Politica

La rabbia e l’umiliazione. La Pornografia Non Consensuale è la nuova piaga sociale

Rabbia, silenzio, e umiliazione. Oggi è la giornata per l’eliminazione della violenza contro le donne, e proprio oggi è opportuno parlare di una forma di violenza in aumento costante, dai numeri allarmanti. Una forma di violenza che è difficile combattere, è difficile accertare nella sua presenza concreta, ma di certo è sempre più diffusa. Sto parlando della Pornografia Non Consensuale (in inglese NCP, non consensual pornography), vale a dire la diffusione di foto e filmati a carattere pornografico senza che il soggetto abbia dato l’assenso. La conosciamo come “revenge porn”, la classica situazione in cui il fidanzato o il marito, abbandonato, mette online foto o filmati della propria ex. Molto spesso i filmati sono corredati da nome, cognome, profilo social della vittima. E le conseguenze sono devastanti: Secondo una ricerca Eurispes (2019) le vittime di “Revenge Porn” sono nel 90 per cento dei casi donne, con ricadute durissime sulla vita personale. Il 50 per cento delle vittime pensa al suicidio. Anche le conseguenze professionali sono pesantissime: oltre il 70 per cento dei candidati ad un posto di lavoro viene escluso a causa della web reputation. Secondo una ricerca del 2020 del servizio analisi della Polizia Postale In Italia il fenomeno è in aumento e sta raggiungendo picchi preoccupanti, con due episodi di revenge porn segnalati al giorno, e un migliaio di indagini in corso a fine 2020. L’associazione “Permesso negato”, che si occupa del problema, in una ricerca di questi giorni ha evidenziato che negli ultimi 12 mesi i gruppi Telegram dedicati allo scambio di questo tipo di materiale sono passati da 89 a 190. Raddoppiati. Si tratta di una vendetta simbolica – ma dalle tragiche ricadute pratiche- dell’uomo, del maschio, nei confronti della donna. Una versione moderna, hi tech (ma sappiamo che non c’è fenomeno contemporaneo che non abbia una sua chiave mitologica vera, forte e viva) del mito di Apollo che sputa sulle labbra a Cassandra, condannandola a non essere mai più ascoltata. Una forma di carachter assassination non meno reale di quella che a volte, purtroppo, avviene nei fatti. E non sono solo le donne a dover portare il peso dell’aspetto selvaggio, violento, del mondo digitale, che si rivela come una specie di nuova giungla pronta ad inghiottire i più deboli. Il revenge porn è solo una delle facce della pornografia non consensuale. Le altre sono, ad esempio, la “sextortion”, ovvero il minacciare di rendere pubblici i filmati e i video a meno che la vittima – donna, uomo, ma in particolare minore- non paghi un corrispettivo. Di questi giorni la notizia dell’arresto di un uomo a Scafati che individuava vittime -spesso minori disabili- si procurava con l’inganno foto intime e tentava di ricattarli. In altri casi la diffusione di materiale pornografico non consensuale avviene a semplice, ma non meno odioso, scopo di bullismo cibernetico. Il lato cyber-rape della nostra cultura esiste, insomma. Non se ne parla abbastanza, e non si fa abbastanza per contrastarlo. Anche se, di recente, il Garante della Privacy ha deciso di abbassare la soglia per possibili denunce anche ai maggiori di 14 anni, e ha costruito un protocollo di intesa con Facebook, Instagram, Whatsapp perché i video vengano fermati anche prima della loro diffusione online. Esistono anche realtà come ealixir.com, azienda specializzata in reputazione digitale, che consente, a chi ne faccia richiesta, di cancellare gratuitamente foto e video compromettenti. Sono iniziative necessarie e meritorie, ma non risolutive. Perché l’idea stessa di screditare o meglio “sputtanare” una vittima più debole usando il ricatto sessuale rappresenta non solo la faccia oscura di un’epoca, ma anche il lato oscuro di un’identità maschile sempre più incerta, oltre che un meccanismo antropologico – quello del debole che paga per il forte- ancora troppo consolidato in una società a cui piace definirsi progressista, ma che, evidentemente, non ha ancora scardinato meccaniche di dominazione tribali. Ancora siamo all’uomo che zittisce la donna. Nell’epoca in cui, con la morte di Dio, gli uomini sono diventati dei “gli uni per gli altri”, ciascuno può arrogarsi il diritto di sentirsi come il dio Apollo che zittisce la vittima umana. Lasciandola, come capro espiatorio, in balia del silenzio e della riprovazione generale. Rabbia dunque, silenzio e umiliazione.

#CoronavirusStories: ritorno al futuro.

di Zeralda Daja Mi chiamo Zeralda Daja, ho 23 anni, sono nata in Italia ma i miei genitori sono albanesi. Sono una laureanda in Scienze Umanistiche all’Università di Urbino, e sono madre di una splendida bambina. Tutto ciò che so dell’Albania lo devo ai miei genitori che ogni volta mi raccontano gli anni vissuti li, prima che emigrassero per l’Italia. Mia madre e mio padre spesso mi narrano quei giorni in cui il caos imperversava nella vita di tutti i cittadini albanesi, nella loro piccola comunità. Mi raccontano che avevano paura di vivere quelle giornate che sembravano fossero interminabili. Lunghe attese per sapere cosa stesse succedendo, cosa avrebbero fatto, dove sarebbero andati. Mi dicono che nessuno aveva risposte. Poi ci sono state le emigrazioni di massa, ma ormai quei fatti sono storicizzati. Non trascurare le piccole buone azioni, pensando che non sono di alcun beneficio; anche le piccole gocce di acqua alla fine riempiranno una grande nave. Non trascurare le azioni negative solo perché sono piccole; per quanto piccola possa essere una scintilla, può bruciare un pagliaio grande come una montagna. Buddha Un mese fa pensavo alla mia tesi di laurea, avevo appena incontrato la mia relatrice per concordare alcune pratiche, andavo tranquillamente dai miei genitori per pranzare le domeniche, come da rito famigliare. Passeggiavo con mia figlia per tutto il paesino assaporando i primi giorni di primavera tra le margherite e i fiori di ciliegio appena nati. Organizzavo le mie giornate tra impegni e commissioni, ma poi ad un tratto tutto è cambiato. State a casa, limitate i contatti, uscite solo per necessità. Messaggio che vari enti nazionali riportano sulle tv. Non comprendevo la dimensione delle cose, d’altronde nessuno in quelle ore aveva chiaro ciò che stava accadendo e i danni che questa crisi avrebbe e sta tuttora comportando. Trovai rifugio nelle mie parole accettando una situazione che è paradossale, quasi inaccettabile. In fondo, la vita a volte fa brutti scherzi, quando ti prepari a viverla, ti scombussola i piani. Una vecchia storia per me, un po’ come quella che i miei genitori vissero in Albania, tanti anni fa. I nostri nonni, i miei genitori, i libri di storia narrano delle guerre, ma io non ricordo nessuna guerra nella mia giovane vita. Allora mi chiedo, sono queste le nuove guerre? La guerra ha i suoi protagonisti ed antagonisti, ma in questo scenario di morte e di sospensione dei diritti civili, mi chiedo chi sia il nemico. L’uomo, la natura, un virus o la grande paura. Da qualche parte ho letto che il pianeta si sta vendicando: come a dire basta ai soprusi, alle deforestazioni, all’inquinamento in atto. E come se ad un certo punto tutto il sistema di valori occidentali fosse messo in discussione, e quindi crollato. Eppure tutti lo dicono, tutti lo pensano: dobbiamo utilizzare questo tempo in quarantena per riflettere sulle nostre vite, sulle nostre relazioni, sulle nostre abitudini. Quando ci illudevamo che i rapporti virtuali fossero più importanti di quelli reali, sulle vite di tutti irrompe un protagonista: un virus che ci costringe a vivere ammassati nei rispettivi metri quadri, e solo ora comprendiamo il valore della comunione con il prossimo. Ora realizziamo il valore di uno sguardo o quello di un abbraccio. Quando il razzismo e le ideologie estremiste iniziavano a prevalere nei rapporti umani e l’egocentrismo di una nazione non accettava rivali, il virus ci dimostra che di fronte alla vita e alla morte siamo tutti uguali, e molto lentamente si iniziano a vedere i segni di solidarietà fra popoli. O forse le prime alleanze di un futuro scenario geopolitico. Un gesto di solidarietà lo abbiamo visto alcuni giorni fa quando il premier albanese Edi Rama ha inviato in Italia 30 medici per aiutare l’ospedale di Brescia e Bergamo, le due città più colpite dall’emergenza Coronavirus. È vero che tutti sono rinchiusi dentro le loro frontiere e anche Paesi ricchissimi hanno girato la schiena agli altri ma forse esattamente perché noi non siamo ricchi e neanche privi di memoria, non ci possiamo permettere di non dimostrare all’Italia che gli albanesi e l’Albania non abbandonano mai l’amico in difficoltà. Oggi noi siamo tutti italiani e l’Italia deve vincere questa guerra. Edi Rama, Primo Ministro albanese Per quanto possa costringermi a trovare il perché di questa situazione, per quanto possa fare riflessioni in merito alle tematiche che stiamo affrontando come nazione, come Europa, non ho risposte. Ciò che posso dire è per quanto la normalità, la quotidianità, e persino la vita mediocre di tanti di noi fossero noiosi da digerire, oggi è quello di cui ho più bisogno. Le relazioni sono anche un atto fisico, in luoghi fisici, e senza di essi siamo birilli che stanno in piedi con la giusta distanza per essere abbattuti da qualsiasi essere che impugna una palla per tirarcela addosso, per poi fare strike facendoci cadere. Quando venivano messe in dubbio persino le guerre e gli eventi passati, considerandoli come troppo esagerati o addirittura inventati, ecco che ti ritrovi in guerra. Questa volta non con armi, trincee, nucleari ma contro un virus, un essere sconosciuto invisibile che ti minaccia e ti rende insicuro, dubitando di te stesso e di chi ti sta intorno. Perché la guerra rende insicuri, un’insicurezza di cui non te ne accorgi finché non ne sei dentro. Quando le nazioni innalzavano muri, chiudevano le frontiere, arriva un virus che ci costringe a velocizzare quel processo ma per la ragione opposta: difendere il prossimo. Quei confini con quei Paesi che ancora crediamo alleati. La sensazione che provo è quella di impotenza, colpa, minaccia, paura e di perdita. Questa parte della storia ci informa che siamo tutti sulla stessa barca, che chiunque può essere colpito, sia il povero che il ricco. Questa crisi ci accomuna, questa battaglia potremmo vincerla insieme soltanto se ognuno di noi si responsabilizza e si prende cura del prossimo. Forse quello che avevamo perso di vista è proprio il concetto del prendersi cura, perché la diffidenza che una certa propaganda politica ci aveva incitato ad avere ci ha condotti a non percepire più l’altro, dove l’altro siamo tutti noi.

Digerire

Mi chiamo Anita Likmeta, sono arrivata in Italia 16 anni fa. Sono l’esempio perfetto di quello che accade oggi nel mondo. Io sono una immigrata proprio come quegli egiziani, libici, somali, etiopi che stanno ammassati in centri che sembrano dei veri e propri campi di concentramento. Io sono una delle migliaia di persone, non rifugiati politici, non profughi di guerra, non immigrati clandestini, ma persone che anni fa hanno attraversato il mare su un barcone, sperando di trovare in Europa qualcosa di meglio rispetto allo scenario di morte che lasciavo. Io vengo dall’Albania. A casa mia c’era la guerra civile, e voi per fortuna non lo sapete, non lo sapete più cosa è una guerra civile. Non sapete più cosa vuol dire quando ci si ammazza tra fratelli, tra cugini, tra vicini di casa, tra un paese e l’altro. Si spara a vista, a qualunque cosa si muova, si entra nelle case, si fanno i rastrellamenti, si stuprano le donne. Così iniziava il mio breve racconto che parlava del mio viaggio pubblicato dal giornale “Il Fatto Quotidiano” il 13 ottobre 2013. Dal giorno in cui pubblicarono questo articolo sono accaduti molti avvenimenti, addirittura anche la televisione mi ha cercata, la mia storia ha fatto un giro incredibile e per me è stato del tutto inaspettato. Ricordo il giorno in cui negli studi di Sky Tg24 mi ospitarono, ricordo i volti dei ministri della Lega, ricordo i loro sguardi nella sala d’attesa. In quel momento alla mia mente sovvenne una frase che il ministro inglese Winston Churchill sosteneva: “I Balcani producono più storia rispetto a quanto ne riescono a digerire”. Ecco la parola digerire mi porta a riflettere molto. Io non ho mai digerito quel modo di guardarmi di talune persone. Non ho mai compreso il motivo per cui negli occhi di chi scrutavo si leggesse una certa predisposizione alla pena, cioè non parlo della ‘pietas umana’ in quanto solidarietà e commossa partecipazione che si può provare nei confronti del dolore degli altri, ma forse più pena come una sanzione giuridica comminata a conseguenza della violazione di un precetto di diritto. È importante per certe persone far comprendere la realtà delle cose. Emanciparsi dalla propria realtà culturale e sociale non è abbastanza, ma ancora di più non è abbastanza se si tratta di una donna. Talvolta mi chiedono “di dove sei?” e io “…vengo dall’Albania” e capisco subito da quel rigurgito l’impertinente pregiudizio. Potrei andare oltre e raccontarvi tanti piccoli episodi di svariata natura e della bassa moralità di talune persone influenti che mi hanno cercato o di chi con sfacciataggine si è proposto ma non ho voglia di fare la sbruffoncella da quattro soldi, non ne ho il tempo. L’oscurantismo, la misoginia nera della vecchia Europa cattolica, chiusa, medievale e assolutista talvolta non ha nulla da invidiare alla peggiore pratica del fondamentalismo islamico. di Anita Likmeta su The Huffington Post