Russia

L’Europa è in guerra

C’è una guerra in Europa. Una guerra nella quale a morire sono solo i migranti, scappati dalla parte sbagliata della storia e ammassati in migliaia al confine tra la Polonia e la Bielorussia. Stanotte è morto un bambino di un anno, assiderato nei boschi polacchi, mentre i suoi genitori erano feriti. Ora sentiremo le dichiarazioni commosse di tutti i capi di stato europei, esattamente come accadde con Aylan, il bambino morto sulle coste turche nel 2015. Una storia che si ripete e che affonda le sue radici nella perenne, sempre rinnovata guerra fredda tra USA e Mosca. Una storia antica, quasi un archetipo che torna allo scoperto ogni volta che le contingenze politiche e geopolitiche ne fanno affiorare la struttura. Come l’Ucraina, anche la Bielorussia è un paese cuscinetto della Russia, parte integrante prima dell’URSS e ancor prima dell’impero zarista. La storia si ripropone nell’estate 2020, quando in Bielorussia viene eletto Lukashenko, nonostante le fondate accuse di brogli elettorali. Da quel momento, i movimenti di liberazione bielorussa, come accadde in Ucraina e in Georgia, furono stroncati dalla Russia che ad oggi continua a elargire fondi e aiuti mantenendo vivo il governo Lukashenko, e mantenendo la Bielorussia all’interno della sua area di influenza. Mosca è riuscita dunque a creare uno stato cuscinetto che le è indispensabile non solo a fini difensivi, ma anche per mettere in atto la sua tattica di destabilizzazione in Europa. A questo fine, con l’aiuto della Turchia, la Russia ha favorito e permesso il trasporto di migliaia di migranti fino al confine con la Polonia. La morale di questa triste storia è che la lotta fra i due imperi, quello Russo e quello Americano, trova infine un punto strategico comune: indebolire l’Europa per avere campo libero negli scenari mediorientali. I governi destrorsi che tanto stanno destabilizzando l’Europa a Est, sono funzionali alla politica estera degli Stati Uniti, che cerca di sovrastare l’espansione russa verso quest’area avendo tutto l’interesse a contrapporre i nazionalismi esacerbati del Gruppo di Visegrad all’aggressività politico economica russa. In breve, mentre Mosca cerca di operare una politica di penetrazione in Europa, gli USA tentano di limitarne le manovre e di farla arretrare a Est. Come sempre, la partita si gioca naturalmente sulla pelle degli ultimi. Di questi paria della terra che si trovano schiacciati fra due fuochi, come scudi umani di cui in realtà a nessuno importa. In termini tattici l’Europa ha l’opportunità di gestire questa situazione utilizzando i Balcani Occidentali, ad esempio l’Albania che può diventare la chiave di volta n quest’area a tutti gli effetti europea, in grado di garantire un tempo sufficiente a distendere i rapporti e temporeggiare sulle scelte da intraprendere nelle prossime settimane e mesi. E poi è ora che l’Europa -tanto attiva a parole ma che non si è dotata di una politica comune sulla questione migrazioni- si dia da fare su un problema tragico e urgente. Fino ad ora l’Europa ha mostrato poca sostanza proprio sul terreno che dovrebbe appartenerle: quello dell’accoglienza, dei diritti, dell’attenzione agli ultimi. Nella grande, e spietata, partita geopolitica l’Unione Europea, fa la parte dell’inetto sveviano o musiliano, se non quella dell’assente beckettiano. Assistiamo dunque a una guerra di posizione e logoramento, che prende forma giorno dopo giorno, favorita dall’incapacità dell’Europa di contrapporre una politica estera comune e sostanziata da mezzi effettivi e deterrenti tali da scoraggiarne il perseguimento. Fa bene, il presidente del Parlamento europeo, David Sassoli a commentare su Twitter: «Lo sfruttamento dei migranti e dei richiedenti asilo deve cessare, la disumanità deve cessare». È un appello e una presa in carico di responsabilità. Ed è ora che alle parole seguano i fatti.

“Mario, come here!”. Vieni fra noi, prima che sia troppo tardi

Il G20 è stato un successo insomma, tutti per uno e Draghi per tutti. Ma sì, siamo stanchi. Rilassiamoci un po’, mentre le signore fanno shopping in Via Condotti. La dolce vita, la grande bellezza! Tanto pericoli non ce ne sono: abbiamo ottomila macchine di scorta, servizi segreti, legioni di poliziotti e tiratori scelti. E voi siete tutti lì a chiedervi cosa ne è stato di questo G20. A saperlo… È una di quelle domande inutili che ormai si ostina a fare solo il Vaticano, con la solita incomprensibile preoccupazione per gli ultimi della terra. Noi di fatto abbiamo lavorato, ci siamo impegnati a salvare questo mondo ripiegato su se stesso. Sono la Cina e la Russia che non ci hanno messo la faccia. Noi invece abbiamo recitato la nostra parte, ciascuno con la sua maschera: chi per il clima, chi per la pesca, chi per i dazi. E poi lo abbiamo chiamato “bene comune”. È stato un successo insomma, tutti per uno e Mario per tutti. Che aria tirerà sui nostri continenti nei prossimi mesi? Certamente non spariranno le guerre, i femminicidi, la fame, la pandemia, le deforestazioni, le inondazioni, le mancanze dei diritti civili e di lavoro. E non basteranno la monetine gettate nella fontana a rimettere in sesto il debito degli ultimi. Ma è stato proprio mentre la limo si allontanava, che abbiamo sentito una voce levarsi dalla folla che seguiva il corteo: “Mario, come here!” Perché lo sapete: amiamo l’Italia, la sua strepitosa cucina. Amiamo Roma, il cinema italiano dell’età d’oro. Anita nella fontana, Mastroianni, il grande Fellini. “Mario, come here!”. Sì, vieni qui Mario, scendi fra noi, prima che sia davvero troppo tardi.

Ex Jugoslavia, 1989. Ph. Steve McCurry.

I Balcani negli interessi delle vacche grasse

di Gëzim Qadraku Sono trascorsi ormai più di venti anni da quando la Jugoslavia iniziò a sbriciolarsi a causa di una delle più brutali guerre dell’ultimo secolo, tutte le realtà che la componevano avevano intrapreso la strada verso l’indipendenza. Nonostante la suddivisione della ex-Jugo in sette Stati, quando si parla di Balcani, si fa ancora riferimento – soprattutto – a quel blocco che costituiva la Repubblica Federale Socialista di Jugoslavia. Quel blocco era governato da Josip Broz Tito, l’uomo capace nel miracolo interno di mantenere insieme popoli di lingue, etnie e religioni diverse, ma anche in ambito internazionale, mantenendo una posizione “neutrale” tra quelle che erano le due superpotenze mondiali dell’epoca: Stati Uniti d’America e Unione Sovietica. Fu Tito infatti, insieme a  Nehru, Sukarno, e el-Nasser a prendere l’iniziativa per formare il movimento dei Paesi non allineati. Un impegno il loro, che aveva come scopo la protezione degli Stati che non volevano schierarsi o essere influenzati dai due giganti mondiali. Nonostante le condizioni della regione balcanica siano completamente cambiate in questi anni, i Paesi che la compongono sembrano poter ambire a giocare un ruolo importante in termini di politica internazionale. Nell’ultimo periodo infatti, parlando di Balcani, l’argomento principale al quale si fa riferimento è l’entrata nell’Unione Europea di tutti gli stati della penisola. Eppure all’inizio del suo mandato, Jean Claude Juncker, Presidente della Commissione europea, la pensava in maniera molto diversa rispetto agli ultimi tempi, nei quali ha addirittura previsto una possibile data, quella del 2025, come anno nel quale l’UE potrebbe allargarsi a 33 membri. Ad avere inciso sul cambiamento di veduta della situazione sono stati fattori esterni che non erano stati previsti da Bruxelles. Mentre l’Unione Europea non prendeva in considerazione i Balcani, questi diventavano il principale corridoio di entrata per l’immenso flusso di migranti provenienti dal Medio Oriente, dando così vita alla crisi migratoria che ha messo in difficoltà le istituzioni europee, a cavallo di un altro episodio piuttosto scomodo: la Brexit. Infine, come pericolo maggiore per gli obiettivi di Bruxelles nella regione, sono arrivati gli investimenti e l’interesse di tre attori internazionali non indifferenti: Russia, Turchia e Cina. Ognuno dei tre ha nella zona un proprio modo di agire e specifici progetti. È utile quindi analizzare singolarmente ogni Paese. Partendo dalla Russia, che nell’area balcanica ha sin dai tempi della guerra giocato un ruolo cruciale, per poi proseguire nel post-conflitto come supporto principale della Serbia, soprattutto nella delicata questione Kosovo, essendo insieme alla Cina, uno dei due Paesi del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite a non aver ancora riconosciuto il Kosovo come Stato indipendente. Mosca inoltre gioca un ruolo cruciale nei Balcani dal punto di vista dei rifornimenti, per il grande flusso energetico che mette a disposizione. Vi è inoltre un legame di tipo identitario con alcuni popoli della penisola, i quali si sentono molto vicini alla Russia, come serbi, macedoni e bulgari, che ne condividono la religione. Restando sul tema del legame identitario, a beneficiare di questa comunanza è la Turchia, la quale porta avanti la dottrina del “neo-ottomanesimo”, cercando di espandere la propria influenza soprattutto nei Paesi come Bosnia e Kosovo, grazie proprio alla condivisione della religione islamica. Due Paesi nei quali l’intenzione di Ankara è quella di investire in maniera massiccia. Inoltre, negli ultimi tempi, il governo turco ha intensificato i contatti e i rapporti commerciali con Belgrado, la capitale serba che dovrebbe essere collegata a Sarajevo, grazie ad un’autostrada o una superstrada. Ad occuparsene sarà proprio la Turchia, che potrebbe in questo modo giocare un ruolo decisivo da intermediario nel miglioramento e nel riavvicinamento dei rapporti tra serbi e bosniaci musulmani. Ma se questo della strada è ancora un progetto teorico, tra Belgrado e Ankara gli accordi commerciali vanno a gonfie vele, con un volume che avrebbe sfiorato il miliardo di dollari nel 2016, secondo i dati OEC. I maggiori settori che legano i due Paesi al momento sono quello metallurgico, tessile e alimentare. Per quanto riguarda il Kosovo invece, la Turchia è, insieme alla Svizzera, il Paese straniero che più ha investito nel giovane Paese balcanico. È di opera turca l’autostrada che collega Prishtina all’Albania. Ma Ankara non si limita ad investire nello sviluppo infrastrutturale, bensì anche nel campo culturale, nel quale si è impegnata a ristrutturare diverse opere ottomane presenti sul territorio kosovaro, chiedendo inoltre di rivedere nei testi scolastici la descrizione dell’impero ottomano. Parallelamente alla politica voluta da Erdogan a Prishtina, c’è stata negli ultimi anni l’apertura di diversi istituti scolastici privati sul territorio, ad opera delle fondazioni vicine a Gülen, nemico numero uno di Erdogan, il quale continua a chiedere la chiusura di queste scuole, le quali sono state nel frattempo fatte costruire anche in Albania, Bosnia e Macedonia. Istituti che nel tempo sono diventati sempre più aperti al mondo internazionale, dove le èlite decidono di mandare i propri figli, come per esempio il presidente del Kosovo Thaçi. L’ultimo dei tre protagonisti è la Cina, l’unico Paese a non avere alcun legame identitario con la zona. Particolare di poco conto, in quanto i cinesi sembrano interessati esclusivamente a fare business. La destinazione principale delle loro attenzioni fino a questo  momento è stata la Serbia, dove il denaro di Pechino non è arrivato in forma di investimenti, ma di prestiti. La presenza degli asiatici viene vista come un fatto positivo sia per lo sviluppo, sia per avere un maggiore consenso sulla causa Kosovo. A giocare un ruolo determinante è la posizione geografica della penisola, che permette di fare da collegamento a quella che sarà la nuova via della seta. I cinesi sono interessati ad esportare il più possibile in Europa e per farlo, hanno bisogno dei migliori collegamenti. Ma le volontà della Cina non si fermano qui, in quanto sempre in Serbia, hanno già acquistato diverse aziende e programmano l’apertura di centri di produzione di beni cinesi. Politica questa, che potrebbe portare diversi vantaggi per Belgrado. C’è da considerare anche il rovescio della medaglia, perché se questo interesse ad investire nel territorio è una buona notizia, d’altra parte, le azioni cinesi sono caratterizzate da poca trasparenza, dall’assenza di appalti pubblici e del mancato rispetto degli standard richiesti dall’UE. Terreno fertile che permette al problema principale che affligge i Balcani di ampliarsi, ovvero la corruzione. Concentrandosi ora invece su quella data, il 2025, evidenziato da Juncker come possibile anno della svolta, viene da chiedersi quanto possa essere fattibile e plausibile un’entrata di tutti e sette gli Stati balcanici nell’UE. I problemi sono diversi e non di poco conto, per citarne alcuni, in Paesi come Albania, Bosnia e Kosovo, la popolazione pensa ancora a come lasciare la propria terra per cercare un futuro migliore in Europa. Il numero di richiedenti asilo albanesi nell’ultimo anno è diminuito, ma 22mila richieste sono ancora una cifra importante. In Bosnia invece, pare che nessuno voglia vedere il problema dello svuotamento del Paese, nell’ultimo anno sarebbero state 150mila le persone ad essersene andate. D’altro canto c’è invece la corruzione, immenso grattacapo per tutti i paesi. Poi vi sono le questioni politiche, come per esempio il miglioramento dei rapporti tra Prishtina e Belgrado, punto fermo richiesto da Bruxelles. Mentre l’Albania deve assolutamente trasformare in realtà la tanto attesa riforma della giustizia. Infine la Macedonia deve risolvere la questione che riguarda il suo nome, con la vicina Grecia. Da questa situazione di forte interesse per la zona balcanica potrebbero trarne beneficio gli investimenti che i tre attori esterni sarebbero pronti ad emettere, cifre importanti che l’Unione Europea al momento non è in grado di permettersi. Questa intrusione esterna sta allo stesso tempo allarmando Bruxelles, che vuole subito ricorre ai ripari per ritornare ad essere il protagonista principale nella penisola balcanica. I governi, dalla loro parte, dovrebbero impegnarsi nel risolvere i problemi interni e permettere alla popolazione di poter vivere stabilmente nella loro terra madre. Successivamente, con quella che potrebbe essere l’integrazione europea e gli investimenti turchi, cinesi e russi, i Balcani potrebbero seriamente rifiorire e diventare importanti in tutti i campi.

Angela Merkel.

Angela Merkel, la Cancelliera d’Europa

di Gëzim Qadraku Nella giornata di domenica 24 settembre in Germania si sono svolte le elezioni politiche. I tedeschi sono stati chiamati a votare i nuovi membri del Bundestag e l’esito è stato quello previsto, ma solo per quanto riguarda il vincitore. Angela Merkel ha confermato le previsioni che la davano come favorita, conquistando il maggior numero di voti per la quarta volta consecutiva. Sono stati i numeri di queste elezioni la vera sorpresa, a partire dai partiti vincitori CDU-CSU, che hanno conquistato il 32,93% con 246 seggi, perdendo quindi una percentuale importante del 9% e ben 65 seggi in Parlamento. Al secondo posto l’SPD di Martin Schulz, considerato il grande rivale, che però non è stato assolutamente in grado di dar fastidio alla Cancelliera, fermatosi al 20%, ovvero il peggior risultato della storia del partito socialista. Molto scalpore ha destato il partito classificatosi sul terzo gradino del podio, l’AFD. Per la prima volta dalla seconda guerra mondiale, un partito di estrema destra ottiene seggi all’interno del parlamento tedesco, ben 94. I numeri sono abbastanza chiari, e non si può che parlare dell’ennesima vittoria di Angela Merkel. Capace di conquistare ancora, dopo dodici anni di governo la fiducia di un importante numero della popolazione tedesca. Questa volta però la dimostrazione di forza è minore rispetto alle elezioni precedenti. È stata lei la prima a mostrarsi delusa, in quanto si aspettava una vittoria schiacciante e ha immediatamente dichiarato che si impegnerà a capire i motivi che hanno portato un numero rilevante dei suoi elettori a cambiare idea. Discorso che si collega in maniera istantanea allo storico risultato ottenuto dall’AFD, il partito anti-establishment, contro l’Islam, l’integrazione europea e volenteroso di una migliore relazione con la Russia. Non bisogna commettere l’errore di pensare che in Germania sia scoppiata una voglia improvvisa di nazismo e razzismo. Il 13% dei voti raggiunti dal partito di estrema destra è  arrivato in gran parte della Germania dell’Est, dove sono stati stabiliti il minor numero di migranti, ma che rappresenta quella parte della popolazione che continua a sentirsi esclusa e dimenticata, nonostante siano passati ormai ben 27 anni dalla riunificazione tedesca. Un partito che però ha mostrato immediatamente le sue debolezze, in quanto nel giorno successivo uno dei leader storici, Frauke Petry, ha dichiarato che non farà parte del gruppo parlamentare. Inoltre, la volontà degli altri partiti è quella di isolare e impedire all’estrema destra di essere in grado di condizionare le scelte del Parlamento tedesco. Nonostante l’importante risultato raggiunto dall’AFD, sulla scia che ha portato alla Brexit e alla vittoria di Trump, non ci sono le basi che possano far pensare ad un ulteriore e maggiore successo del partito che incute così tanta paura fuori dai confini tedeschi. Secondo alcuni osservatori da queste elezioni sia la CDU e soprattutto la SPD ne sono usciti fortemente indeboliti, come mai era capitato negli ultimi 60 anni. Occorre ricordare come in passato rappresentavano la quasi totalità dell’elettorato, mentre oggi ne rappresentano, insieme, poco più della metà. La  sfida più grande che aspetta Angela Merkel è quella di creare una coalizione che le permetta di governare. Dopo il rifiuto di Martin Schulz, l’unica possibilità è quella chiamata Giamaica, per i colori dei partiti che andrebbero a formarla, ovvero CDU-CSU, FDP e i Verdi. Una coabitazione che potrebbe rivelarsi problematica, viste le diverse opinioni che i tre partiti hanno sui programmi e sulle politiche ambientali. Queste elezioni mostrano come anche la Germania, la locomotiva d’Europa, non è così forte e sicura come vuole apparire. La differenza sociale è stato uno dei temi scottanti, adottato da Martin Schulz nella campagna elettorale: “Tempo per più equità. Tempo per Martin Schulz”. Considerato il secondo maggior problema secondo la popolazione teutonica, dietro solo all’immigrazione. Nonostante la Germania sia un Paese molto ricco, con uno dei PIL più alti e con il tasso di disoccupazione più basso d’Europa, la disparità tra ricchi e poveri continua ad aumentare. Il 15,7 per cento della popolazione è considerato a rischio povertà, mentre il 14,7 è già povero. La ricchezza privata dei cittadini tedeschi è più bassa rispetto a quella degli italiani e francesi ed è anche la meno distribuita d’Europa. Basti pensare che il 40% della popolazione possiede meno dell’1% della ricchezza privata del Paese. Un dato curioso è il fatto che la Germania sia uno dei Paesi con la percentuale più bassa di persone che hanno una casa di proprietà, a dispetto dell’Italia, che si qualifica prima in questa classifica che riguarda l’Europa. Occorre sottolineare come uno degli aspetti più positivi dello Stato tedesco – ovvero la disoccupazione media che si aggira intorno al 5,5%- sia  “dopato”, in quanto vengono considerati occupati anche coloro che svolgono un minijob. Il minijob è un lavoro che permette di guadagnare fino a 450 euro lavorando al massimo una quarantina di ore al mese. Uno stipendio con il quale risulta impossibile vivere e che sarebbe l’ideale esclusivamente per i giovani studenti, permettendo loro di pagarsi gli studi. Il Financial Times riporta 7,5 milioni di tedeschi minijobbers. Se per i sostenitori questo tipo di mansione ha creato più possibilità lavorative, secondo gli oppositori sta rimpiazzando i lavori a tempo pieno. Per chi invece ha un impiego a tempo pieno, la probabilità che sia un Leiharbeiter è molto alta. Costui è un lavoratore che viene “affittato” da una Leihfirma – azienda che recluta persone – che molto spesso non è interessata a qualità o capacità del lavoratore, ma il cui unico obiettivo è riempire i buchi che le aziende hanno in quel momento. Quindi una persona stipula il contratto con la Leihfirma e non con l’azienda per la quale lavorerà. Ciò comporta che l’occupazione sarà sicuramente a tempo determinato, che la paga non potrà essere delle eccellenti, anche se esiste la possibilità che l’azienda possa decidere di assumere il lavoratore. Questa è un’ottima chance soprattutto per chi arriva in Germania e ha necessità di trovare immediatamente un lavoro per risolvere i problemi come residenza e assicurazione sanitaria oppure per i cittadini tedeschi con un livello basso d’istruzione. Anche in questo caso però i numeri sono in forte aumento, nel giugno dell’anno scorso erano un milione i leiharbeiter. Questo stratagemma conviene molto alle aziende, in quanto non hanno bisogno di spendere tempo e denaro necessario alla ricerca del personale e possono liberarsene immediatamente dal momento in cui non ne hanno più bisogno. Le Leihfirma assicurano l’entrata nel mondo del lavoro, ma non la permanenza. Riconquistare la fiducia dei tedeschi dell’Est, la gestione del flusso dei migranti, migliorare il sistema del lavoro e impedire all’estrema destra di crescere. Si prospettano quattro anni molto impegnativi per Angela Merkel.