra nella quale a morire sono solo i migranti, scappati dalla parte sbagliata della storia e ammassati in migliaia al confine tra la Polonia e la Bielorussia. Stanotte è morto un bambino di un anno, assiderato nei boschi polacchi, mentre i suoi genitori erano feriti. Ora sentiremo le dichiarazioni commosse di tutti i capi di stato europei, esattamente come accadde con Aylan, il bambino morto sulle coste turche nel 2015. Una storia che si ripete e che affonda le sue radici nella perenne, sempre rinnovata guerra fredda tra USA e Mosca. Una storia antica, quasi un archetipo che torna allo scoperto ogni volta che le contingenze politiche e geopolitiche ne fanno affiorare la struttura. Come l’Ucraina, anche la Bielorussia è un paese cuscinetto della Russia, parte integrante prima dell’URSS e ancor prima dell’impero zarista. La storia si ripropone nell’estate 2020, quando in Bielorussia viene eletto Lukashenko, nonostante le fondate accuse di brogli elettorali. Da quel momento, i movimenti di liberazione bielorussa, come accadde in Ucraina e in Georgia, furono stroncati dalla Russia che ad oggi continua a elargire fondi e aiuti mantenendo vivo il governo Lukashenko, e mantenendo la Bielorussia all’interno della sua area di influenza. Mosca è riuscita dunque a creare uno stato cuscinetto che le è indispensabile non solo a fini difensivi, ma anche per mettere in atto la sua tattica di destabilizzazione in Europa. A questo fine, con l’aiuto della Turchia, la Russia ha favorito e permesso il trasporto di migliaia di migranti fino al confine con la Polonia. La morale di questa triste storia è che la lotta fra i due imperi, quello Russo e quello Americano, trova infine un punto strategico comune: indebolire l’Europa per avere campo libero negli scenari mediorientali. I governi destrorsi che tanto stanno destabilizzando l’Europa a Est, sono funzionali alla politica estera degli Stati Uniti, che cerca di sovrastare l’espansione russa verso quest’area avendo tutto l’interesse a contrapporre i nazionalismi esacerbati del Gruppo di Visegrad all’aggressività politico economica russa. In breve, mentre Mosca cerca di operare una politica di penetrazione in Europa, gli USA tentano di limitarne le manovre e di farla arretrare a Est. Come sempre, la partita si gioca naturalmente sulla pelle degli ultimi. Di questi paria della terra che si trovano schiacciati fra due fuochi, come scudi umani di cui in realtà a nessuno importa. In termini tattici l’Europa ha l’opportunità di gestire questa situazione utilizzando i Balcani Occidentali, ad esempio l’Albania che può diventare la chiave di volta n quest’area a tutti gli effetti europea, in grado di garantire un tempo sufficiente a distendere i rapporti e temporeggiare sulle scelte da intraprendere nelle prossime settimane e mesi. E poi è ora che l’Europa -tanto attiva a parole ma che non si è dotata di una politica comune sulla questione migrazioni- si dia da fare su un problema tragico e urgente. Fino ad ora l’Europa ha mostrato poca sostanza proprio sul terreno che dovrebbe appartenerle: quello dell’accoglienza, dei diritti, dell’attenzione agli ultimi. Nella grande, e spietata, partita geopolitica l’Unione Europea, fa la parte dell’inetto sveviano o musiliano, se non quella dell’assente beckettiano. Assistiamo dunque a una guerra di posizione e logoramento, che prende forma giorno dopo giorno, favorita dall’incapacità dell’Europa di contrapporre una politica estera comune e sostanziata da mezzi effettivi e deterrenti tali da scoraggiarne il perseguimento. Fa bene, il presidente del Parlamento europeo, David Sassoli a commentare su Twitter: «Lo sfruttamento dei migranti e dei richiedenti asilo deve cessare, la disumanità deve cessare». È un appello e una presa in carico di responsabilità. Ed è ora che alle parole seguano i fatti.

Governare l’odio

Come ebrea post-moderna non posso che appoggiarmi a due pilastri sicuri: la Torah e Freud. Qualche giorno fa, in un’occasione di campagna elettorale, mi era stato chiesto di parlare dell’odio. Avrei voluto declinare l’invito, che pure mi onorava, e dirmi impreparata sulla materia. Invece, per quanto mi sentissi piuttosto lontana da un certa dilagante suscettibilità per la quale il valore umano sarebbe sempre commisurato ai torti che abbiamo, o che crediamo di avere subito, ho dovuto confessare a me stessa di essere piuttosto versata nella materia.  Intanto perché, in quanto ebrea, appartengo al popolo sicuramente più odiato della storia, dai tempi dei faraoni fino a quelli dell’imbianchino viennese e oltre. E poi perché, come immigrata albanese a Cepagatti, provincia di Pescara, posso raccontare tutta una serie di aneddoti dei quali oggi sorrido ma sui cui ricordo di aver versato più di qualche lacrimuccia da bambina. Ma, dunque, che cos’è l’odio? Soprattutto, quand’è che cominciamo a odiare? Ora, se fra i lettori ci fossero anime candide che ritengono l’odio un sentimento tardivo, una indispettita reazione alla mancanza d’amore o di cura che ci affligge solo dopo aver subito un torto, ebbene, io credo che si sbaglino. L’odio nasce un po’ prima di scoprire che Babbo Natale non esiste. Come ebrea post-moderna, diciamo così, non posso che appoggiarmi a due pilastri sicuri: la Torah e Freud.  Per Freud l’odio ha a che fare con la scoperta stessa dell’oggetto, con la prima grande ferita narcisistica costituita dalla scoperta che non è tutto Io, ma che c’è qualcosa là fuori: il mondo, insomma, quel complesso intreccio di stimoli e frustrazioni che il bambino comincia a scoprire sin da subito. L’odio sarebbe quindi secondo Freud il modo stesso della nostra prima capacità di conoscere, di fare esperienza. Del resto, se ripesco fra i ricordi sempre più sbiaditi del mio passato di studentessa di filosofia, trovo che nella relazione fichtiana fra Io e Non-Io entra sempre in gioco quello che il filosofo tedesco chiama Anstoss: un’irritazione, uno stimolo urticante che dà il via. Il calcio di inizio, insomma, visto che Anstoss vuole dire anche questo. Certo, che il mondo, in principio, si conosca nell’odio, non è una prospettiva rassicurante. Perché se così è, l’odio ci appare allora come un sentimento primigenio, connaturato all’uomo. Semplicemente inestirpabile. La questione dunque è come possiamo farci i conti, come possiamo conviverci. Soprattutto, come questa prima modalità del conoscere e del rapportarsi al mondo possa di volta in volta essere disciolta in altro, neutralizzata, per così dire. E qui mi torna in mente la storia di Miriam e Aron, che sparlavano di Mosè, che aveva sposato Sefora, una donna madianita. E a Miriam e Aron, Sefora non piaceva. Non per qualcosa che dipendesse da lei, per una sua colpa, ma proprio in quanto donna madianita. Senza girarci intorno, insomma, secondo loro Mosè non avrebbe dovuto sposare una donna di colore. Ora, la cosa interessante, è che per questa professione di odio, proprio Miriam, colei cioè a cui secondo la Torah si deve la salvezza matrilineare del popolo di Israele, viene punita dal Signore: si ammala di lebbra e viene “esiliata” dall’accampamento. Mosè allora intercede per lei, chiede al Signore che la guarisca. Mosè insomma non ricambia Miriam con la stessa moneta. Così Miriam dopo sette giorni guarisce dalla lebbra dell’odio e viene riammessa nell’accampamento. La morale della storia è sin troppo semplice, ma è bene esplicitarla: l’odio fa peggio a chi lo prova che al soggetto contro cui si scaglia. Ed è, per giunta, una malattia contagiosa. Così infatti l’odio fa male al Faraone, a cui ha indurito il cuore. E l’odio professato dal Faraone fa male agli stessi Egiziani, molti dei quali ne sono stati infettati. Tanto che al Deuteronomio tocca ricordare che l’odio va maneggiato con cura e dispensato il meno possibile: “Non odiare l’egiziano perché foste stranieri nella sua terra”. E tocca invece all’Esodo stabilire di chi sia la responsabilità della persecuzione, senza che agli Ebrei possa venire in mente di fare di ogni erba un fascio: “Allora sorse un nuovo Re, che non aveva conosciuto Giuseppe”. Sembra un dettaglio da niente, ma non lo è: il nuovo Re non aveva conosciuto Giuseppe. Suona quasi come una circostanza attenuante. E qui la morale si fa più fine, più densa di implicazioni che interrogano la coscienza. L’odio fa male a chi lo prova ancor più che a chi ne è bersaglio, dicevo. Ma la nostra difesa dall’odio consiste allora, ogni volta, nel mostrare un accesso alla conoscenza dell’Altro che passi per una via diversa dall’irritazione causata dalla primigenia ferita narcisistica insita nel conoscere stesso. Nel presentare, con pazienza e ogni volta, Giuseppe al nuovo Re. Ogni volta, con pazienza, presentarsi da capo. Così, insomma, mi chiamo Anita Likmeta. Sono una cittadina italiana, nata in Albania. Ho imparato, con fatica, una lingua, la vostra, che adesso è diventata  la mia. Quanto ho ricevuto, oggi, sono qui a restituire.

L’Albania che verrà

L’augurio è che chi si troverà a guidare il paese dopo le elezioni abbia la forza di guardare un passo più in là dell’urgenza del momento. A pochi giorni dalle elezioni in Albania, voglio tornare sulle questioni balcaniche, perché ancora una volta mi pare quello lo scacchiere geopolitico sul quale l’Europa potrà giocare una partita decisiva. Dipenderà infatti dalla capacità di inclusione dell’Europa rispetto a quest’area, europea a tutti gli effetti, il futuro stesso dell’Unione e la sua capacità di fungere da hub fra oriente e occidente, e fra nord e sud del mondo. Intanto, colpisce la vittoria alle elezioni in Kosovo di Vjosa Osmani, che succede Hashim Thaçi, dimessosi dopo le accuse del Tribunale dell’Aia per crimini di guerra e crimini contro l’umanità, perché per la seconda volta, dopo Antifefe Jahjaga, in quest’area balcanica, considerata da sempre paese satellite dell’Albania, a vincere è una donna. Un esito dal forte valore simbolico: da una parte il riscatto rispetto a quel terribile e ancora troppo recente passato di stupri etnici che ha devastato la vita di migliaia di donne kosovare, dall’altra il riconoscimento che sono proprio le donne (e i giovani) la risorsa più importante per il futuro del paese. Questo chiaro segno di svolta non potrà non pesare, in qualche modo, anche sull’agenda del governo che uscirà dalle urne albanesi la prossima settimana. Perché continuo a pensare a quella storia che racconta Ismail Kadaré, della cittadina assediata dall’esercito turco, che resiste grazie a un crudele espediente: un cavallo lasciato senz’acqua per lunghi giorni e infine liberato svela ai cittadini una fonte nascosta d’acqua che consentirà loro di sopravvivere. Se penso a questa storia come a una metafora della condizione albanese, vedo i quarant’anni di regime hoxhaista come il giogo che ha reso il popolo albanese assetato quanto il cavallo di Kadaré: dopo lunghi anni di transizione si tratta dunque, ancora adesso, di scovare le fonti d’acqua nascoste nel paese. Con un’età media minore di cinque anni rispetto alla media europea, l’Albania che uscirà dalle urne fra due settimane dovrà fare i conti col fatto che sono proprio i giovani e le donne questa risorsa nascosta da cui potrà scaturire lo sviluppo economico dei prossimi anni: riconoscere la loro centralità, da molti punti di vista, significa peraltro riconoscere la necessità di quel cambio di paradigma, nell’esercizio dei poteri, che coincide esattamente con le priorità poste dell’EU per portare a termine l’acquis. Il governo che uscirà dalle urne ha, di fatto, questo obiettivo a portata di mano, ma potrà raggiungerlo soltanto se saprà dimostrare, sin da subito, di essersi sbarazzato degli ultimi cascami di quella sfiducia verso le libertà, eredità di ogni regime, che altro non è se non una residua sfiducia nel popolo e quindi nel paese stesso. Questa volta, dunque, la sfida fra Rama e Basha è davvero decisiva non solo perché avviene a ridosso di una elezione storica come quella in Kosovo, ma soprattutto perché, chi vincerà, dovrà rispondere a una precisa chiamata di portata epocale. Se infatti la pandemia rappresenta in qualche modo l’anno zero di una nuova èra, a chi si aggiudicherà il governo del Paese spetterà l’opportunità di scegliere da che parte della storia si debba guardare. Restando ancora nell’ambito descritto dalla metafora di Kadaré, il reperimento delle nuove risorse avverrà tanto prima quanto più il paese sarà lasciato libero di esprimere le sue potenzialità, proprio a partire dai giovani, che sono la fascia di popolazione più pronta e attrezzata culturalmente per cogliere le occasioni che si presenteranno nella spinta reattiva post-pandemica. Che questa sia la fonte nascosta del paese infatti non è una petizione di principio o un semplice esercizio di wishful thinking, ma una realtà suffragata da dati eloquenti legati al fenomeno migratorio: in Italia la comunità albanese è la terza per numero, dopo quella rumena e quella marocchina, ma la prima per numero di iscrizioni all’università. Di più: guardando i grafici risulta che oltre il 48% degli iscritti è donna. Secondo il rapporto del 2018 sull’integrazione dei migranti del governo italiano, infine, leggiamo che le donne albanesi nelle università italiane hanno conseguito, rispetto agli altri iscritti non italiani, i migliori risultati. Se dunque vogliamo trovare una morale alla storia di Kadaré, da questi dati risulta chiaro chi abbia più sete di conoscenza, di sviluppo e innovazione, e chi rappresenti quindi l’asset più importante su cui fondare la nuova Albania dell’era post-pandemica alle porte. A partire da questo, per esempio, si potrebbe cominciare col rafforzare i corridoi inter-universitari Albania-Italia già in essere, e far nascere dei veri e propri gemellaggi con le università italiane su settori strategici della ricerca e dell’innovazione: è senz’altro interesse dell’Italia velocizzare il processo di adesione dell’Albania all’Europa, ma lo sarà ancora di più se all’Italia verranno offerte occasioni di investire risorse in un paese che, anche solo per la sua collocazione geografica, è destinato ad avere un ruolo chiave sul fronte geopolitico dei prossimi anni.  Il compito che sta davanti al governo che uscirà dalle urne è, in definitiva, quello di ribaltare la prospettiva da cui si è guardato all’Europa, nel momento stesso in cui si faranno passi decisivi verso l’acquis: l’Albania non potrà più limitarsi ad essere destinataria di progetti che la coinvolgono passivamente o di aiuti umanitari volti a stabilizzarne il fronte interno nell’ottica della pax balcanica. I giovani e le donne dovranno essere messi in condizione di presentarsi come soggetti attivi che possano entrare davvero in relazione con l’Europa espansiva del recovery fund. Perché quella che viene sarà un’Europa che avrà tutto l’interesse a rafforzare i propri confini verso Oriente. Dopo la Brexit, del resto, per non cadere nell’ininfluenza geopolitica, un’Unione Europea amputata non avrà altra scelta se non quella di rafforzare la sua presenza continentale: il tempo e l’occasione sono dunque arrivati. L’augurio è che chi si troverà a guidare il paese dopo le elezioni abbia la forza di guardare un passo più in là dell’urgenza del momento, perché il futuro si costruisce già da ieri.

Elezioni in Albania, cosa ci possono insegnare le giovani democrazie

Manca meno di un mese alle elezioni in Albania, e, come ogni volta, noi expat cerchiamo di informarci, di comprendere le ragioni delle parti in lotta. Lo facciamo sapendo che il nostro sguardo ha, allo stesso tempo, il pregio e il difetto della distanza. Facendo un passo di lato, dall’altro lato dell’Adriatico nel mio caso, le cose si vedono nella loro oggettiva interezza, ma di certo si perdono dettagli fondamentali e passaggi essenziali. Torna in mente la celebre frase di Heisemberg, secondo la quale quando diciamo che “se conosciamo in modo preciso il presente, possiamo prevedere il futuro”, non è falsa la conclusione, bensì la premessa. Perché, dice Heisemberg, “in linea di principio noi non possiamo conoscere il presente in tutti i suoi dettagli”. Ci mancano dunque i dettagli, le sfumature, ma intanto, quando pensiamo alla bandiera dell’Albania, vediamo l’aquila a due teste, che per noi simboleggia un doppio sguardo: da una parte il passato, dall’altro il futuro. Ma più ancora, proprio in questo simbolo crediamo si possa ritrovare il coraggio di una identità multiforme: tra Occidente e Oriente sorge la forza di questa giovane nazione.  La sfida delle elezioni, certo, è di quelle già viste, ma questo non significa che sia meno interessante o che l’esito sia scontato. Come nell’ultima tornata del 2017, Lulzim Basha del Partito Democratico sfiderà Edi Rama, attuale Premier in carica del partito socialista. Da una parte abbiamo dunque Rama, il grande comunicatore, l’uomo che si espone in primo piano, che conosce perfettamente gli strumenti del consenso e i colpi di teatro (la battuta è implicita ma voluta, anche se forse comprensibile soltanto ai lettori albanesi). In Italia hanno tutti apprezzato moltissimo il fatto che sia volato in piena pandemia a portare la solidarietà del popolo albanese: una mossa saggia e strategica, eseguita con tempismo perfetto. Ma per gli albanesi Rama è soprattutto l’uomo della ricostruzione post terremoto: quello che ha bussato alle porte dell’Europa e ha saputo farsi aprire. Dall’altra abbiamo Basha, l’uomo cresciuto nelle istituzioni nazionali ed internazionali, un carattere assai più schivo, quasi reticente. A suo agio più negli uffici del Palazzo che non in mezzo alla gente, Basha sconta forse questa percepita distanza dall’uomo della strada. E tuttavia ha l’aria di chi si mette lì, studia e trova una soluzione: è a lui che dobbiamo la libera circolazione degli albanesi in area Schengen. Sullo sfondo della contesa, resta però per noi expat soprattutto l’Albania, il Paese che vorremmo ritrovare comunque vadano le elezioni. Una terra in cui abbiamo sofferto le atrocità della guerra civile, da cui siamo dovuti fuggire con niente in mano e il cuore pieno di dolore, una terra della quale, di anno in anno, guardiamo con orgoglio e timore il riscatto. Timore perché, sia chiaro, l’Albania è una democrazia ancora giovane, in cui i conti col passato sono stati fatti forse troppo in fretta e in cui certi fantasmi si aggirano ancora indisturbati.  Orgoglio perché, se la terra delle aquile qualche volo importante ha imparato a farlo, allora è proprio nello specchio di questa democrazia giovane, con un futuro di sviluppo ancora tutto da costruire, che i Paesi europei possono trovare ispirazione per rimettere in campo il primato di una politica che sappia fare la differenza. Gli asset economico strategici del Paese offrono possibilità importanti di crescita, in qualche caso persino oltre le aspettative. Se era già chiaro agli investitori internazionali, negli anni appena passati, che il turismo poteva rappresentare opportunità importanti, lo sarà a maggior ragione adesso che l’Europa si appresta, pur con tanta fatica, a lasciarsi alle spalle la crisi pandemica. Insieme a questo, chi si troverà al comando della nazione dovrà però comprendere a fondo che il turismo sostenibile, quello che porta vera ricchezza, è sempre più legato a un’offerta esperienziale più che al puro e semplice consumo di un luogo. In altri termini, in futuro non basteranno le sdraio sul litorale, per quanto meravigliose siano le coste albanesi. Si dovrà invece preservare e rendere oggetto di narrazione il “genius loci”, lo spirito del luogo. L’Albania dovrà insomma ritrovare l’orgoglio della propria multiforme cultura, intendendo questo termine nel senso più ampio possibile: dalla valorizzazione della tradizione agroalimentare alla ricerca di quella straordinaria complessità di ramificazioni che legano il popolo albanese al resto d’Europa. Proprio nell’ottica della tanto agognata adesione all’Unione europea, l’Albania ha l’opportunità, ora più che mai, di lavorare su quei “notevoli sforzi necessari” atti a migliorare le condizioni indicate dall’UE per l’acquis: dall’ambiente ai controlli finanziari, dalla giustizia alla sicurezza nel rispetto delle libertà civili, dai media ai diritti fondamentali. Allo stesso modo, gli investimenti nell’industria manifatturiera, in un’ottica di ripresa dei consumi su scala globale, potranno stimolare ancora la classica economia di delocalizzazione favorita dal costo del lavoro. Ma se questo è ciò che è lecito aspettarsi, resta ancora una miniera di opportunità da sondare, che, a mio modesto avviso, rimane l’asset strategico più importante da cui trarre un impulso che potrebbe rivelarsi davvero decisivo nei prossimi anni. Ed è appunto qui che la mia storia personale mi fornisce elementi per elaborare la visione che ho dell’Albania del futuro, per come vorrei che fosse. Perché sono, di fatto, figlia ed erede di due diaspore, sia come ebrea che come albanese. E se c’è qualcosa che deve insegnare a un popolo l’aver vissuto l’esperienza tragica della diaspora è che, alla fine, da un elemento di debolezza iniziale, si può ricavare una chiave di accesso privilegiato al mondo globalizzato. Mi riferisco alla ricchezza più grande di cui può godere un individuo e, per estensione, il popolo a cui appartiene: il capitale delle relazioni umane. Proprio quest’anno, che cade il trentennale di quel grande esodo che spinse il popolo albanese a scappare dalla propria terra, conviene a chi si contende il governo della nazione tenere a mente un semplice dato: sono circa 2 milioni gli albanesi che vivono oggi fuori dai confini del Paese, principalmente in Italia, Germania, Austria, Grecia, Inghilterra, Francia e Usa.  Tutti con una storia dolorosa alle spalle, la gran parte di loro (di noi) si è rimboccata le maniche e si è data da fare. Dove vivo io, in Italia, gli albanesi hanno aperto aziende edili, lavorato con maestria e coscienza, hanno mandato i figli a scuola, li hanno fatti laureare. Ermal Meta ha conquistato Sanremo, io ho aperto qualche start up di successo, Klaudio Ndoja gioca nella nazionale di basket. Potrei andare avanti per ore con esempi su esempi, ma quello che conta davvero è che ciascuno di noi expat rappresenta un piccolo patrimonio di relazioni internazionali su cui l’Albania dovrebbe poter contare. Certo, si parla sempre a titolo personale, ma in questo caso voglio arrogarmi il diritto a farlo in nome di tanti expat che immagino possano pensarla come me: siamo a disposizione, vogliamo dare una mano. Non tanto perché riteniamo di dover restituire qualcosa, sia chiaro. Piuttosto, perché, proprio in quanto albanesi, non vorremmo mai che altri figli di questa terra, che ancora sentiamo nostra, dovessero mai rivivere quello che toccò vivere a noi.

Balcani: l’accordo di Prespa sancisce il cambio di nome di Macedonia del Nord

Finalmente l’incontro fra il ministro greco Kyriakos Mitsotakis, il premier albanese Edi Rama e Zoran Zaev, Primo Ministro della Macedonia del Nord, avverrà in settimana ad Atene. Ad organizzare la conferenza è la rivista The Economist per discutere dell’accordo di Prespa che prevede il cambio di nome di Macedonia del Nord. Questo è un incontro molto importante fra questi tre paesi che sono riusciti finalmente a superare le difficoltà sul piano della comunicazione ratificando l’intesa. Questo incontro può rappresentare un nuovo inizio sul piano politico ed economico, oltre a facilitare il processo di adesione in UE per l’Albania. I Balcani rappresentano un ponte importante tra est ed ovest per l’Europa e velocizzare gli accordi è il miglior modo per fronteggiare la crisi, che coinvolge il mondo contemporaneo, e creare nuovi valori e promuovere gli scambi commerciali.

Scutari: culla della cultura albanese

Questa rubrica nasce con il desiderio di raccontare attraverso immagini e parole l’Albania. Siccome molti di voi mi scrivono per chiedermi informazioni sulle città da visitare, sulle tradizioni, sulla cucina, i costumi, le tradizioni e soprattutto sulle spiagge, ho pensato di dedicare un post alla settimana per raccontarvi un po’ di più del Paese che mi ha dato i natali. Parto dal nord dell’Albania, e la prima città che merita assolutamente attenzione è Shkodër, o meglio conosciuta con il nome di Scutari. Scutari. Scutari è un comune di 135 612 abitanti e prefettura omonima. La città è situata a nord ovest del Paese, tra le sponde del Lago di Scutari, vicino al fiume Drin, Buna e Kir e le Alpi dinariche. Scutari è considerata la culla della cultura albanese, la Firenze dei Balcani. Fondata tra il V-IV secolo a.C., si pensa che la città fosse abitata già dall’età del bronzo. Successivamente vi si stabilirono gli Illiri e nel 168 a.C. la città fu la protagonista della terza e ultima battaglia della guerra illirica che pose fine al regno di Genzio. Successivamente i romani fecero di Scutari un importante punto di snodo per il commercio e dopo la morte di Teodosio il Grande, Scutari venne compresa nell’Impero romano d’Oriente, fino al VII secolo quando l’imperatore Eraclio cedette la città ai serbi. Il dominio dell’Impero Ottomano. Per Scutari si susseguirono decenni e secoli di dominazioni: Bulgari, Bizantini, Serbi fino ai Veneziani e quest’ultimi fortificarono il castello cittadino e redassero gli Statuti di Scutari. Nonostante ciò, dopo la morte di Skanderberg, l’eroe nazionale albanese, la città si trovò a scontrarsi duramente contro gli ottomani, i quali ebbero la meglio persino contro i Veneziani, che dopo mesi di dura lotta in Albania, abbandonarono la città ritirandosi. Il dominio ottomano in Albania è durato 4 lunghi secoli, nei quali Scutari ebbe un ruolo fondamentale per il commercio, vista la sua posizione geografica strategica. Nel 1867 la città venne riconosciuta come un sangiaccato ed eretto al rango vilayet. Le guerre balcaniche. Durante il periodo delle guerre balcaniche , la città venne assediata dalle truppe montenegrine e serbe per poi essere liberata il 23 aprile 1913 quando gli ottomani si arresero ai Montenegrini. Nonostante il Regno di Montenegro Serbia avesse mire sulla città, la Conferenza di Londra riconobbe Scutari come una città del Principato d’Albania. Ma presto la città cadde nuovamente nelle mire espansionistiche del Montenegro, il quale, subito dopo la prima guerra mondiale, assediò la città fino a quando, nel 1916, l’esercito austroungarico si prese la città. Scutari venne presa dalle truppe dell’Intesa il 30 ottobre 1918. Oggi, sono accorpati alla città di Scutari i comuni di Ana e Malit, Velipojë, Postribë, Rhethinat, Gur i Zi, Berdicë, Dajç, Shalë, Pult e Shosh. Monumenti. Castello di Rosafa. Il castello di Scutari, o il castello di Rosafa, venne costruito nel IV secolo a.C ed è considerato il monumento più importante e si trova in collina alle porte della città. Cattedrale di Scutari. La cattedrale “Kisha e Madhe” (ovvero Chiesa Grande), venne visitata dal Papa Giovanni Paolo II nel 1993 e rappresenta per i cattolici un punto centrale della vita cittadina. L’orologio inglese. Il lord inglese Paget promosse l’opera finanziandola con ingenti fondi al fine di donare alla città un nuovo punto d’incontro. Il lord aveva come obiettivo quello di diffondere il protestantesimo e per farlo optò per la costruzione di un castello medievale, che ricordava l’Albania feudale, al fine di incoraggiare la cittadinanza ad un’attiva partecipazione. Altri monumenti importanti sono la Cattedrale ortodossa della Natività di Gesù, la Chiesa di San Francesco, il Santuario della Madre del Buon Consiglio, Moschea di Piombo, Moschea di Parrucë, Moschea Ebu Beker, Ponte di Mes, Teatro Migjeni e il Museo Marubi.