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Raffaele Gaito.

Raffaele Gaito: il #GrowthHacker italiano

di Ivano Mugnaini Scrivere una nota di lettura su questo libro senza essere un addetto ai lavori è una scommessa che confina con la follia. Anzi, il confine lo supera serenamente senza curarsi delle urla delle guardie di frontiera. Scriverò qui le mie impressioni di lettore, di profano del settore ma utente del web, curatore di un sito e di un blog e appassionato di tutto ciò che è tecnologia. In genere scrivo recensioni per libri di narrativa o poesia. In questa occasione mi trovo a parlare di un libro che tratta di tecniche specifiche e di strumenti finalizzati alla crescita del business. Un noto magistrato e uomo politico avrebbe sicuramente esclamato “che c’azzecca?!”, a questo punto. La risposta che nasce spontanea è “niente”. Un’analisi più accurata invece tende a modificare notevolmente di segno la risposta fino a farla giungere all’estremo opposto. Dopo aver letto il libro di Raffaele Gaito mi è venuto spontaneo affermare che c’azzecca molto. Nel processo di modifica a cui si è fatto cenno, e nelle modalità con cui si è attuato, sono contenuti alcuni dei termini fondamentali della questione: l’analisi accurata, innanzitutto, e la capacità di sorprendersi, e di sorprendere, accogliendo l’inatteso, l’elemento fuori schema che sa essere catalizzatore e creatore di energie nuove, nuovi punti di vista e prospettive potenziali per le idee e per le azioni che le rendono fattive, adatte al contesto e, quindi, di successo.  Faccio un passo indietro per mettere a confronto alcuni dei cardini della scrittura letteraria con quello che ho trovato in questo libro incentrato sul Growth Hacking. La narrativa tende ad “affabulare”, a creare attesa, attenzione, concentrazione ed empatia. Ossia, si tende a immedesimarsi con ciò che accade, si confronta la propria esperienza personale con quella dei personaggi e si è portati a chiedersi costantemente come ci si sarebbe comportanti di fronte ad un problema identico o ad un simile esigenza e circostanza. La poesia, sia a livello di linguaggio che di pensiero, tende alla sintesi, a cogliere un aspetto o un simbolo che racchiuda in sé la conciliazione di due aspetti contrastanti, oppure coglie qualcosa di inatteso, scardina la routine e gli schemi consolidati e porta ad una comunicazione rapida e densa, una specie di cortocircuito. Ecco, nel libro di Gaito c’è la capacità di catturare l’attenzione e la volontà di suggerire percorsi nuovi, non per il semplice gusto di prendere strade traverse ma per la consapevolezza che quei percorsi possono rendere il passo rapido e condurre a terreni fertili e assolati.  Growth Hacker è un libro scritto con la necessaria chiarezza, in modo razionale e ben organizzato. Ma non è un libro noioso, non è un manuale freddo e distaccato. È, al contrario, un modo per trasmettere a chi legge lo stesso entusiasmo che ha consentito all’autore di scoprire quelle metodiche ma soprattutto quella forma mentale che lo hanno ispirato e guidato fino ad essere nelle condizioni di poter scrivere un libro sull’argomento specifico. La presente frase, complessa e ondivaga, mira ad esprimere in realtà un concetto molto lineare: Gaito parla con i propri lettori di ciò che sa fare bene, di ciò in cui ha avuto ed ha successo, con e grazie all’entusiasmo e alla passione che lo ha ispirato. Tutto ciò si percepisce. Il tono non è quello di chi tratta una materia fredda, aliena. È quello di chi ancora oggi scopre, sperimenta, e, starei per dire, anzi, lo dico, si diverte. Un gioco serio, in cui sono in ballo tanti soldini e la sorte di molti individui e aziende. Ma pur sempre un gioco nell’accezione più vera e più nobile del termine: la sfida, con se stessi e con il mercato, con gli ostacoli dell’immobilismo e della burocrazia, con la concorrenza vasta e agguerrita, con un sistema che non sempre tende a premiare intelligenza e capacità di innovazione. Eppure, si sa, quando il gioco si fa duro… Con estrema serietà, ma senza mai smettere di sorridere, Gaito chiama in causa i suoi lettori, li avverte che per vincere serviranno attenzione scrupolosa alle regole e alle strategie che le rispettano e le superano, li avvisa che ci vorrà molto coraggio e anche una giusta dose di faccia tosta, e, non ultimo, rende chiaro che nessun manuale potrà mai bastare se non c’è immensa passione, dedizione, tecnica e fantasia. Il linguaggio del libro è denso di termini in inglese, necessari, come strumenti specifici non sostituibili. Non c’è mai però un indulgere compiaciuto né un ammiccamento come a voler limitare il più possibile la cerchia dei “sacerdoti egizi” in grado di comprendere i sacri geroglifici. Ogni termine tecnico ha una sua funzione e viene sempre adeguatamente sviscerato ed esplicitato in modo da renderlo comprensibile e quindi fruibile a chiunque. Il libro ha, potremmo dire, nella successione accurata e progressiva dei paragrafi, una sua “trama”. Un punto di partenza e uno di arrivo, un esordio e un finale. L’epilogo, se tutto verrà accuratamente ed efficacemente assimilato, sarà la creazione di soggetti consapevoli e competitivi sul mercato. Accadrà la realizzazione di strategie di successo e la realizzazione di startup in grado di ritagliarsi spazi e conquistare i mercati. Una definizione, e quindi un fatto puramente linguistico e comunicativo, offre forse una delle chiavi più efficaci per interpretare lo spirito, l’intento e la natura del libro. Il termine “startup” non viene associato a nuova iniziativa o a realtà emergente e via dicendo. Viene esplicitato identificandolo in modo immediato con un concetto che è anche una realtà concreta: la crescita. Non si tratta di una distinzione di poco conto. Indica il focus del libro: non la limitata attenzione sullo scontato e sul già ampiamente metabolizzato ma, al contrario, la ricerca di un nuovo modo di vedere, puntando ad orizzonti più ampi. Il libro abbina precisione tecnica e capacità di comunicazione. La consapevolezza è che la sfida si svolge soprattutto dell’ambito del “come”. Non basta fare, necessita saper dire quello che si fa, perché e in che modo, appunto. La forma è sostanza. E altrettanto necessario è sapere innovare senza scordare la forza della tradizione, come diceva lo storico dell’economia Carlo Cipolla “L’Italia ha successo nel produrre all’ombra dei campanili cose che piacciono al mondo. Tuttavia, oggi per parlare con il mondo abbiamo bisogno di solcare nuove strade, nuove acque, cammini che potranno essere percorsi con sicurezza dai pirati della crescita”. In termini essenziali, questo libro parla di una rivoluzione; incruenta e in grado di offrire spazi e territori a tutti senza creare riserve indiane e stragi di nativi, e questa rivoluzione si chiama #growthhacking. Nato tra i coworking della Silicon Valley, dove startup con poche risorse erano costrette a fare numeri da capogiro per convincere i loro investitori, il growth hacking ha pian piano invaso aziende di ogni tipo. Piccole e grandi. Hi-tech e non. Ha portato all’interno di esse un approccio completamente nuovo al marketing, un approccio esclusivamente data-driven e basato al 100% su esperimenti. Questo libro, quindi, è il racconto di questa rivoluzione, ma è anche uno dei mezzi per realizzarla, uno strumento, un’arma incruenta con cui ogni lettore può portarla avanti. Tra i vari capitoli ci sono episodi realmente accaduti, storie vere di piccole startup che sono diventate colossi. Il valore è monetizzazione, vantaggio economico, ma è anche patrimonio di conoscenza, trasmissibile, ereditabile, un patrimonio personale e condivisibile. L’Odissea e l’Iliade dei nostri giorni. L’approdo è un ‘isola in cui condurre un commercio florido e di successo essendo allo stesso tempo al sicuro dai pirati e aperti alla comunicazione e allo scambio con tutte le rotte commerciali più vive e interessanti. Non è tuttavia un approccio favolistico e arcadico quello proposto da Gaito: il libro non nasconde che per giungere alla meta sono necessari impegno e volontà. E non descrive il Growth Hacking come panacea di tutti i mali o come la pietra di paragone. Descrive con oggettività le potenzialità dello strumento, indicando che se ben utilizzato può fornire vantaggi tangibili. Gaito ci informa che, a differenza di ciò che accade oltreoceano, nel nostro paese il growth hacking è un fenomeno relativamente recente e in progressiva crescita. Proprio per questa ragione comprenderne i meccanismi e utilizzarli adeguatamente può essere estremamente utile e proficuo: “Comprendere il growth hacking è, a mio avviso, uno step fondamentale per avere un concreto vantaggio competitivo nei confronti dei propri competitor e per lavorare alla crescita del proprio business in maniera metodologica, quasi scientifica, senza lasciare nulla al caso. Quello che ho fatto è stato di provare a mettermi nei panni del lettore e dargli uno strumento sia strategico che operativo basandomi sull’esperienza personale accumulata con progetti miei, quelli dei miei clienti e dei miei studenti. Avendo un unico obiettivo in mente: creare valore per chi lo legge!” Il valore è monetizzazione, vantaggio economico, ma è anche patrimonio di conoscenza, trasmissibile, ereditabile, un patrimonio personale e condivisibile. Questa considerazione ci riporta al dubbio iniziale di questa mia breve disanima: ossia se un profano possa o meno approcciarsi a questo libro. In termini più ampi riguarda la potenziale audience, i destinatari di questo volume. Con molta chiarezza ci viene detto, anzi raccontato anche questo. O meglio, viene messo in pratica: “questo libro è rivolto a chiunque abbia un business, non necessariamente digitale. È rivolto ai founder delle startup, ma anche agli imprenditori tradizionali. È rivolto ai marketer, sia ai free-lance sia alle agenzie. È rivolto a tutti quelli che nella propria azienda si occupano di marketing o di prodotto. È rivolto a tutti gli studenti che si affacciano ora al mondo del lavoro e vogliono investire su uno dei trend principali del marketing e del business”. In pratica, possiamo dire, questo libro è rivolto a tutti. E lo sarà ancora di più negli anni a venire, quando la tecnologia svolgerà un ruolo sempre più ampio e determinante, non solo nel commercio ma nella vita di tutti i giorni. Quando vita e business saranno legati in modo ancora più stretto dal filo del web, dalla connessione on line. Tutti noi abbiamo l’intento di promuovere un’idea, un prodotto, un’iniziativa. Non di rado quell’idea e quel prodotto siamo noi stessi. Non in senso metaforico ma in senso stretto. Promuoviamo ciò che pensiamo e ciò che facciamo, i pensieri resi intento comunicativo, metodica e strategia per incuriosire, attrarre, catturare attenzione e generare passione, entusiasmo. Questo libro parla di tutto ciò. È un lungo e dettagliato racconto su come trasformare le idee in qualcosa che cattura lo sguardo e la mente degli altri. Qui si parla specificamente di clienti, ma potremmo anche dire lettori, comunicatori, partner, ricettori all’altro lato del filo invisibile ma vibrante della comunicazione. Chiudo questo excursus facendo riferimento a un episodio narrato nelle pagine iniziali che rende bene il gusto (è il caso di dirlo) e il senso di ciò che il libro fa e invita a fare. L’episodio fa riferimento ad una gara, il Nathan’s Hot Dog Eating Contest, il cui vincitore è colui che riesce a divorare il maggior numero di hot dog in un tempo prestabilito. Per farla breve, Takeru Kobayashi, un giovanotto giapponese neppure troppo corpulento riesce non solo a sbaragliare la concorrenza ma a polverizzare tutti i record precedenti. Non diventando più veloce ma cambiando totalmente la tecnica: separando i wurstel dal panino e ammorbidendo il pane con l’acqua. Con un nuovo approccio e senza violare il regolamento, riesce a stravincere. Ecco, questo libro è una lunga, divertita, serissima e appassionata spiegazione del modo in cui imitare Takeru Kobayashi. Senza dannarsi ingoiando lavoro inutilmente fino a soffocarsi. Ma imparando piuttosto a capire come fare per comprendere a fondo le regole e inventando nuovi metodi per innovarle. Si vince con il cervello, non con i muscoli e le mandibole. Kobayashi ha masticato più con le meningi che con i denti. Lo stesso faranno i lettori di questo libro. Che si tratti di hot dog o di fette di mercato, imprese e business, lo scopo è lo stesso: battere la concorrenza. Ciò che conta è il mindset, la filosofia. E la storia, la trama di questo libro, riguarda proprio questo: il modo in cui rendere la filosofia pratica concreta. [/vc_column_text][/vc_column][/vc_row]

Antonio Ferraro - Shambles

Antonio Ferraro: il rapporto fra influencer e brand e la startup Shambles

Sei giovane, sei campano, una laurea triennale alla Università degli Studi del Sannio-Benevento e un Master degree in Economia e Direzione Imprese alla Luiss Guido Carli. Stagista presso la Banca del Mezzogiorno e successivamente hai lavorato nell’area di programmazione comunitaria in Invitalia, ma questo non ti ha fermato dal coltivare e lavorare al tuo sogno che hai in tasca: shambles media. Raccontaci un po’ di te ma soprattutto di Shambles. Come sei riuscito ad avviare il progetto? Chi ti ha aiutato economicamente all’inizio? Sul mio percorso hai già detto tutto tu. Ho avuto la possibilità di conoscere le dinamiche del sistema universitario sia pubblico che privato e di lavorare in una grande realtà aziendale come Invitalia. E nonostante mi trovassi benissimo con il Team di Lavoro e l’Azienda in generale, ho preferito lasciare per dedicarmi a tempo pieno a Shambles. Evidentemente non avendo le competenze per sviluppare una piattaforma mobile, ho ricercato una software house in grado di accompagnarmi in questo percorso. Dopo varie ricerche e cambi in corsa, ho trovato un’azienda di sviluppo con cui c’è stata sintonia fin da subito, tant’è che a breve entrerà anche nella compagine societaria. Per quanto riguarda il finanziamento del progetto, ci ho creduto in prima persona investendo i risparmi accumulati con il mio lavoro in Invitalia. Inoltre hanno creduto ed investito in Shambles, mio fratello Danilo ed i miei amici Saverio Marro e Marcello Befi. Ed ora che Shambles non è più soltanto un progetto su carta ma un prodotto che inizia ad avere i primi utenti e clienti, stiamo cercando nuovi finanziatori con l’obiettivo di continuare a crescere. Anche per questo motivo da un mese è entrato in società una figura esperta come Jacopo Paoletti che ci farà da advisor e si occuperà dell’Area Marketing. Passando a parlare invece del contenuto del vostro Progetto, ci spieghi cos’è Shambles e come funziona la Piattaforma? Siamo una community di social influencers e brandlover che lavora insieme per  creare contenuti autentici per i brand. Con la nostra innovativa piattaforma mobile diamo la possibilità ai nostri influencer di modificare le proprie foto con il logo del brand che intendono condividere ed un testo orginale, creando così delle vere e proprie immagini pubblicitarie. Le foto, così modificate,  vengono condivise su Shambles, che è anche un social network, e sui principali canali social. Instagram e Facebook su tutti.  È aperta a tutti? In questo momento sì, ma sono in cantiere diverse novità, tra le quali rientra, probabilmente, l’implementazione di un sistema ad inviti per mantenere elevata la qualità dei contenuti condivisi. Ci sono piattaforme app che assomigliano a Shambles? Anche se in maniera diversa rispetto a Shambles, ci sono diverse piattaforme che si propongono di mettere in contatto brand ed influencer. E questo è un bene perché significa che c’è mercato. Noi puntiamo tanto sulla nostra community e sul nostro editor photo che stiamo continuando a migliorare con l’obiettivo di dare la possibilità ad i nostri utenti di realizzare contenuti unici. Perché un’azienda dovrebbe trovare interessante questo nuovo modo di fare pubblicità? Potrebbero contattare, come già fanno, direttamente gli influencer. E’ vero, possono farlo. Ma questo è comunque un lavoro che gli porta via tempo. Invece rivolgendosi a noi, potranno contare su una community già selezionata. Ed è proprio la community, in questo momento, ad essere il nostro valore aggiunto. Facciamo un lavoro certosino, quasi ossessivo nella selezione dei nostri influencer. Ci concentriamo molto sulla qualità dei contenuti condivisi e sulla reach che riescono a garantire. Quindi le aziende che si rivolgono a noi hanno piena garanzia sulla qualità dei contenuti e sulla reach che questi conseguiranno. Un’altra curiosità riguarda la tipologia di contenuto condiviso. Perché brandizzare le foto? Su Social come Instagram, l’attenzione dedicata ad un singolo post non è altissima e l’utente che lo visualizza potrebbe perdersi nei vari elementi e dettagli catturati nell’immagine condivisa. Invece, una foto con all’interno un logo ed un testo colorato oltre ad essere più divertente e stimolante per la creatività di chi il contenuto dovrà generarlo, mette in primo piano l’azienda condivisa. In sostanza, crediamo che questo tipo di condivisione possa avere maggiore impatto nei confronti non solo del singolo utente che visualizza il post, ma anche nei confronti dell’influencer che condividendo un post con il logo ed un claim originale, inizia a sentirsi pienamente identificato con il brand.  Ci sono già delle aziende che hanno accettato di entrare nel mondo Shambles Media? Sì, Stiamo avviando diverse collaborazioni. Con alcuni brand si sta creando anche un rapporto di lungo periodo. Ci tengo a ricordare la nostra prima collaborazione con Salvatore Martino, fondatore di President Fashion. Un marchio che sta crescendo rapidamente sul panorama nazionale e non solo. La pagina instagram @by_president_1 è oggi popolata da molte foto condivise dai nostri influencer. Questo dimostra di come il Brand abbia apprezzato il lavoro nostro e dei nostri influencer. Un’altra collaborazione che mi fa piacere raccontare è quella con Splesh Tee. Un marchio estroso, che a me piace definire frizzante. Uno splesh di colore e creatività, esattamente come il suo logo. Con i ragazzi di Splesh ci siamo trovati subito perché, oltre a condividere l’età e l’esperienza universitaria, condividiamo la volontà di provare a crescere nel nostro Paese. Appunto. Fare impresa in Italia non potrebbe costituire un limite? Certamente il nostro Paese offre poco. Però questo potrebbe rappresentare un vantaggio per noi. Noi giovani siamo abbandonati a noi stessi, con poche possibilità di lavoro e ancor meno possibilità di carriera. Quindi non avendo alternative valide in ambito lavorativo, fare impresa diventa quasi una necessità per poter crescere e contribuire a far crescere un’Italia, che nel frattempo lavora, spero inconsapevolmente, per tapparci le ali. Tornando agli Influencer, avrei una piccola curiosità. Cosa risponde a chi critica questa nuova figura, ritenendola superficiale ed eccessivamente orientata alle apparenze? Credo che la bellezza vada condivisa e che chi ha la capacità di produrre contenuti carini in grado di suscitare emozioni positive, abbia il diritto-dovere di condividerlo con la comunità. Nel periodo di Test di Shambles ho avuto la fortuna di conoscere molti dei nostri influencer. Sono persone tutt’altro che superficiali. Ad esempio Mattia Caon è studente di Economia alla Cà Foscari di Venezia e nel tempo libero studia da fotografo e modello. Condividendo i suoi lavori sulla sua pagina Instagram, dà la possibilità al suo seguito di apprezzarli e lasciarsi ispirare. O anche MariaRosaria Veropalummo, segreteria in uno studio commercialista, che sogna di diventare la prossima Chiara Nasti. Le star Televisive sono sempre esistite. Che male c’è quindi nel sognare di diventare una star del Web? Un’altra curiosità riguardo al vostro nome. Perché Shambles? Sono un appassionato lettore dei libri di Seth Godin. In uno dei suoi libri, “Quel pollo di Icaro”, c’è una frase che mi ha colpito molto: “Le rivoluzioni producono un Caos totale. Ed è proprio questo a renderle rivoluzionarie.” E visto che consideriamo il nostro progetto una piccola rivoluzione nel campo della comunicazione digitale, abbiamo voluto chiamarlo Shambles che in italiano significa, appunto, Caos. Concludiamo con le più classiche delle domande, come ti vedi fra 10 anni? Rispondo con la più classica delle risposte: sinceramente non lo so. Quello che spero è di vedermi ancora a lavorare in Shambles, come e dove non fa molta differenza per me.