New York

Free Will.

James Damore su Google: “siamo intolleranti alle idee e ai fatti che non rientrano in una specifica ideologia”

di Irisa Bezhani Qualche settimana fa Google è stata sotto ai riflettori di tutto il mondo: un documento di dieci pagine (che potete leggere interamente qui), intitolato “Google’s Ideological Echo Chamber” (“La bolla ideologica di Google”), scritto da quello che si è poi scoperto essere James Damore, un ingegnere di Google, e fatto circolare internamente all’azienda, ha scosso l’opinione pubblica. Appena il documento ha lasciato i confini di Google, e i media hanno iniziato a diffondere la notizia di un “documento sessista” che circolava  tra i dipendenti di Google, James Damore si è subito visto togliere il posto di lavoro. La causa del licenziamento? Secondo il CEO di Google Sundar Pichai diffondeva “stereotipi di genere dannosi” e aveva reso difficile per le sue colleghe continuare a lavorare in azienda, ormai un ambiente reso “ostile” alle donne. Il motivo del licenziamento, dunque, non era legato alla sua produttività lavorativa, che anzi, negli anni in cui Damore aveva lavorato per Google era stata confermata da due aumenti, ma alle sue parole, ritenute offensive e dannose. Il licenziamento di James Damore conferma la sua tesi: Google si è rintanata nel suo rifugio ideologico e qualsiasi cosa ponga una critica ai suoi assi fondamentali viene vista come una minaccia da eliminare. E così è stato. La copertura mediatica di questo evento è stata a mio parere incorretta. Hanno definito il documento ed il suo autore sessista, cosa che se leggete da voi il documento non è affatto. James Damore, all’inizio del promemoria, evidenzia quanto a Google si discuta molto sui pregiudizi inconsci legati alla razza e al genere ma di quanto poco lo si faccia anche su quelli che riflettono la sfera morale. L’orientamento politico, dice Damore, è il risultato di profonde preferenze morali e perciò di pregiudizi inconsci. Damore prosegue quindi ad elencare alcune differenze tra la politica progressista e quella conservatrice; i progressisti pensano che le differenze siano causate da ingiustizie, mentre i conservatori pensano che queste siano invece naturali e giuste, i progressisti credono che il cambiamento sia buono mentre i conservatori sostengono che la stabilità sia più importante del cambiamento e via dicendo, proseguendo con altre differenze universalmente evidenti e poco discutibili su cui tutti siamo d’accordo. Damore continua affermando che entrambi questi modi di pensare al mondo siano giusti e che entrambe servano alla società e di riflesso anche ad un’azienda come Google per prosperare. Qui inizia la parte controversa di tutto il documento. Damore afferma che uno dei motivi per cui le donne non sono rappresentate al pari degli uomini nel mondo della tecnologia e in quello di posizioni di potere è dovuto a fattori non-discriminatori quali la biologia. E apriti cielo, non l’avesse mai detto! Damore non nega che le donne subiscano discriminazione di genere e dichiara semplicemente che “la distribuzione delle preferenze e delle abilità di donne e uomini può essere causata in parte da motivi biologici” e che queste differenze possano “spiegare perché non vediamo una uguale rappresentazione di donne nella tecnologia e in posizioni di potere.”  Prosegue inoltre col dire che: “Molte di queste differenze sono minime e c’è una significativa sovrapposizione tra uomini e donne, perciò, nel considerare un individuo, non si può dedurre nulla dati questi livelli di distribuzione della popolazione”. Le dichiarazioni definite da tutti “sessiste” di James Damore sono comprovate però dalla scienza (una semplice ricerca renderà tutto più chiaro) e non dalla sua ipotetica misoginia. Damore elenca alcune delle differenze di tratti di personalità tra donne e uomini tra cui: L’interesse più alto delle donne verso le persone invece che per gli oggetti in relazione agli uomini; Le donne in media sono più ansiose ed hanno un più basso livello di sopportazione dello stress rispetto agli uomini; Gli uomini esibiscono un interesse molto più alto delle donne per lo status ed il prestigio e questo si riflette nella loro scelta di lavori ad alto livello di stress. Damore prosegue poi col suggerire, ad ogni differenza di personalità individuata precedentemente, metodi per rendere il lavoro nel settore tecnologico più adatto alle donne. Il suo atteggiamento rivela apertura mentale e non agressione come invece ci potrebbe far suggerire la copertura mediatica che l’ex ingegnere ha ricevuto in questi giorni. Damore, prima di dare degli altri suggerimenti alla sua azienda, scrive che: “Spero sia chiaro che io non sto dicendo che la diversità sia negativa, che Google o la società sia al 100% giusta, che non dobbiamo cercare di correggere dei pregiudizi già esistenti o che le minoranze abbiano la stessa esperienza di quelli della maggioranza. Ciò che mi preme evidenziare è che siamo intolleranti alle idee e ai fatti che non rientrano in una specifica ideologia. Non sto peraltro dicendo che dobbiamo limitare le persone a certi ruoli di genere; sto esortando a fare esattamente l’opposto: tratta le persone come degli individui e non come un altro membro del loro gruppo (tribalismo)”. La diversità cui si dovrebbe aspirare maggiormente è quella intellettuale e non quella razziale o di genere. Ed è proprio il tribalismo e ciò che in America chiamano “Identity Politics” (ovvero un tipo di pensiero politico che ragiona in base all’identità cui uno appartiene) che sta rendendo difficile il libero scambio di idee ideologicamente opposte tra di loro. I più grandi giornali d’America, che sono poi quelli con una maggiore diffusione e quelli più letti al mondo, hanno come sede la città di New York, notoriamente famosa per essere progressista. Questo fa capire quanto la cultura mainstream d’America in questo momento storico sia prevalentemente di stampo progressista. La stessa Silicon Valley e aziende come Google e YouTube sono gestite da personalità di sinistra ed aperti donatori del Partito Democratico. Non che ciò sia un male di per sè, ma il loro eccessivo dominio ha reso difficile per opinioni non allineate alle loro di esprimersi. Il licenziamento di Damore ne è un esempio. La diversità cui si dovrebbe aspirare maggiormente è quella intellettuale e non quella razziale o di genere. Sembra così ovvio ma nel panorama politico americano dominano politiche identitarie per le quali se sei nero devi per forza votare democratico e se sei una donna devi per forza essere una femminista radicale e se sei un uomo bianco allora non hai diritto di esprimerti perché hai tutti i privilegi che il mondo possa offrirti. Bisognerebbe evitare questa retorica, ed iniziare a valutare le opinioni altrui per quello che sono e non per la persona che le pronuncia. I recenti eventi di Charlottesville dimostrano perfettamente quanto questa politica identitaria sia divisiva e controproducente. I suprematisti bianchi, i neo-nazisti e l’alt-right e dall’altra parte l’estrema sinistra e gli antifascisti militanti sono uno lo specchio dell’altro. Per i primi il nemico sono le minoranze e chi appoggia il multiculturalismo, per i secondi i nemici sono i suprematisti bianchi e chi non appoggia la loro visione progressista del mondo. Chiunque non sia d’accordo con loro viene additato come l’altro, il nemico. Noam Chomsky diceva che “Il modo furbo per mantenere le persone passive e obbedienti è quello di limitare strettamente lo spettro accettabile di opinioni, ma permettere un dibattito vivace all’interno di quello spettro”. Ciò che l’episodio di James Damore ci insegna è quanto importante sia il confronto ideologico a discapito di quello tribale, basato più su caratteristiche innate (colore della pelle o sesso biologico) su cui non si ha nessun controllo attivo piuttosto che su quelle che invece rendono un individuo tale, ovvero le sue opinioni e le sue azioni. Il tribalismo non ci salverà.  

Piccolo Cafè

Michele Casadei Massari: il sogno americano del “Piccolo Café”

Michele Casadei Massari, classe 1975, nasce in Romagna, a Riccione per la precisione. Ben presto si accorge della sua passione per la cucina, passione trasmessagli dal nonno Gigi, figura determinante nel percorso di vita di Michele, il quale ha vissuto a Bali, in Asia, prima di approdare nella Grande Mela soltanto otto anni fa. L’ascesa di Michele a New York è avvenuto in un breve lasso di tempo grazie alle sue capacità e al suo ottimismo nell’affrontare le nuove sfide che la vita gli presenta davanti. Michele è Founder ed Executive Chef del Piccolo Café che conta ben quattro locali a Manhattan oltre a vantare della collaborazione con i più prestigiosi clienti nella moda oltreoceano. L’American Dream di Michele Casadei Massari aggiunge nei prossimi mesi un altro e importante traguardo con l’apertura di un nuovo locale, La Lucciola. Michele, a che età è nata la tua passione per la cucina e perché? Lo ricordo lucidamente, avevo 6 anni e ammiravo il nonno Gigi, il mio cuoco preferito di sempre. Il vecchio viaggiava tutto il mondo con l’atlante e amava spendere i meritati giorni di inizio pensione nella sua cucina economica a legna, a Monterado nelle Marche.  Lo guardavo mentre se ne stava seduto sulla consumata e pizzichina impagliatura della sedia a corredo del solido legnoso tavolo bianco. Lo studiavo nei suoi riti; pulire i tordi, bollire le bietole, pulire le patate, lavare la trippa, fare la cresca, spurgare le lumache e bollire le vongole e infine, filtrare con cura la sabbia. In quel mio piccolo tempo, i giorni scorrevano spensierati, mentre l’amore di mio nonno mi avvolgeva come una coperta, la sua onestà, il suo essere ligio e dedito al lavoro mi rassicuravano facendo crescere in me la consapevolezza dell’uomo che sarei divenuto. Per il nonno la cucina era sinonimo di famiglia, eravamo noi, ero io. Il nonno aveva delle mani bellissime, le più pulite ed eleganti mani da uomo che io avessi mai visto, e con quelle mani tagliava e sminuzzava con rigorosa attenzione tutto, utilizzando coltelli affilatissimi e di epoche eterne, tutti del passato. Nonno Gigi credeva solo nella cottura a legna, diffidava del gas. Nonno Gigi era pulitissimo, era paziente. Quando avevo nove anni cucinai per la prima volta per mia madre e il suo compagno e quella per me fu l’inizio della mia carriera. Devo tutto al nonno, l’uomo con il quale trascorsi i miei giorni migliori, la mia infanzia.   Che percorso di studi hai compiuto?  Mi sono iscritto al corso di Farmacia e l’ho frequentato per un breve periodo, poi sono passato a studiare Medicina, una mia grande passione, ancora oggi compro e leggo libri di genetica. Ecco, il mio percorso di studi universitari è stato scoordinato perché ero distratto, avevo la testa altrove. Sono sempre stato una persona indipendente per cui ho scelto di tuffarmi subito nel mondo del lavoro, avrei voluto portare a termine gli studi in Medicina se non altro per rendere felice il babbo, al quale chiedo venia in questa intervista. Tuttavia devo dire che la passione per le materie scientifiche, come la Fisica o Chimica, spesso incrocia e si coniuga con il mio mestiere di Chef. C’è stato un periodo in cui mi dedicavo a studiare l’uso del sale nella sua composizione ma soprattutto di comprendere cosa fossero e come andassero trattati i grassi, le temperature e le bizzarre forme ed evoluzioni delle proteine, poi gli zuccheri e la loro irreversibilità alle alte temperature. Insomma, io non smetto mai di studiare perché trovo irresistibile il progresso della nostra materia. La cucina e le sue tecniche, gli utensili, l’equipments e le strategie, sono per me la parte affascinante e meravigliosa del mio piccolo mondo, del mio Piccolo Café.  Quando e qual’è stato il motivo per cui hai deciso di lasciare l’Italia?  Non l’ho mai deciso e né mi sono incoraggiato, l’ho semplicemente colto e poi perseguito con tenacia e ardore, ho afferrato l’opportunità e mi sono lanciato. Sono uno testardo e paziente con l’arte del mettermi in gioco, ora lo rifaccio con la mia nuova sfida che è il ristorante La Lucciola. Perché hai scelto New York? Perché volevo un mercato, una piazza, un teatro eclettico, multirazziale e poliedrico, perché pensavo e lo penso tutt’oggi che il viaggio, l’avventura che avrebbe costituito sarebbe stato il vero premio e traguardo di questa sfida, e che sarebbe stato comunque un forte bagaglio di esperienza e sopravvivenza. Raccontami la storia del “Piccolo Café”, com’è nato?  È nato sullo sdraio di una estate calda in Sardegna. Pensavo e ripensavo crogiolandomi su queste domande: cosa mi piace, cosa so fare e cosa posso fare ovunque io sia? La risposta mi venne naturale: me stesso sempre. Ospitare, cucinare, accudire, ascoltare, incontrare, raccontare, vendere, leggere, e quindi condividere. Optai per un atto eccezionale in accordo con la domanda e la risposta, ossia di fare la prima caffetteria tradizionale italiana ever a Union Square durante il mercatino di Natale in uno spazio di un metro quadrato. Mi parse l’idea vincente, l’ho voluto tanto per cui detto e fatto! Mi sono avvalso del visto E2.  Com’è stato il primo periodo? Quali le difficoltà? È stato molto stimolante, difficilissimo ma allo stesso tempo esaltante. Non capivo nulla, ero curiosissimo e mi mettevo sempre nella condizione di ascoltare ed approfondire. La Grande Mela dove tutto era possibile, il più grande “Blue Ocean” di sempre. Non conoscevo nulla di questo mercato e quindi ero estremamente sereno, eccitato e ottimista, quest’ultimo è un mio tratto caratteriale perché credo in tutti e in tutto quello che faccio, sempre. Le difficoltà oggettive furono metriche, ambientamento e orientamento fisico e culturale, capirsi anzi intendersi in tutto al meglio, inserirsi e sincronizzarsi con i luoghi e le persone, ottenere e avanzare, fare i passi giusti. Dal punto di vista lavorativo, pensi che i rapporti siano più facilitati rispetto all’Italia?  Non saprei, perché sono sempre io, sarei sempre io, approccerei comunque il lavoro con lo stesso stimolo e idealismo. Mi sveglio da sempre pieno di voglia di fare e mi pare ci siano sempre opportunità, credo nelle idee e nella loro velocissima attuazione, amo l’Italia e ne sono fierissimo, quindi la vedo sempre come una opportunità e un mercato in continua evoluzione. In questo preciso momento non credo, forse c’è più velocità e pragmatismo, ma vivo a NY , l’America è grande e tanto diversa da NY e non solo NY, credo che qui ci sia meno pregiudizio sull’impresa e che ci sia una atteggiamento di rewarding culturale sincero, mirato al risultato e al perseguimento che stimola e spinge a fare e rifare sempre di più, sbagliare e ricominciare. Spesso la tua domanda la pongo ai giovani italiani che spesso incontro in questa città e le risposte sono molto cambiate oggi rispetto agli ultimi anni. Il governo Obama ha rappresentato il cambiamento, l’entusiasmo, il cambio generazionale e finalmente la risposta all’America “bianca” che oggi torna ad inquietare. È più facile aprire un’attività in U.S rispetto all’Italia?   Potrei non essere aggiornatissimo ma direi che in linea di massima è più facile qui dove tutto è fattibile on line e con l’assistenza gratuita. Come si vive nell’America Trumpiana?  Sto rinnovando in questi giorni il mio visto, quindi mi è facile risponderti: con attesa e speranza e con cauta osservazione. Cosa ne pensi delle politiche dell’immigrazione attuate dal nuovo governo di Donald Trump? Non le ho ancora capite, ma sono certo che questo Paese, ma soprattutto questa città è fatta di diversity, di mix, di tanti desideri, di tante religioni, di talenti e propulsione e qui, a New York, tutto si unisce e si armonizza in questo melting pot razziale e culturale con osmosi naturale. Ad oggi, consiglieresti ad un giovane di trasferirsi per cercare lavoro in America? Consiglierei per ora di attendere e capire al meglio e il prima possibile le direttive per i visto e le concrete opportunità e limitazioni, quindi prima lo studio e l’idea, poi sì, attuandosi velocemente e con ambizione. Pensi mai di rientrare in Italia? Per ora no, e non permanentemente, solo perché qui non ho ancora finito, mi sento di aver appena iniziato. Come ti accennavo prima, sto aprendo un nuovo locale, il quinto, che si chiama La Lucciola. E poi, sai, rientro spesso in Italia, anche ora grazie a te attraverso questa intervista. Ascolto moltissima musica italiana, leggo i giornali e grazie alla nostre magnifiche radio italiane e le loro app (adoro i podcasts) seguo con interesse le vicende politiche del nostro Paese.   Bellissima, colta, intellettuale, sensata, coraggiosa, educata, audace, dialettica e autentica, si capisce che la amo tanto? Per i giovani che ti stanno leggendo in questa intervista, nella tua attività ci sono posizioni aperte?  Visti e nuove o modificate regole di immigrazione permettendo, assolutamente sì, soprattutto ora che stiamo aprendo il nuovo locale.  Dove mandare le candidature?  recruitment@piccolocafe.us Grazie Michele per avermi rilasciato questa intervista e in bocca al lupo nella tua avventura Made in USA. 

Melania Trump

La lettera che Melania Trump forse non scriverà mai

New York, 8 novembre 2036 Cara Storia, sono Melania Knauss Trump, e all’imbrunire dei miei giorni, ti lascio le mie parole, perché i fatti sono già tuoi. Io, dal canto mio, sono sempre stata fuori tempo; le mie parole non ti sono conosciute, perché scelsi di essere ciò che volevi, sicché per principio non scelsi me. Scelsi perfino di addomesticare me stessa, per poi ritrovarmi come polvere nei tuoi libri. Mi sono arrampicata sui miei sogni, sono salita sulle passerelle di questo mondo, ho scalato le torri del potere. Ma quando ero sulla vetta, non ho più potuto nascondermi; ed è lì, che iniziò la discesa: la casa, che era bianca, finì; la torre, di cui porto il cognome, crollò; quell’infanzia povera, che con tante speranze lasciai, tornò il mio presente dall’altra parte del mondo. Sono stata disposta a essere qualcosa, per poter essere qualcuno. Ora tu mi chiedi, perché vuoti il sacco? Mi chiedi se sto cercando redenzione? Io almeno ho scelto di portare un cognome che non era il mio, stando a fianco alla scrivania del potente, e non ho accettato che qualcuna ci stesse sotto. Ma in fondo, oggi, chi se ne importa di questi piccoli dettagli; come Salomone, anche a me tutto appare vanità, per amore della mia vanità. Perché la mia vanità si formò nell’assenza della mia “non” identità. Non ho mai spiccato per qualità, ma sapevo che la bellezza è un dono, e io avevo capito bene che effetto faceva il mio corpo, che effetto facesse il mio sorriso quando posava per l’attenzione di chi mi offriva il suo valore per scambiarlo col mio. E ora tu hai anche il coraggio di presentarmi il conto? Mi dai la responsabilità di questo Mondo allo sfascio? Di questo Paese impoverito, economicamente e culturalmente? Ma è la mia vita ad essere povera e allo sfascio. Ho già pagato. Oggi nemmeno la plastica riesce a nascondere le pieghe che rigano il mio volto, e con cui ho già saldato il conto. Il mio passo è stato all’altezza della mia gamba, ma non abbastanza all’altezza del tuo appetito, perché il tuo palato raffinato si nutre soltanto delle storie dei puri, e per i quali sei disposta a farti vanto; ma io resto la virgola con cui spezzi i periodi, e per cui tu poi vai a capo. Gli antagonisti sono i veri depositari del sapere, perché accettano di portare sulla propria soma il peso concreto delle azioni, che vedono come vincitori morali i tuoi protagonisti, le cui vite tu trascrivi al fine di rendere quella storia un’azione morta; e tu, matrigna, pietrifichi quei uomini e donne rendendoli idoli, e i servi idolatri. Tu pensavi di svelarmi? Ma io con le parole che mi sono sempre negata oggi ti svelo. Per una cosa piego il capo: per non essere stata all’altezza della vita che si offriva di vivermi senza compromesso, e così che ho confuso la vita da sogno che speravo, con un reality show, ossia il sogno di qualcun altro. Melania Trump (forse)