Matteo Renzi

Matteo Renzi e Pippo Civati.

Pippo Civati: Il tempo delle ambiguità è finito. L’Unità è la sfida del centrosinistra

Ancor prima che D’Alema lanciasse il suo appello, lei è stato promotore del progetto per un Centro Sinistra unito e alternativo al Partito Democratico. Ad oggi, crede che ci siano i margini per una coalizione tra lei , Orlando, Emiliano, Pisapia, Bersani e Sinistra italiana, e in più in generale tutte quelle forze che stanno a sinistra?  Da due anni propongo una soluzione autonoma e unitaria a sinistra. Per una sinistra di governo, che abbia un programma chiaro, un «Manifesto» preciso e dettagliato, e candidi persone credibili a interpretarlo in Parlamento. Prima eravamo in pochi, pochissimi: ora lo dicono quasi tutti. Mi fa piacere. Bisogna avere passione e pazienza, in politica. Sarà soltanto una lista oppure un soggetto politico vero e proprio? Sarà una proposta elettorale, rigorosa e puntuale, che unisca ciò che a sinistra già c’è, con un progetto, però, da sottoscrivere e a cui non derogare, come è stato fatto ahinoi in questa legislatura.  Quali saranno le modalità per definire il leader?  Credo che sia necessario prima di tutto individuare una squadra di persone che collaborino, per costruire questo percorso. Il leader sarà più un riferimento che un «despota», come accade in altri partiti, quasi tutti. La Sinistra che fa la destra aiuta inevitabilmente la destra. Per mille ragioni: culturali, politiche e anche elettorali. Se con Berlusconi scendi a patti – ripetutamente – è un po’ difficile poi spiegare al tuo elettorato che si deve fare un fronte contro di lui e i suoi alleati. Lei pensa di poter coprire il ruolo di questa eventuale nuova coalizione, oppure pensava a qualcun altro? Penso che il mio compito sia portare le idee di Possibile in questo percorso e di farle valere. Un lavoro certosino, accuratissimo e documentato più di ogni altro che può servire a tutta la compagine. Cosa pensa della vittoria schiacciante del centro destra alle amministrative? La Sinistra che fa la destra aiuta inevitabilmente la destra. Per mille ragioni: culturali, politiche e anche elettorali. Se con Berlusconi scendi a patti – ripetutamente – è un po’ difficile poi spiegare al tuo elettorato che si deve fare un fronte contro di lui e i suoi alleati. Se approvi leggi in continuità con quanto la destra proponeva, ti ritrovi scoperto. Non solo a sinistra, proprio strutturalmente, in generale. Quindi, lei cosa propone? Prima di tutto, l’autonomia. Come ripeto da tempo, autonomia e unità servono entrambe, ma la prima è condizione della seconda. Il tempo delle ambiguità è finito, da molto tempo. Il dialogo con il Pd e con Renzi (il PdR), da cui Pisapia era partito, con il voto del 4 dicembre 2016 e con l’appello di qualche giorno dopo, non era «possibile» e ciò era già stato dimostrato ampiamente dagli anni di governo, dalla cultura politica che li aveva accompagnati, dalle scelte ‘irrevocabili’ assunte dagli esecutivi che si sono succeduti. Gli ultimi eventi hanno soltanto confermato questo stato di cose: non c’era bisogno di aspettare il secondo turno delle Amministrative per rendersene conto. Come pensa si organizzerà la sinistra? L’unità è una sfida, altrettanto importante. Nessuno capirebbe due liste a sinistra (non a sinistra del Pd, perché il Pd ha definitivamente compiuto la sua scelta centrista, rispetto alla quale Renzi è stato un Macron ante litteram): quando dico da Boccia al Che Guevara – scherzando ma facendo molto sul serio – proprio a questo mi riferisco. Rinunciare a questa possibilità in partenza, è un errore micidiale. Quando nel 1991, la nave Vlora attraccava nel porto di Bari, in Italia si assaporò quella che oggi sarebbe diventata il problema che coinvolge tutta l’area europea: l’immigrazione. I provvedimenti messi in atto dall’Unione europea non sono serviti a fermare le ondate che ogni giorno sbarcano a Lampedusa. Dove si sta sbagliando?  Non si può fermare un processo migratorio, si deve gestire, regolare secondo principi e rispettando il diritto internazionale. L’Europa è mancata, perché ogni Stato ha preferito chiudersi piuttosto che condividere il problema. E l’Italia, che è geograficamente in mezzo al mare, si trova più esposta di altri. Dimitris Avramopoulos, commissario dell’Unione europea agli Affari interni e alle politiche sull’immigrazione, sostiene che per affrontare alla radice il problema dei flussi migratori, l’Unione europea deve cooperare con i Paesi di origine dei migranti, anche se a volte si tratta di dittature. Il problema spesso è che questi Paesi non hanno più un governo e non c’è un interlocutore con cui interagire. Qual’è la sua posizione in merito? Certo, però prima di tutto l’Europa e i Paesi membri dovrebbero smettere di armare e fiancheggiare i Paesi in guerra, depredare di risorse intere porzioni del territorio africano, proseguire con una logica coloniale e con le collusioni tra i grandi poteri multinazionali e le classi dirigenti di alcuni paesi. Qual’è la sua posizione in rapporto alle politiche dell’immigrazione?  Con Possibile abbiamo presentato una legge quadro, siamo l’unica forza politica ad averlo fatto, con il concorso di tutti coloro che si occupano dell’argomento e della gestione del fenomeno. Siamo per strumenti selettivi, canali legali per chi cerca lavoro, tempi più rapidi per chi chiede asilo, una riforma del regolamento di Dublino, la scelta del rigore nella gestione del sistema dell’accoglienza. Cosa si sente di dire ai new italians?  Sono quasi un milione le persone – i nuovi italiani – che hanno appunto ottenuto la cittadinanza negli ultimi anni. Credo sia necessario coinvolgerli a pieno titolo nella vita del nostro Paese, anche a livello politico, per affrontare insieme le questioni posta dall’interculturalità e dalla necessità di condividere diritti e doveri. Li chiamo «italiani alla seconda», perché hanno scelto questo Paese per vivere, lavorare, far crescere i propri figli. Anche a loro va esteso il patto repubblicano da rinnovare tra i cittadini italiani e le loro istituzioni. Un patto che è anche sociale, perché questo Paese è spaventato, impoverito, diseguale, e perciò sempre più spaventato, anche dall’immigrazione. Compito della politica è dare risposte efficienti e rigorose.

Beppe Grillo

Beppe Grillo, il Movimento 5 Stelle e i quattro amici al bar

C’era una volta Beppe Grillo che riempiva i palcoscenici d’Italia. I suoi spettacoli erano esilaranti. Il pubblico lo ascoltava con attenzione, il pubblico rideva ad ogni sua battuta, ad ogni sua pausa e lo onorava con lunghi standing ovation ad ogni fine spettacolo. C’era una volta Beppe Grillo, un uomo che pian piano ingrassava, le sopracciglia diventano sempre più crespe e lo sguardo come un’aquila che va a caccia della sua preda. C’era una volta la preda, l’Italia berlusconiana, l’Italia montiana, l’Italia lettiana, l’Italia renziana e poi c’è Gentiloni. C’era una volta il MoVimento 5 Stelle che interpretava la voce dell’opposizione al potere, rappresentava Macht (potere) ed Herrschaft (potere legittimo). Il sociologo tedesco Max Weber, nel suo libro Economia e società, intendeva con il termine potenza “qualsiasi possibilità di far valere entro una relazione sociale, anche di fronte ad un’opposizione, la propria volontà, quale che sia la base di questa possibilità”; mentre con il termine potere legittimo invece “la possibilità di trovare obbedienza, presso certe persone, ad un comando che abbia un determinato contenuto”.  Quando in un Paese i soggetti deboli sono in continuo aumento il soggetto più forte riesce a far valere la propria volontà in ogni caso, perché attraverso il potere legittimo che si auto legifera il soggetto più debole accetta qualsiasi decisione che gli viene impartita dall’alto poiché le riconosce valide, legittime. La teoria di Weber incarna perfettamente il valore giuridico del MoVimento 5 Stelle, che nasceva come movimento sociale avvenuto attraverso il passaggio da gruppi chiusi a comunità politiche fino a raggiungere e finalmente riuscire a sposare il potere. Ed eccoci faccia a faccia con quello che tutti abbiamo sempre pensato: la forza d’opposizione al potere (in quanto identità) non può mutare la propria natura ambendo di essere in potere, perché il potere non sta mai all’opposizione, il potere è al potere. Il potere non rappresenta neanche le fonti dell’informazione anzi le finanzia dando voce a tutti, anche all’opposizione. Il potere non si misura con la divisione e la specializzazione dei compiti; il potere non si conforma ma serve la struttura gerarchica dell’apparato amministrativo; il potere non fa assunzioni con contratto; il potere non remunera in denaro il personale; il potere non separa gli uomini e i mezzi d’amministrazione; il potere non separa gli uomini e l’ufficio; il potere non regolamenta controllando l’apparato amministrativo. Il potere non necessita della legittimazione anche se lo consente in quanto esercizio politico. E poi ci sono loro, gli amici del bar: Raggi, Marra, Romeo e Frongia. C’erano quattro amici al bar, che volevano cambiare il mondo […] Eravamo due amici al bar uno è andato con la donna al mare […].

L’Albania “flat-tax” e l’immigrazione all’incontrario

Settimana scorsa a DiMartedì, oltre ai grandi temi politici che riguardano il nostro bel paese, si è toccato il tema delle tasse. Il conduttore Giovanni Floris ha portato il pubblico italiano in un viaggio: in Albania. Ero in soprappensiero quando all’improvviso il mio orecchio captò immediatamente quell’accento cosi peculiare che riconosco nei miei connazionali. Alzando gli occhi, tre bellissime ragazze inquadrate e sorridenti che alle domande del cronista rispondevano in maniera anche un po naive con frasi “L’Albania è già in Europa” piuttosto “Tirana è troppo bella. Qui ci si diverte troppo”. Quel “l’Albania è già in Europa” mi rimembrò le stesse parole che il Primo Ministro Matteo Renzi disse all’incontro con il Primo Ministro albanese Edi Rama. Era il 2014. La visita di Renzi in Albania serviva per sponsorizzare l’inclusione in Europa del paese delle aquile. Matteo Renzi sottolineava l’importanza nel fare pressione al fine di portare a termine i negoziati. Inoltre nell’incontro, che sembrava più una rimpatriata tra vecchi amici piuttosto che visita di Stato, il Primo Ministro italiano sottolineò l’importanza fondamentale che l’Albania ricopre nelle sfide geopolitiche considerando che si trova nel cuore dei Balcani. Nel reportage che settimana scorsa è andato in onda su DiMartedì il punto che si metteva in luce erano proprio le tasse che in paesi come l’Albania oppure il Montenegro sono quasi del tutto inesistenti: le tasse in queste aree balcaniche vengono chiamate nel termine tecnico flat-tax ossia tassa piatta. Questa formula adottata in Albania, che è un paese in via di sviluppo, serve a sovvenzionare le aziende che siano esse piccole o grandi imprese allo scopo di una crescita esponenziale del paese. Il termine, coniato per la prima volta dall’economista americano Milton Friedman, si propone come un regime fiscale proporzionale e non progressivo qualora non fosse seguito da deduzione o detrazione quindi nonostante l’aliquota legale sia costante l’aliquota media della flat-tax rimane fissa. L’Albania, post comunista, post immigrazioni di massa del 1991 e ancora post guerra civile 1997, in pieno periodo d’immigrazione all’incontrario, si autofinanzia per promuovere il messaggio che attraverso la formula della flat-tax adottata dalla politica albanese le aziende autoctone oppure straniere possono avere la possibilità di aprirsi ad una facile eventuale crescita che altri paesi dell’Unione non offrono. Mi verrebbe da chiedere, a questo punto perché rientrare in Europa! Guardando le immagini andate in onda da Floris si poteva constatare de facto che la realtà non è proprio così, come viene raccontata. Vedere alle fermate degli autobus contadini, scesi dai villaggi che io conosco benissimo, vendere le loro galline, ti fa percepire di come il paese vive all’interno una forte dualità. Una povertà che la contemporanea Albania vuole celare, quegli anziani dalla pensione minima che sopravvivono ai carrelli del capitalismo occidentale sono da oscurare. Quegli anziani cresciuti con un’economia di tipo pianificato stile sovietico si trovano ora in forte disagio rispetto alla realtà a cui sono sottoposti. Ironico vedere quel vecchio privo di denti parlare con il linguaggio delle mani mentre indicava all’operatore di andarsene perché per loro non c’era più nulla da mostrare. Subito dopo, il video reportage metteva a fuoco le immagini, strumento al servizio della propaganda, di un locale della Tirana da bere: il Fusion. È nel limbo Fusion che le belli albanesi sorridenti e scosciate si accompagnano con i loro sorrisi e i loro corpi sinuosi mostrandosi alla società spettacolarizzata come merce Made in China mentre i maschi brindano a suon di Dom Perignon l’alba dei nuovi tempi dove l’umiliazione di un passato, che è dietro l’angolo, non è servito da monito nel generare una forte personalità pubblica. Quell’Albania, priva di una classe sociale media e dei sindacati, andata in onda a DiMartedì è una brutta copia di un’Italia le cui scelte politiche l’hanno definita come zona vulnerabile all’interno della comunità europea. L’occidentalismo a cascata, il desiderio di inclusione e di una cultura di appartenenza veicolata da una politica emotiva denudano l’Albania immobilizzandola ed esponendola a logiche geopolitiche che per ora sembra ignorare.

Storie disumane di barche piene di umani

Rieccoci. La storia si ripete. Sistematicamente. Ancora barconi. C’è una piccola differenza questa volta: nessuno parla più in maniera approfondita di queste nuove ondate di immigrazione, cioè stiamo parlando di migliaia di vite umane che si continuano ad intercettare nel Canale di Sicilia. I riflettori questa volta non sono stati puntati come in passato perché il mezzo mediatico, questa macchina, è divoratrice di ogni virtù umana, anzi è umana lei stessa poiché è una riproposizione dell’interiorità dell’autore. Gli uomini non sanno più discernere tra ciò che è giusto e ciò che è ingiusto, allora ci rapportiamo a queste macchine che più virtuose dell’umanità stessa definiscono gli applausi da dedicare al nuovo show donandosi al mondo in omaggio in cambio della sua noia sociale. Ma questa volta neppure la più immane disgrazia può soddisfare l’appetito dell’individuo dallo spirito deturpato dalla propria negligenza. La tragedia non la vivono più loro, gli altri, la tragedia epica siamo noi che rimaniamo immobili costretti nella paura ed incapaci a fare la differenza come popolo. È allarme. L’Italia è ancora sola. È sola? La comunità internazionale risponde tiepidamente alla questione e senza prendere una decisione pratica e definitiva. Dalla Libia partono nuove imbarcazioni che provengono dall’Eritrea, dalla Siria, dalla Nigeria. Angelino Alfano circa un mese fa parlava di nuove ondate, si contava una stima che andava dalle trecento alle seicento mila persone che sarebbero sbarcate. L’estate è quasi finita e queste previsioni hanno, possiamo dire, superato tali stime considerando coloro che sono riusciti a raggiungere le coste italiane e coloro a cui è toccata la sorte di giacere nel fondo del Mediterraneo. Di tutta risposta il leader dell’opposizione greco Syriza, Alexis Tsipras, candidato per la sinistra europea a presidente della Commissione Unione Europea con la lista“l’Altra Europa” commentava le parole del ministro Alfano sostenendo che “Se sono così tante le persone che vogliono passare le frontiere per venire che non glielo impedirà né Frontex, né tutte queste misure repressive. È un punto nero della politica europea, l’aver trasformato il Mediterraneo in un cimitero di anime, e loro di voler continuare le stesse politiche.” Ma io chiederei a Tsipras ma “loro chi?” fino a prova contraria la Grecia fa ancora parte della comunità europea, eppure non viene toccata nel profondo dall’argomento perché i profughi non sbarcano di certo in un paese che ormai non produce alcun bene né dal punto di vista culturale né economico. Ma ha ragione il leader dell’opposizione greca, Tsipras, a sostenere che nessuno fermerà queste nuove ondate, e questo semplicemente perché nessuno può fermare la disperazione che spinge gli immigranti a contrarre debiti pur di partire nella speranza di incontrare il futuro altrove. Il futuro altrove però si scontra con il nuovo sistema eretto per controllare i flussi migratori. Il serpente Frontex. Quest’ultimo, il cui nome tanto mi evoca una medicina contro i parassiti per gli animali, è stato fondato nel 2004 ed è diventato operativo il 3 ottobre dell’anno successivo con sede a Varsavia, in Polonia. L’Agenzia opera in tre distinti settori che corrispondono alla tipologia dei confini cioè mare, terra e aria. Sul sito della Frontex si legge che l’Agenzia “aiuta le autorità di frontiera dei diversi Paesi europei a lavorare insieme”. Ma davvero è così? Evitiamo di porci questa domanda perché gli scenari che si potrebbero aprire ci inquieterebbero, forse. Tornando alla questione iniziale ci chiediamo, come ha intenzione di agire il nostro Governo? Non si può tacere davanti a queste nuove ondate, non si può fingere dinanzi alla possibilità di nuovi disastri. Siamo alle porte dell’autunno e la probabilità di nuove partenze e di nuovi arrivi è dietro l’angolo e neppure le condizioni climatiche dei prossimi mesi arresteranno il fenomeno che come vediamo sta sempre più crescendo a causa dei conflitti politici che stanno affliggendo il Medio Oriente. Come abbiamo intenzione di muoverci? Il presidente del Consiglio Matteo Renzi in una sua intervista a Porta a Porta annunciava che ne avrebbe discusso all’incontro con il segretario generale Ban Ki Moon, in visita a Roma, e sostenendo che “In Libia bisogna mandare un inviato speciale dell’Onu, lo chiederemo formalmente come Italia”, e io mi chiedo come potrebbe chiederlo diversamente?! E aggiungendo che “Se riusciamo a portare l’agenzia dei rifugiati a intervenire sulle coste libiche forse c’è un minor rischio di intervento in mare, se Mare Nostrum non è fatta solo dalla Marina Italiana ma dall’Ue forse le cose vanno meglio”. Questa è la viva speranza che nutre il nostro Presidente del Consiglio, ma che dobbiamo subito deludere perché caro Renzi non sarà l’agenzia dei rifugiati, come lei sostiene, a frenare le nuove orde di rifugiati. Ma possibile che noi italiani siamo così basici? Possibile che la soluzione ai nostri problemi debba arrivare sempre da qualcun altro?! Ve lo ricordate nel 1996 quando cercarono di fermare un barcone che era partito dalle coste di Valona in Albania? Nessuno ricorda più quell’episodio, quella tragica notte che portò via più di cento anime sul canale di Otranto. Nessuno la fermò perché tanta era la disperazione di chi ormai aveva già contratto debiti e non poteva più tornare indietro. E se lo dicevano, chi proviene da queste storie ne è a conoscenza, che “o la morte o mai più indietro” e così è stato per una moltitudine di disperati. Ecco io credo che stiamo parlando dello stesso dolore, degli stessi barconi e delle stesse storie disumane di barche piene di umani. Ma non possiamo farci trovare impreparati anche questa volta. Come paese interessato, in quanto faro che si estende sul Mediterraneo, lo stivale che sta stretto ormai a tutti, dobbiamo cercare di comprendere come agire e quali leggi noi come paese europeo e legiferante dobbiamo imporre invece di subire come dei camerieri che raccolgono le cicche di gomma per terra ai clienti maleducati. Renzi deve prendere posizione perché non possiamo aspettare che la comunità europea nutra la pietas nei nostri confronti come se ci dovesse un favore. Non accetteremo come risposta dalle parti del governo europeo un atteggiamento omertoso. Qualcuno dovrebbe dire alla Comunità Europea che i fondi non bastano; lo sostiene il Cir, Consiglio italiano per i rifugiati, il quale gestisce il centro Sprar a Verona, che ospita per ora 3.500 posti in tutto il paese e la cui disponibilità quest’anno si è allargata a 13.000 posti, ai quali si potrebbero aggiungere altri 7.000 in caso di estrema emergenza, ma nonostante ciò il direttore del centro integrazione Christopher Hein conferma che i posti disponibili e finanziati sono già occupati. L’Europa si chiede come vivono questi rifugiati in questi campi disgraziati? Qualcuno racconta la condizione in cui questi esseri umani vengono trattati in questi centri dove il primo nemico è la noia delle giornate svuotate da ogni senso costruttivo? Questi esseri che aspettano mesi e mesi il tanto desiderato “status di rifugiati”. In teoria la permanenza in un centro d’accoglienza non dovrebbe durare più di 35 giorni. Infine questi rifugiati al momento del ritiro del documento o permesso di soggiorno a scadenza spesso finiscono per strada e non ricevono alcun aiuto dallo Stato. Questa realtà delle cose finisce per sovvenzionare la microcriminalità poiché un individuo che non si trova nelle migliori condizioni umane di certo per sopravvivere alla nostra realtà di non più civiltà si predispone umanamente a marchiare la sua, quella di profugo, non più identità. Noi non vogliamo solo una soluzione che preveda di parcheggiare gli immigranti trasformando le nostre città in campi profughi, ma vogliamo che si trovi una risposta concreta e che i governi siano cooperanti tra loro, ma soprattutto caro Renzi, lei che rappresenta la voce inascoltata del governo italiano nel mondo, provi a gridare un po’ di più riportando l’urlo del suo popolo che sta declamando di essere in crisi e di essere disperato per un posto di lavoro. Questo “urlo” deriva anche dal fatto che gli italiani, da sempre ospitali e attenti al dolore “degli altri”, proprio per la compassione che nutrono nel cuore per questa gente senza poter aiutarla, chiedono che vengano fermate le ingiustizie. Questa richiesta diretta nasce dall’esigenza di non permettere che un essere umano viva nelle tenebre della illegalità e quindi nel disagio. Caro Renzi, io Anita Likmeta, ex profuga di guerra, le chiedo personalmente di dare una risposta concreta sul da farsi e visto che nelle sue varie interviste lei stesso si è proposto come salvatore dell’Italia ecco, direi, è arrivato il suo momento: “SALVACI”. di Anita Likmeta su The Huffington Post