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Boeri firma il Riverside: nuovo rinascimento italiano in Albania?

Il rinascimento albanese parte dall’Italia per poi approdare a Tirana, e per la precisione nel nuovo quartiere che prende nome dal fiume che si accinge alla città: il Riverside. Il progetto urbanistico, firmato da Stefano Boeri, vede la partecipazione di un team internazionale come lo studio tedesco Transsolar KlimaEngineering per la sostenibilità, MIC-Mobility in Chain per la mobilità, Esa per gli impianti e SCE Project per progettazione e calcolo strutturale. Abbiamo disegnato il masterplan di Tirana nel 2014 con una serie di zone di sviluppo tra cui quella che sarà oggetto della riqualificazione. Il progetto nasce per dare abitazioni agli sfollati del sisma del novembre 2019. Nonostante il terremoto abbia colpito soprattutto Durazzo e le città della costa, a Tirana molte case sono diventate a rischio tanto da ipotizzare una demolizione. ha affermato Stefano Boeri a IlSole24 Il masterplan, presentato dallo studio Stefano Boeri Architetti in partnership con SON-Group, illustra un quartiere all’avanguardia dove è ridisegnata un’area di 29 ettari a nord della città con annessi grandi parchi e giardini verdi, e compresi circa quaranta edifici residenziali. Il progetto si estende fino a raggiungere la piazza centrale della capitale, la quale non conosceva una rivisitazione architettonica dai tempi della dittatura fascista del Regno d’Italia. Delle quattro aree di sviluppo, la nostra è la prima a partire. Ospiterà circa 13mila persone. Abbiamo scelto di realizzare un quartiere innovativo, all’avanguardia, puntando su efficienza ed autosufficienza energetica, mobilità solo elettrica nel quartiere e una serie di accorgimenti in linea con un mondo post Covid-19. Abbiamo ragionato molto sull’idea che le città debbano funzionare come insieme di borghi entro cui ci si muove a piedi o in bicicletta. afferma Boeri in una intervista a IlSole24 Il nuovo quartiere è una vera e propria Smart City, dotata di aree di incontro per i cittadini, nonché alcune aeree sono dedicate ai laboratori artigianali, ad imitazione dei vecchi borghi italiani. Il progetto da Boeri è multietnico e multiculturale, infatti nel progetto sono inclusi sia una chiesa che una moschea, proprio nel rispetto della tradizione albanese, dove da sempre le diverse religioni coesistono pacificamente nelle comunità. Il programma conta su finanziamenti misti tra il Governo albanese, la Comunità europea e donatori internazionali, tra i quali l’Italia. aggiunge il Presidente del Consiglio albanese Edi Rama a IlSole24 La valorizzazione del progetto urbanistico Riverside si aggira intorno ai 250 milioni di euro. Con l’intervento dei privati il valore del progetto potrebbe salire ulteriormente. Il terremoto ha creato l’opportunità di fare un nuovo quartiere integrato, circa 3mila appartamenti, dove abiteranno persone che hanno perso la casa per il sisma, ma anche giovani coppie per le quali come Comune paghiamo gli interessi del mutuo. spiega il sindaco di Tirana Erion Valiaj a IlSole24 Il 22 giugno 2020 il Consiglio dei Ministri albanese ha approvato il progetto e aperto la gara per affidare i lavori alle imprese appaltatrici. In questa seconda fase c’è l’opportunità per i giovani architetti albanesi, supervisionati da Studio Boeri, di progettare i singoli edifici nel rispetto della tradizione e cultura albanese oltre a coniugare l’area di proprietà pubblica in armonia con le aree dedicate alle piccole medie imprese per il rilancio del Paese. Il progetto rappresenta per Tirana un vero e proprio rinascimento urbanistico Made in Italy, un’opera importante senza precedenti che speriamo non faccia la stessa fine del Teatro Nazionale d’Albania, anch’esso progettato dall’italiano Giulio Berté, ma in epoca fascista.

L’Albania tra turbocapitalismo e terremoti.

Sulla costa orientale dell’Europa, a sud dei Balcani, per la precisione nella città di Durazzo, c’è una lunghissima teoria di case, una appiccicata all’altra che si estende per decine di chilometri. Per chi l’ha visitata negli ultimi anni, la città che si allunga in verticale con arti informi, rimembra la selvaggia Rimini del dopoguerra. Interi villaggi e paesi che si uniscono al lembo della città di Durazzo, come un lenzuolo unico esposto su un grande balcone che si affaccia sull’Adriatico, mare nostrum. Nostro degli albanesi, nostro degli italiani. Durazzo venne fondata nel 627 a.C da colonizzatori corinzi e corciresi con il nome di Epidamno (Ἐπίδαμνος), ma furono i romani, successivamente alle guerre illiriche, a ribattezzarla in Dyrrhachion (Δυρράχιον), poiché, si narra, il vecchio nome fosse di mal auspicio in quanto evocava la parola “damnum” che significa perdita e svantaggio. Ma la città di Durazzo poggia le sue fondamenta su un territorio alluvionale dalla scogliera vulnerabile, ed è proprio questa la vera traduzione di Epidamno e/o Dyrrachion (δυσ-cattiva, ῥαχία – scogliera). Nel V secolo la città venne colpita da un violentissimo terremoto che causò importanti danni ma l’imperatore di Bisanzio Anastasio I, costruì un ippodromo e una possente cinta muraria, alta 12 metri, per proteggere la cittadina. Come riporta lo storico bizantino Giorgio Pachimere, nel 1273, la città venne colpita nuovamente da un feroce sisma, ma la muraglia, che nel tempo era stata ridotta a 6 metri, contenne i danni permettendo a Dyrrachion una rapida ripresa sotto l’aspetto economico e questo grazie anche al Regno di Carlo d’Angio’ che fece di Dyrrachion il più grande centro commerciale per la produzione e lo smistamento del sale. Ma fu il terremoto del 1926 che danneggiò la città in maniera significativa, tale da permettere successivamente una ricostruzione dal taglio più moderno, che è quella che conosciamo oggi. Il 26 novembre 2019 Durazzo sopravvive ad un ennesimo terremoto di magnitudo 6.5, che ha causato la morte di 15 cittadini e oltre 600 feriti. Ma le cifre sono inesatte, destinate a crescere nelle prossime ore e nei prossimi giorni. Dopo la seconda guerra mondiale, sotto il regime hoxhaista, venne realizzata l’autostrada che collega Durazzo a Tirana, ma dobbiamo arrivare agli anni 90, per l’esattezza nel 1998, perché l’Albania conosca il suo risveglio edilizio. In questi ultimi 20 anni i lavori svolti per la ricostruzione del Paese sono stati ingenti, un po’ come per l’Italia del dopoguerra. Neppure le piramidi finanziarie del 1996 sono riuscite a demotivare gli albanesi. Ma oggi, abbiamo capito bene anche noi il vero senso del capitalismo, anzi di questo turbocapitalismo, che in Albania ha edificato le sue radici su un fondale instabile. Lo sanno bene gli albanesi che il territorio che si affaccia sul Mar Adriatico si appoggia su una fragilità idro-geologica che nel corso dei secoli ha turbato la città a più riprese. Come avvengono gli appalti? Che ruolo ha il governo albanese in merito a questo scempio? Qual è la gestazione degli introiti economici che puntualmente volano su Tirana per poi disperdersi in un mare di carta, passando di mano in mano. Le domande sono tante e spinose, ma in Albania funziona così: se tu hai i soldi, paghi e chiedi il condono edilizio. Paghi e sei in regola, paghi e il territorio è edificabile. Una marea di carta che regolamenta il piano edilizio. Insomma, cose che neppure gli oligarchi del 433 a.C, che uccidendo i dissidenti di Dyrrachion e aiutando i corciresi, causarono la prima guerra della Storia antica, conosciuta meglio come la guerra del Peloponneso. Eppure questo territorio fangoso, qual è l’Albania, cerca aiuto, e non può ribellarsi alla dittatura burocratica, al clientelismo, all’ignoranza che imperversa, al silenzio dei pochi a favore dei molti. Avete capito bene, sono molti, perché funziona così questo capitalismo, ti lega a una ragione per cui tu singolo hai qualcosa da guadagnare quando invece è la comunità a perdere. Perdiamo il limite nell’autodefinirci un popolo, nella sua tradizione, nella sua cultura, nell’anima. L’Albania di queste ore non c’e l’ha più. Esseri alogòi che non possono permettersi di sottrarsi al giogo a cui si sono legati. Briciole di umanità verranno sparse in queste ore, ma domani è un altro giorno e tutto verrà dimenticato per una tragedia che sembrerà più grande, che è la tragedia che siamo noi.

L’Albania ha bisogno di albanesi e di Europa!

Il fatto che il Primo Ministro Edi Rama scelga il salotto di Porta a Porta di Bruno Vespa per discutere dei disordini avvenuti nelle ultime settimane in Parlamento a Tirana potrebbe far pensare che la situazione sia più grave di come possa sembrare. Eppure, trovo che sia normale che questi dissidi trovino luogo in un Paese che ha una democrazia così giovane. Trovo fisiologico che ci si scontri, piuttosto che l’opposizione faccia la sua battaglia anche fomentando e portando il suo elettorato in piazza. L’Albania sta facendo un grande percorso di ricostruzione, iniziato 28 anni fa, e da imprenditrice che ha aperto un’azienda nel Paese, una società che si occupa di informatica, penso che il Paese delle aquile sia interessante e che offra dei vantaggi fiscali considerevoli. Il viaggio verso l’Unione Europea è ancora lontano visto che dobbiamo ancora adempiere i requisiti per l’ingresso in UE, ma non è più un sogno impossibile. Da giornalista invece trovo necessario l’intervento del Primo Ministro nella Tv italiana, visto i rapporti economici fra i due Paesi, come trovo curioso il fatto che il capo dell’opposizione Lulzim Basha, il pupillo di Sali Berisha, faccia delle accuse così pesanti invece di presentare e informare l’UE in merito ai presunti brogli elettorali piuttosto dello stato attuale sul cartello dei narcotrafficanti. Winston Churchill diceva che “I Balcani producono più storia rispetto a quanto ne riescano a digerire” e questa affermazione trova la sua veridicità in quanto la naturale degenerazione della politica albanese in questi giorni, che ha visto l’opposizione abbandonare e minacciare il Parlamento è una situazione complessa da spiegare, quanto difficile da dimostrare in quanto mancano documenti che attestino i fatti concreti. Il problema principale degli albanesi è la tanto agognata adesione all’Unione Europea per vedersi facilitare l’emigrazione verso Stati europei più promettenti rispetto alle possibilità di vita che ci sono attualmente in Albania. Se è vero che da una parte il lavoro svolto negli ultimi trent’anni è stato ingente, dall’altra parte l’Albania non è stata capace ancora di sradicarsi completamente dal cordone ombelicale con il passato. Il problema è culturale, perché in quel silenzio assordante che ha caratterizzato il mezzo secolo del regime hoxhaista sono stati un po’ tutti complici, senza stare troppo a sottilizzare sulle impossibilità dovute alle pressioni che facevano quelli della Sigurimi. Penso che oggi più che mai sia necessario aprire un tavolo di discussioni e riflettere sullo status quo delle cose perché è così che avviene in democrazia. Sento spesso dire dai miei connazionali che in Albania vige una dittatura, e allora io mi chiedo cosa è la vera dittatura? Ci siamo già dimenticati gli anni di Enver Hoxha? Qualora aveste ragione, come mai, mi chiedo, sia possibile che la vostra voce arrivi fuori, come è possibile che riusciate ad opporvi senza essere deportati nelle carceri dello Stato come avveniva sotto il regime di Hoxha. Non è che i disordini in Albania siano voluti e che ci siano forze oscure dietro che hanno come obiettivo la destabilizzazione dell’area balcanica al fine di indebolire il progetto e l’area europea? Non sarebbe l’ora di planare questi disordini e controversie per rimettersi in carreggiata e magari vedere negli altri Stati dell’area balcanica una opportunità per creare una Unione economica forte piuttosto che continuare ad alimentare e perpetuare politiche di stampo sovraniste? Non vorrei che, come accadde con le piramidi finanziarie, ci illudessimo che gli aiuti possano venire da fuori, perché l’Albania ha bisogno degli albanesi, perché l’essere europei non è un luogo, ma uno stato dell’essere. Ed è da lì che dovremmo cominciare noi.

Alex Majoli © : Magnum Photos

Albania: i giorni dell’odio

Sono trascorsi più di venticinque anni da quando ci furono le prime e libere elezioni in Albania che videro la vittoria di Sali Berisha. Correva l’anno 1992, le città, i paesini e le campagne albanesi erano finalmente libere dal regime comunista di Enver Hoxha. “Siamo liberi” urlavano. “Evviva gli americani” aggiungeva qualcun altro. Le prime navi cominciavano ad abbandonare le coste del Paese in direzione dell’Italia. La mia famiglia era salpata sulla prima di esse, alla volta di Bari. Il mio villaggio si svuotò nel giro di pochi mesi. Nessuno ci riportava notizie, eravamo sconnessi completamente dal resto del mondo. Per fare una telefonata dovevamo camminare a piedi, o a galoppo di un mulo, e fare migliaia di chilometri per raggiungere Maminas, l’unica città che aveva un servizio telefonico pubblico. Le nostre giornate trascorrevano lente, inesorabili. C’era un gran silenzio per le strade. Se non fosse per il fatto che ogni famiglia aveva le armi, di fondo, si poteva dire che non era cambiato nulla rispetto ai giorni della dittatura rossa. Eppure qualcosa stava cambiando, noi che abitavamo nei villaggi eravamo completamente all’oscuro dei fatti che accadevano a Tirana. Trascorrevano settimane prima che una notizia ci raggiungesse. Nel frattempo le scuole riaprirono, io iniziavo la seconda elementare. Ricordo con lucidità il giorno in cui il Primo Ministro Sali Berisha venne a farci visita a Rrubjekë. Il suo arrivo aveva radunato tutti i paesani che lo ascoltavano con attenzione e interesse. Tutti, fummo colpiti dalle parole di Berisha perché non capivamo a quali terreni si riferisse, i contadini erano stati abbandonati a se stessi. Di colpo eravamo passati da un’economia di tipo pianificato alla privatizzazione dei terreni agricoli. Non c’era ordine, giorni, settimane, mesi e anni che trascorrevano nella frustrazione e incertezza, eravamo in balia degli eventi. Così, quando le piramidi finanziarie comparvero come la soluzione a tutti i nostri problemi ci abbandonammo con leggerezza, investendo tutti i risparmi, addirittura c’è chi vendette le proprie case e il proprio bestiame nella speranza di guadagnarci qualcosa. E quando la bolla delle piramidi scoppiò, il popolo era stato già denudato. Non avevamo più nulla. Eravamo soli. Eravamo arrabbiati. Eravamo abbandonati. I civili impugnarono i fucili e si versarono nelle piazze. Si sparava ovunque. Ricordo che la nostra vicina di casa venne colpita da un colpo, e morì tra le urla dei familiari. Per i vicoli vedevo adulti che insegnavano ai bambini a sparare. Quella guerra ci persegue tutti, come in un brutto incubo. Fece uscire il peggio di ognuno di noi. Eravamo piccoli, separati gli uni dagli altri. La dittatura che avevamo vissuto per mezzo secolo ci aveva resi deboli, ci aveva piegato e così rispondemmo con la debolezza, fu questo il nostro peccato.

Gëzim Hajdari

Gëzim Hajdari: storia del dissidente fra Albania e Italia

Gëzim Hajdari, ci racconti un po’ di lei, delle sue origini, della sua famiglia.  Sono nato nel 1957, in Darsìa. (Lushnje), in Albania, in una famiglia di ex-proprietari terrieri e commercianti, i cui beni sono stati confiscati durante la dittatura comunista di Enver Hoxha. Negli anni ’30 la mia famiglia possedeva due negozi nel pieno centro della città di Lushnje, una macchina, centinaia di ettari di terreni, boschi e bestiame. Mio padre a sedici anni si unì alla Resistenza partigiana. Dopo la guerra studiò a Tirana come geometra-ragioniere. Ha lavorato per alcuni anni presso l’ufficio del catasto di Lushnje, città dove è nata anche mia madre. Nur è una donna semplice e generosa come la madre terra. È cresciuta con le suore italiane, che avevano il convento vicino a casa sua. I suoi genitori lavoravano come agricoltori. Sono molto legato a Nur, che è sempre presente nella mia opera. Quando mio nonno, Velì Hajdari venne dichiarato kulak, i dirigenti del Partito comunista decisero di licenziare mio padre. La casa di mio nonno veniva frequentata dai dervish, membri della confraternita mistica dei bektashi, di cui faceva parte anche la mia famiglia. Per il resto della sua vita mio padre ha lavorato come pastore di buoi della cooperativa comunista ricevendo a fine mese dallo Stato i soldi che bastavano solo per comprare il pane quotidiano. Ogni mattina, quando andava nei campi, nel sacco, insieme al desinare, Nur gli metteva un romanzo da leggere. Era un grande lettore, amava i classici russi, francesi e inglesi. Nelle notti invernali ci raccontava le saghe che aveva letto durante la giornata. Attorno al caminetto, in silenzio, noi bambini ascoltavamo rapiti. Spesso, ci commuovevamo al suo raccontare. Alla luce pallida della candela ci lacrimavano gli occhi. Il racconto più struggente fu la storia di Anna Karenina. Una volta mia madre gli disse, mentre asciugava il volto, «Basta Rizà con questi romanzi, i figli si commuovono». Ma egli non smise mai di raccontare ciò che leggeva di giorno mentre pascolava i buoi. Ogni sera ci sedevamo attorno al caminetto, aspettando con impazienza di ascoltare una nuova saga. Il resto della mia vita appartiene alle lotte per la libertà e per la democrazia del mio Paese, denunce contro i crimini della dittatura comunista di Hoxha e contro gli abusi e le speculazioni dei nuovi regimi mascherati, disillusioni, minacce di morte, fughe, esili, condanne al silenzio da parte della mafia politica e culturale di Tirana; più di dodici anni di mestieri diversi come manovale per sopravvivere, sia in Patria che in Occidente, studi infiniti, viaggi in Africa, in Asia e nel sud del mondo testimoniando diverse e dimenticate realtà, spesso rischiando anche la vita. Lei ha iniziato giovanissimo a comporre poesia, come è nata questa passione? Ho iniziato a scrivere al primo anno delle medie, all’età di undici-dodici anni. La persona che mi ha fatto innamorare della la poesia è stato mio nonno paterno e poi mio padre, il quale recitava a noi bambini, prima di dormire, i canti epici dedicati ai guerrieri leggendari quali «Mujo», «Halil», «Gjergj Elez Alia» e  «Aikuna piange il figlio Omero». Mentre della la lirica popolare mi fece innamorare lo zio di mia madre Selìm. Quando frequentavo le medie nella città di Lushnje, spesso dormivo dai miei nonni materni. Questo accadeva quando faceva brutto tempo e non potevo tornare nel villaggio. Allora preferivo trascorrere la notte presso i miei nonni anziani. Mio nonno era molto affezionato a me, diceva a mia madre che assomigliavo a lui. Suo fratello Selìm aveva fatto il nizam, così venivano chiamati in turco i soldati albanesi che combattevano per conto della Sublime Porta di Istanbul, durante il dominio degli Ottomani nei Balcani. Egli aveva combattuto in Iran e Iraq per diversi anni. Non si sposò, visse il resto della sua vita con i ricordi degli anni del nizam. Ogni persona che incontrava gli raccontava la sua vita da soldato nei deserti lontani. I suoi racconti mi affascinavano molto. Spesso Selìm, dopo avermi raccontato dei lunghi viaggi per i deserti, degli addestramenti faticosi, delle battaglie feroci con i nemici dell’impero Ottomano, della morte dei suoi commilitoni, iniziava a cantare con una bellissima voce dei canti che raccontavano di tutto questo. Ho portato sempre con me l’amore per i canti dei nizam. Finché un giorno decisi di tradurre questo patrimonio inestimabile del popolo albanese in italiano. Il volume «I canti dei nizam / Këngët e nizamit» è stato pubblicato nel 2012 da Besa Editrice.           Quali sono stati i primi autori che ha letto e quali quelli che hanno lasciato un’impronta su di lei?  Le opere degli autori che ho letto mentre frequentavo le medie e i primi anni del Ginnasio sono: «Le Quartine» di Omar Khayam; «Il Gulistan» di Saadi Shiraz; «Anna Karenina» di Tolstoj, i racconti di Čechov; le liriche di Puskin, Sergej Esenin ed Éduard Bagrickij; «Il Demone» di Lermontov; «Foglie d’erba» di Walt Whitman; «I quartieri del mondo» di Jannis Ritsos; «Decameron» di Boccacio; «Il De rerum natura» di Lucrezio; «L’inferno» di Alighieri; «La Saga dei Forsyte» di Galsworthy; i racconti dello scrittore indiano Krishan Chander; «Il rosso e il nero» di Stendhal e le liriche di Heinrich Heine. Questi grandi autori, tradotti magistralmente in albanese, hanno segnato per sempre il mio destino di poeta. Come ha vissuto la relazione con la sua passione durante gli anni del regime? Gli anni del regime di Enver Hoxha albanese rimarranno sempre un mistero per me, ma anche per gli albanesi. Nessuno di noi sapeva quello che accadeva nel cuore del potere comunista, per non parlare poi dei campi di internamento e delle prigioni. Nulla trapelava al di fuori delle mura dei recinti della dittatura del proletariato. E forse nulla si saprà dato che l’altra metà della verità storica si nasconde negli archivi segreti, ormai ‘ripuliti’, dai regimi post comunisti di Tirana. Quindi un poeta come me viveva tra passione per la poesia e il terrore. Quando si inaspriva la lotta di classe, la mia famiglia veniva etichettata come nemica del partito comunista, invece quando la lotta di classe viveva un periodo di ‘pausa’ riuscivamo a vivere. Sono testimone vivente di molti arresti: “In nome del popolo siete in arresto!” da parte del Sigurim, la polizia politica del regime. Dopo ogni cittadino arrestato, la gente sussurrava: “Chissà a chi toccherà domani!”. Si poteva finire dietro le sbarre anche per una ‘parola’, per una ‘metafora’ oppure per un ‘sogno’. Io avevo come compagno di banco nel Ginnasio Jozef Radi, figlio dell’intellettuale Lazer Radi, perseguitato politico, il quale viveva nel campo di internamento di Savër, Lushnje. Davanti al mio Ginnasio di tanto in tanto, passavano i carri militari carichi di uomini, donne e bambini deportati. Venivano da tutte le parti del Paese, per passare il resto della loro vita nei lager della mia città. Mentre furgoni con i finestrini bloccati dalle sbarre, portavano i prigionieri politici. Sono state le letture dei classici che mi hanno ‘salvato’ e, allo stesso tempo, temprato la mia consapevolezza di poeta nei tempi bui della storia albanese. Mentre il paesaggio brullo e mistico della mia provincia collinosa di Darsia mi dava un po’ di conforto negli anni della mia gioventù. Quando avvenne la scelta di abbandonare l’Albania? Quali furono le ragioni che la spinsero a tale scelta? Nell’inverno del 1991, sono stato tra i fondatori del Partito Democratico e del Partito Repubblicano della città di Lushnje, partiti d’opposizione, e fui eletto segretario provinciale per i repubblicani nella suddetta città. Sono cofondatore del settimanale di opposizione Ora e Fjalës. Più tardi, nelle elezioni politiche del 1992, mi sono presentato come candidato al parlamento nelle liste del PRA, ma non venni eletto. Nel corso della mia intensa attività di esponente politico e di giornalista d’opposizione, ho denunciato pubblicamente e ripetutamente i crimini, gli abusi, la corruzione economica e culturale, nonché le speculazioni della vecchia nomenclatura di Hoxha e della più recente fase post-comunista. Anche per queste ragioni, a seguito di ripetute minacce subite, sono stato costretto, nell’aprile del 1992, a fuggire dal mio Paese. Del resto, capì che il cosiddetto cambiamento democratico albanese non era altro che un gioco sporco deciso già a tavolino. La vecchia nomenclatura comunista di Enver Hoxha, con l’aiuto dei ‘poteri oscuri’ dall’oltre Oceano, si sono impossessati di nuovo del potere politico, economico e culturale del Paese delle aquile. I cosiddetti ex-perseguitati politici durante il comunismo, invece di fondare un loro partito, per aprire la strada ad un cambiamento radicale dell’amministrazione, della società e dello Stato,  preferirono dividere il potere e le ruberie con i loro boia. È così che è stato ucciso definitivamente il sogno della libertà, della vera democrazia e della sovranità dell’Albania. Come sono stati i primi anni da emigrante? I primi anni in Italia sono stati molto duri. Avevo trentacinque anni e dovevo iniziare da zero. In tasca non avevo nessun centesimo, prima di partire da Durazzo avevo in tasca i soldi del biglietto solo di andata. Avevo perso tutto. Sconfitto. Per sopravvivere ho dovuto lavorare come pulitore di stalle, zappatore, manovale, aiuto tipografo. E nel frattempo frequentavo un’altra facoltà in Lettere Moderne alla Sapienza di Roma pagando tutte le tasse universitarie, oltre l’affitto di casa e da mangiare. Era l’inizio degli anni ’90. L’Albania a quel tempo si identificava con le prostitute, con gli assassini, i ladri, stupratori. Un poeta come me dove essere tre volte più bravo dei suoi colleghi italiani e quelli che provenivano da altri Paesi. Le domande provocatorie nei miei confronti in quanto uomo di cultura e cittadino albanese erano all’ordine del giorno. Inoltre dovevo scrivere sia in albanese che in italiano dato che non avevo lettori albanesi. Le prime raccolte poetiche le ho pubblicate di tasca mia. Non conoscevo nessun editore italiano. Ci voleva denaro e tempo per andare a contattare degli editori nelle grandi città. Io lavoravo dalla mattina e rientravo a casa la sera e non potevo fare nulla. È il caso di raccontare un fatto triste che mi è accaduto durante i primi mesi in Italia. A quel tempo facevo dei lavori saltuari come manovale, i datori di lavoro a volte mi pagavano, a volte no. Nei primi mesi trovai rifugio presso alcuni miei connazionali. La casa dove loro risiedevano era stata offerta dal Comune, quindi non pagavano affitto. Questi signori all’inizio mi hanno ospitato, poi un giorno mi cacciarono di casa. Li ho pregati di stare ancora qualche settimana affinché trovassi un lavoro che mi poteva permettere di affittare una stanza, ma nulla da fare. Mi ricordo che andavo in giro per la città bussando casa per casa chiedendo lavoro, ma appena le persone sentivano la parola ‘albanese’, chiudevano la porta dicendomi: “Vada via, siete dei ladri e criminali!”. Forse avevano ragione, nei primi anni ’90 gli albanesi occupavano le prime pagine della cronaca nera sui giornali e dei media italiani. Finché un giorno ho trovato lavoro come manovale presso una piccola ditta edile. Finalmente sono riuscito a trovare alloggio in un rudere disabitato da mezzo secolo dove l’affitto era basso. Perché sceglieste di vivere in Italia? Ho scelto l’Italia perché i nostri popoli hanno condiviso lo stesso destino durante la storia. L’Italia è stata sempre la grande porta che ha collegato l’Albania con il resto dell’Europa. E poi la lingua e la cultura italiana mi è stata sempre molto familiare. Non dobbiamo dimenticare che la letteratura albanese è nata in latino. Quali erano allora i rapporti che aveva con la classe intellettuale italiana, come fu l’accoglienza? I primi anni per me sono stati anni di fatica enorme, sofferenza e grande angoscia esistenziale. Non c’era tempo per fare “l’intellettuale“. L’intellettuale in Italia e all’estero lo facevano i poeti e scrittori del realismo socialista di Tirana, che insieme ai loro colleghi perseguitati fino a ieri durante il regime comunista, venivano nominati addetti culturali, ambasciatori, direttori della Fondazione Soros, oppure venivano ospitati nelle residenze di scrittura ovunque per Europa. Quei pochi poeti come me che denunciavano pubblicamente gli abusi, la corruzione e i traffici tra mafia e governanti, venivano etichettati come nemici dell’Albania.  Per me si trattava di lottare giorno e notte per …

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Albania

Myrteza Minxhaj: prima che la Storia si dimentichi di noi

Succede che, sfogliando migliaia di mail e messaggi che mi arrivano ogni giorno, capita di leggere le parole di un uomo che ha una storia speciale. Myrteza Minxhaj è uno dei protagonisti di quello sbarco biblico che avvenne nel 1991 nel porto di Brindisi. Oggi racconto la sua storia. Myrteza, raccontaci chi sei. Sono nato il 22 maggio del lontano 1953, nel mese di Ramadan ed è per questo che mi hanno dato questo nome, affinché io, orfano, potessi ricordare. La mia città natale, Delvina, è posizionato a sud dell’Albania, nella Çameria. Com’è stata la sua infanzia lì? Non sono rimasto per molto nella mia città natale, dopo alcuni anni ci siamo spostati andando sempre di più verso ovest, come nel paese di Sasaj, dove sono cresciuto e formato. I dieci anni trascorsi in questa parte dell’Albania mi risultano oggi come ricordi lontani; ogni volta che ho la possibilità di fare ritorno incontro vecchi amici di scuola. Mi sembra di vedere un vecchio film. Quando vi siete allontanati dall’Albania. Quale il ricordo? C’è un motto albanese che recita “L’Albania si rivolta ogni cento anni”, così come accadde con il comando italiano a Valona un secolo fa. La stessa  incomprensione ci ha portati all’anarchia totale nel 1991, ma questa volta gli albanesi non avevano di fronte il corpo italiano ma il nostro governo in assoluto immobilismo, piegati dal regime dittatoriale che avevamo appena superato. Abbiamo provato e vissuto tutte le difficoltà del momento, abbiamo aspettato a lungo, fino al giorno in cui ci è apparso possibile accarezzare il sogno di ricominciare una possibile vita altrove. Per me, come credo per molti, non ci sarebbe stato nessuna guerra civile, neppure la morte mi avrebbe fermato. Nel 1991 facevo il meccanico sulla nave Kallmi, per cui ero favorito qualora avessi optato nella scelta di espatriare. Il 5 marzo ricordo che c’era grande clamore, ricordo tutte le urla delle persone che erano parcheggiati fuori dall’area portuale.  La mattina seguente, il 6 marzo 1991, rientrammo nel porto per il cambio del turno. Io, con altri colleghi, ci stavamo spostando nell’area trattamento minerali quando vidi alcuni ragazzi del mio palazzo che mi chiamavano per chiedermi se li potevo aiutare a farli passare per poi salire sulla nave. Assieme ai miei colleghi facemmo entrare il gruppo dentro la nave che a breve sarebbe partita. I ragazzi del mio condominio mi guardavano da lontano e uno di loro ricordo che mi chiese “Myrteza, perché non sali? Dai, parti con noi”. Appena udii le parole che mi dissero, il respiro mi si ruppe nel petto, l’angoscia mi avvinghiò lo stomaco. La testa mi poneva mille domande. Di mia moglie, mia figlia, che ne sarebbe stato? La decisione era una certezza in me. Non avrei mai scelto di  sacrificare mettendo a rischio le loro vite. Perché un maschio, in fondo, fa quel può. E con questi pochi pensieri in tasca salii su quella nave prendendo parte a quello sbarco di dimensioni bibliche per cui l’Albania come gli albanesi verranno ricordati, ancora per molto tempo. Cosa si ricorda di quelle ore in viaggio? Sono trascorsi 26 anni, eppure una scena mi sovviene spesso alla mente; ricordo una coppia di Scutari che si avvicinarono a me chiedendomi se li potevo far salire a bordo e che potevano pagarmi con 40.000 lek. Quei soldi erano arrotolati e legati da uno spago. Mi spiegarono che erano a Durazzo perché pensavano di acquistare in città un televisore perché nel loro paese non era possibile fare un acquisto del genere. Comunicai a loro che il viaggio era gratuito e che non mi dovevano nulla. Ma l’uomo insistette raggelandomi nelle sue parole: “Prendi questi  soldi fratello, goditeli come potrai. L’unica cosa che vogliamo è salire a bordo e partire. Sono 60 anni che viviamo in una prigione a cielo aperto: i miei nonni, i miei genitori e adesso la mia famiglia. Voglio partire per piangere anche quel poco che troverò.” A sentir le sue parole subito mi vennero in mente i versi del poeta Migjeni che alla domanda “Per il cadavere del bambino chi dobbiamo ringraziare?” egli rispondeva “Spedite il corpo morente dell’infante al deputato, al ministro o a qualcun altro”. E lo sbarco? Il 7 marzo 1991 raggiungemmo il porto di Brindisi nelle prime ore del mattino, erano le cinque. Il viaggio, ringraziando il buon Dio, fu buono. All’arrivo al porto di Brindisi ricordo il grande calore con il quale fummo ricevuti. Gli italiani si sono mostrati un popolo amico, un popolo meraviglioso, pieno di umanità. Per molti di noi, quel giorno segnava l’inizio di una nuova vita. Molti di noi erano coscienti che nella perdita c’era la possibilità di una vittoria: una vita possibile, dignitosa. Molti di noi, almeno oggi, non vogliono più ricordarsi, talvolta non vogliono accettare di essere parte di quel mosaico che nei peggiori incubi ancora urla per essere raccontato. Come ha vissuto i primi anni da immigrato? Cosa posso dirle, cara giovane ragazza, i primi anni sono stati difficili. Il pensiero costante era sempre quello di riuscire a inserirsi nel tessuto sociale italiano, un’impresa molto ardua. Come la lingua, il primo ostacolo da superare perché ci impediva ogni sorta di possibile di comunicazione con gli italiani. Lei è uno storico, è stato pubblicato in Albania, quali lavori ha dovuto svolgere nei primi anni in Italia? Come si manteneva? Ho sempre amato la storia, la letteratura, le arti in generale. In Albania, da giovane, mi sono specializzato in meccanica e in agraria. A Durazzo, ho lavorato nel reparto dell’area portuale ed è qui che ho sviluppato la mia passione per i testi storici e la letteratura. In Italia ho fatto qualsiasi genere di lavoro per mantenere me e la mia famiglia. Poi nel tempo ho avuto la possibilità di lavorare sui miei saggi che hanno trovato l’interesse di case editrici albanesi. Il mio primo saggio storico “Vitelia gadishulli ne perendim” è stato pubblicato e tradotto anche in italiano grazie al giornalista Hasan Alia.  Perché avete scelto l’Italia per vivere? La risposta è semplice: io vivevo in Albania di fronte al mare e sapevo che dall’altra parte dell’Adriatico c’era l’Italia, un Paese a cui l’Albania è legato per tanti motivi storici. Di conseguenza vivere in Italia è stata una scelta abbastanza naturale. È chiaro che l’Albania è al centro dei suoi studi. Assolutamente. L’Albania è il centro dei miei studi e delle mie ricerche storiche, archeologiche, geografiche e linguistiche. Ha mai pensato di far ritorno e vivere in Albania? Una cosa è certa: noi partimmo nella speranza di trovare quella famosa “busta d’oro” e ad oggi posso dirti che ognuno ha le sue ragioni per rimanere come per ritornare. Quali sono i lati positivi e negativi del Paese delle aquile? Prima di tutto l’Albania possiede è ricca nella flora e nella fauna. Clima mediterraneo, minerali di prima qualità da nord a sud, ricco di falde acquifere e infine di energie dal gas al petrolio. Come spiega la forte immigrazione che sta avvenendo nei Paesi europei, specialmente quelli del Sud come l’Albania piuttosto l’Italia? Penso che il problema coinvolge tutta la popolazione mondiale che sempre di più emigreranno verso i Paesi del nord Europa che si presentano più ospitali e favoriscono la possibilità di una vita dignitosa. Pensa che l’Albania è pronta ad entrare nell’Unione Europea? Il ritardo di questo processo non può mettere in dubbio l’ingresso dell’Albania nell’Unione Europea. I problemi causati dai conflitti nell’area balcanica a causa delle tensioni fra i vari Paesi non possono rappresentare un freno per le politiche interne in Albania. Bisogna continuare a migliorare i parametri al fine di raggiungere gli obiettivi necessari per entrare nell”UE, anche perché se dovessimo fermarci ai dissidi dovremmo mettere in discussione le quattro aree di cui l’Albania è stata espropriata e di cui non ha mai avuto risposte dalla comunità internazionale e che forse mai avrà. Insomma non possiamo fermarci a queste questioni, almeno non adesso. In che rapporti è con l’Albania e con gli albanesi? Ho vissuto per 37 anni in Albania, lì mi sono formato come individuo, mi sono sposato e ho messo su famiglia. Ho fratelli, sorelle, cugini e amici. Ho un rapporto speciale con i miei connazionali. Nonostante le difficoltà vissute durante il regime dittatoriale piuttosto gli anni dell’anarchia io non parlerò mai male del mio Paese e tanto meno degli albanesi che stanno cercando di mettersi alle spalle una storia difficile da digerire. Cosa la colpisce maggiormente quando rientra in Albania? Ciò che mi impressiona di più è la crescita esponenziale che vedo ogni volta che ritorno in Albania. La mia città, Durazzo, è in continua crescita sia verticalmente che orizzontalmente. C’è un grande progresso e questo lo trovo molto positivo. Di cosa vi state occupando attualmente? Da circa 15 anni mi occupo di ricerche sulla storia dell’Albania. I miei interessi vertono in quest’area così sensibile perché dell’Albania, a parte i barconi, si conosce poco. Io, nel mio piccolo, cerco di fare qualcosa, di lasciare un mio contributo per tracciare una linea del percorso che, noi come popolo, abbiamo attraversato: dagli Illiri, ai bizantini, ai veneziani, agli ottomani, all’Indipendenza del 1912, al regno con Zogu, all’era fascista, alla dittatura di Enver Hoxha fino al 1991, che mi ha visto tra i protagonisti dello sbarco biblico di cui il mondo è a conoscenza. Come dicevo qualche domanda fa, sono stato già pubblicato con il mio saggio storico “Vitelia gadishulli ne perendim”, adesso sta per essere pubblicato in Albania un saggio storico dell’autore italiano Giuseppe Catapano di cui ho curato la traduzione in lingua albanese assieme a mia figlia. Adesso sto lavorando al mio secondo libro “Lashtesia e gjuhes shqipe” ossia l’eredità della lingua albanese. Io ho un lavoro e una famiglia a cui devo pensare per cui mi è difficile conciliare la mia passione con tutto il resto, ma lo faccio con amore e con dignità nella convinzione di lasciare ai posteri che verranno qualcosa di prezioso, in fondo un libro è sempre uno specchio dove vedersi e chissà forse riconoscersi. Come vede il futuro dell’Albania? Mi viene in mente ciò che lessi tra le pagine del libro di Nostradamus, il quale diceva “Attenti agli albanesi, perché essi non hanno ancora detto l’ultima parola nella Storia”, piuttosto un altro testo che recitava “Gli albanesi hanno sofferto molto, e questo li ha resi lenti nel processo dello sviluppo, ma nella prima metà del 21 secolo apparterrà a loro, i quali conosceranno una crescita  e sviluppo senza precedenti”. Ecco, che uno ci creda o meno, piuttosto metta in discussione certi autori oppure parole, io voglio pensare ma soprattutto sperare che l’Albania e gli albanesi possano far parte di quell’Europa dei popoli che tutti un giorno sogniamo di diventare.

Dastid Miluka

Dastid Miluka: l’artista che dipinge l’Albania!

Dastid Miluka è un artista albanese, un pittore per l’esattezza. Dastid, nelle sue creazioni, ama giocare con i suoi personaggi attraverso un gioco di luci e ombre che sono rappresentativi della realtà. Una parata di immagini contrastanti, colori sgargianti, luci e movimento esplorano il teatro della vita, che trova l’equilibrio nel riflesso dei sogni e degli spettri di Dastid. Dastid vive a Bruxelles, e su Anita.tv racconta il suo percorso partendo dalle sue origini, per poi parlare del viaggio che lo ha condotto fuori dai confini della sua madre patria. Dastid, raccontaci qualcosa di te. Dunque, sono nato a Tirana nel lontano 15 settembre del 1974.  Che ricordi hai della tua infanzia? Ho avuto una infanzia felice, ne ricordo la pienezza e la ricchezza di quel periodo. Quando parlo di “ricchezza” non mi riferisco alla ricchezza monetaria, poiché in quel periodo tutte le famiglie albanesi erano “uguali”, nel senso della condivisione della ricchezza che “apparteneva” al popolo, o almeno questo auspicava il principio della dittatura comunista, mi riferisco ad un altro genere di ricchezza. Io, fortunatamente, ho avuto la possibilità di vivere e di conoscere almeno tre diverse realtà di Tirana e questo mi ha permesso di venire a contatto con diverse realtà sociali che mi hanno dato, di conseguenza, l’opportunità di accrescere la mia sensibilità verso le tematiche sociali che noi bambini di quel tempo affrontavamo. La mia è stata un’infanzia felice, piena.  In quale periodo hai abbandonato l’Albania, e quali ricordi rimembri? Ho lasciato Tirana dopo gli anni ’90 per poi vivere alcuni anni in Grecia. Successivamente, sono rientrato in Albania e dopo un periodo, abbastanza lungo, nel 2003 ho deciso di trasferirmi a Bruxelles, in Belgio. Il mio percorso di vita non è molto diverso rispetto ai miei connazionali, che come me, si sono imbarcati nell’avventura sognando un destino migliore, fuori dai confini albanesi. È chiaro che lasciare indietro la propria terra, la propria città, i propri cari, è un coltello al cuore, ma tu sai che sei forzato ad andare avanti, a lottare. Un sentimento che difficilmente abbandona il mondo interiore, riaffiora ripresentandosi nella sua asprezza, e come se non bastasse, a quest’ultima si aggiunge l’insicurezza di questa lotta per la sopravvivenza; in un Paese straniero con l’impossibilità di darsi risposte sui mille perché che ridondano la mente. Credo che ogni albanese che ha vissuto e fatto il viaggio può comprendere la dimensione delle mie parole.  È stato un viaggio solitario? No. Mi sono trasferito in blocco con la mia famiglia.  Come hai vissuto i primi anni da immigrante? Non so se esiste qualcuno che può raccontare di aver vissuto i primi anni meravigliosamente! Ovviamente non do per scontato che non ci siano le eccezioni. Tuttavia, i miei primi anni non sono stati facili, anzi. È come nascere di nuovo, ripartire da zero, costruire daccapo. La città, la lingua, la cultura, i modi di dire e di fare del popolo ospitante, la loro storia. Ri-familiarizzare con i nuovi amici e integrarsi sono una serie di processi e impedimenti che bisogna necessariamente attraversare.  Parliamo del mondo del lavoro. Ti sei subito inserito? Inizialmente dovevo imparare la lingua, senza dubbio è il primo ostacolo da superare in una terra straniera. Successivamente ho svolto diversi lavori che non avevano attinenze con il mio mestiere di oggi. Come ho specificato prima, bisogna sempre attraversare un processo prima di mettersi in gioco esponendo le proprie capacità, il proprio talento, oppure, nel mio caso, l’arte. Perché hai scelto Bruxelles? Mio padre già viveva a Bruxelles da diversi anni, quindi ho deciso di fermarmi lì. Quì, ho conosciuto i musei e le possibilità che questa città mi poteva offrire e che senz’altro nell’Albania di quegli anni non avrei potuto trovare. Bruxelles mi ha rapito con il suo surrealismo. È una città che ha una grande tradizione nell’arte, soprattutto nell’arte figurativa. Bruxelles è una città mitteleuropea e questo facilita la possibilità di muoversi su diverse e interessanti piazze europee come ad esempio Parigi, Londra, Amsterdam ecc. Per non parlare che Bruxelles sta conoscendo una rinascita per quanto riguarda le arti figurative e questa fa sì che la città sia attraente sotto molti punti di vista.  Possiamo dire che oggi sei un artista molto apprezzato in Europea. Nel tuo lavoro, qual è il tema che ti sta più a cuore? Sono diversi i temi che la mia sensibilità abbraccia; certamente sono molto colpito dall’umanità, nel senso più stretto delle sfaccettature dalle attitudini alle abitudini degli uomini. Credo che queste tematiche sono la centralità del mio concepire l’arte. Ho un modo del tutto personale nel sfiorare questi temi e che nel tempo ho imparato a definire con più precisione. Per me è molto importante ricercare quei sentimenti già elaborati lungo il processo della creazione, e i rapporti che si stabiliscono attraverso i personaggi oppure le differenti situazioni in cui si trovano. È un lavoro che insegue l’altro, come uno spirale storico. Mi percepisco come un cassiere o un coordinatore della ciclicità che si riferisce ad ognuno inseguendo un filo conduttore. Mi piace lasciarmi andare e selezionare liberamente, e fidarmi del mio istinto originale per poi continuare a sviluppare l’idea fino al suo completamento. La mia è una creazione tempestiva che assume diverse forme. Per me è importante liberarmi nel processo della creazione, per comunicare le mie opere al pubblico.  Quanto c’è dell’Albania nel tuo lavoro? Penso che c’è sempre. Mi considero un artista molto legato alla Patria. Mi sono allontanato dall’Albania in un’età dove il carattere come individuo e artista era ben definito per cui ho conservato tutto dentro di me. Impossibile allontanarmi dalle mie radici, anche non volendo le radici incidono sulla visione di chiunque concepisce arte, in ogni sua forma.  Hai mai pensato di far ritorno in Albania? Senz’altro, non escludo mai l’idea di tornare a vivere nel mio Paese.  Secondo te, quali sono i lati positivi e negativi dell’Albania? C’è molto da discutere su questa domanda ma cercherò di precisare alcuni punti: ciò che trovo di molto positivo in Albania è la natura. Tra i tratti che contraddistinguono l’Albania è la ricchezza naturale che l’intero territorio possiede, a partire dalla flora e alla fauna. Per non parlare poi dei prodotti agricoli. Queste peculiarità possono essere fondamentali per il processo dello sviluppo turistico e per la crescita economica, che ad oggi è il problema principale. Certamente c’è molto da fare in questo luogo traumatizzato dalle scelte politiche, economiche e sociali effettuate nelle ultime due decadi. Voglio valorizzare ciò che in questi ultimi anni è stato fatto e penso che c’è un cammino positivo considerando le soluzioni ai molti problemi che abbiamo ereditato dal passato e queste vanno affrontate e regolate come tutte le altre. È necessario affrettare i tempi per cavalcare l’onda di questo periodo storico che certamente vede i Balcani come un punto chiave nelle politiche internazionali, e in questo l’Albania può rivelarsi il punto strategico.  Come avrai notato c’è un malessere nei giovani che vogliono espatriare che si esprime  soprattutto nei Paesi del Sud Europa. Lo stesso problema è sentito anche in Albania. Come lo interpreti questo desiderio?  È evidente che questo è una tematica molto delicata che ci riguarda tutti a livello europeo. È chiaro che l’interesse di emigrare per studiare o trovare possibilità lavorative migliori è un diritto che dovrebbe appartenere a tutti. Penso, che in Albania, questo tema è molto sentito a causa del caos socio-economico  attraversato in questi ultimi anni che noi continuiamo a chiamare come “una fase di transizione” che sfortunatamente sta andando un po’ per le lunghe. Bisogna distinguere la capacità di movimento che possono avere i giovani europei rispetto ai giovani albanesi che vengono limitati a causa di scelte politiche che ridimensionano il fenomeno permettendo così, ancora oggi, viaggi illegali  causando una piaga molto grande rispetto allo scenario che si potrebbe prospettare se ci fossero politiche economiche d’integrazione con la possibilità di individuare e di reinserire i giovani nel mondo del lavoro con possibilità di crescita. Credo che questa tematica dovrebbe essere la priorità nella politica del governo attuale, e di quelli che verranno.  Credi che l’Albania, ad oggi, risponde ai canoni per entrare nell’Unione Europea? Non mi va di esprimermi in merito, perché non sono un esperto in materia. So che bisogna raggiungere degli obiettivi per poter accedere ed essere alla stessa altezza dei Paesi membri. Tuttavia, credo che l’Albania è in Europa e questo non solo dal punto di vista geografico, penso che il futuro dell’Albania e degli albanesi non può che andare verso l’Europa.  Che rapporti hai con l’Albania, ma soprattutto con gli albanesi di oggi? Il mio legame con l’Albania è spirituale. Lì ho la famiglia, parenti e amici, per i quali cerco di essere sempre presente, quando posso. Cosa ti colpisce ogni volta che torni in Albania? L’energia, la vitalità.  Nel 2016, l’Albania ha perso uno dei suoi più grandi attori. Bujar Lako. Come hai vissuto questa perdita e che legami avevi con lui? È una grandissima perdita per l’arte, per il cinema  albanese. Io appartengo a quella generazione che è cresciuta con i suoi film, che fanno parte, ormai, della memoria di tutti, indelebilmente. La cinematografia albanese ha avuto una grande fortuna nell’aver avuto, e poter ad oggi annoverare, un grande attore come Bujar Lako. Film come “Gjeneral gramafoni”, oppure “Udha e shkronjave” non sarebbero risultati uguali se non ci fosse stata la meravigliosa interpretazione  di questo grande maestro. Credo che Bujar Lako ha lasciato una eredità molto grande all’arte albanese e sono convinto che egli sarà un punto di riferimento per molti in futuro.  Di cosa ti stai occupando ora, stai realizzando una nuova esposizione in Europa? Sono in procinto di lavorare su un nuovo ciclo di opere che porterò in esposizione. Si tratta di un processo che richiede diversi mesi, un suo tempo insomma. Fino ad allora preferisco rimanere in silenzio e non pronunciarmi, almeno fine alla fine di questo nuovo ciclo. 

Enkland Hasa, Ph. Carlo De Mitri.

Ekland Hasa: il pianista che veniva dal mare

Chi è Ekland Hasa, da dove viene?  Sono un pianista nato il 15 novembre 1966 a Tirana. Qual è stato il tuo percorso di studio?  Il mio percorso parte ovviamente a Tirana in Albania dove ho frequentato il liceo artistico Jordan Misja dove ho avuto come docente Pranvera Xhiorxhi, per poi proseguire gli studi all’Università delle Arti a Tirana dove ho avuto l’onore di avere come professoressa la grande Anita Tartari.  In cosa ti sei specializzato? Fondamentalmente io sono un pianista, un interprete del pianoforte. Ho scritto anche delle opere stile pop, ho realizzato una colonna sonora e alcune romanze vocali ma nonostante ciò non riesco a definirmi un compositore. Scrivere musica ed essere un compositore sono due cose diverse per me. Ultimamente ho lavorato molto facendo il maestro sostituto che significa essere un preparatore di cantanti lirici.  Sei figlio d’arte, ho letto. Diciamo che la mia famiglia mangia pane e musica! Mio padre faceva parte del corpo di ballo al Teatro dell’Opera a Tirana, mentre mia madre è una violoncellista. Mio fratello Redi è uno dei violoncellisti più richiesti al mondo, infine mia moglie che è una cantante lirica.  Insomma, non siete una famiglia silenziosa… Ah ovviamente non posso non menzionare mio figlio il quale, seguendo le orme della famiglia ma questo senza essere mai condizionato da noi, studia musica ed è molto appassionato del melodramma.  Quali sono stati i tuoi Maestri principali nel percorso che hai fatto in Albania? I miei maestri in Albania sono stati Lali Gabeci, Pranvera Xhiorxhi ed Anita Tartari e Ludwig Hoffman che aveva un suo gruppo artistico. Tutti loro hanno lasciato in me un’impronta indelebile. Se posso essere fiero di chi sono diventato oggi certamente il merito va a questi maestri che ho appena elencato.  Beh, diciamo anche alla tua forza di volontà, si può dire.  (sorride) La tua storia è speciale, tu come molti, durante gli anni ’90, sei emigrato in Italia. Cosa ti ricordi di quel periodo?  Sono partito per l’Italia insieme ad un gruppo di artisti con permessi regolari. Me lo ricordo molto bene quel giorno. Era il 15 di novembre del 1991, il giorno del mio compleanno. Urca se faceva freddo! Mi sentivo spaesato, ma non ricordo di aver avuto paura, ricordo l’ansia, quella maledetta agitazione che mi attanagliava dentro. I secondi erano ore, i minuti settimane, le ore mesi. Un viaggio che non finiva più. In compenso con me c’erano compagni di viaggio che conoscevo bene. Kledi Kadiu, Ilir Shaqiri, Gaqo Cako e altri colleghi artisti i quali festeggiarono il mio compleanno regalandomi sorrisi e pacche sulla spalla perché tutti quelli notte guadavamo l’un l’altro negli occhi coscienziosi e decisi che in Albania non avremmo fatto più ritorno. Un viaggio doloroso, quello di tutti noi, ma indispensabile. L’Albania degli anni ’90 era un Paese invivibile.  Sei partito solo? Io all’epoca partii con la mia fidanzata che poi è diventata mia moglie. Hai scelto di fermarti in Italia, eppure un talento e professionista come te poteva correre verso Paesi più fecondi, più redditizi. Perché questa scelta? Semplice la risposta: l’Italia era il Paese più vicino a noi. Un Paese molto simile sotto il profilo geografico climatico ma poi molto diversa dal punto di vista culturale e mentalità. Oggi mi rallegro quando penso che le cose sono cambiate nel giro di 26 anni.  Hai trovato subito lavoro nella tua professione oppure hai faticato facendo altro nei primi anni?  Grazie ad alcuni amici, ai quali sarò grato per sempre, trovai lavoro subito. Iniziai a dare lezioni private di pianoforte. Poi, in quel periodo, cominciai a suonare tanta musica Jazz, un genere che a me era sconosciuto perché non accettato durante il Comunismo in Albania. Il Jazz è stato bandito in Albania per tanto tempo, ricordo molto bene quando alla undicesima manifestazione della canzone albanese vennero bloccati coloro che volevano presenziare con questo genere. Tempo addietro mia moglie mi fece capire che forse avremmo dovuto proporre questo genere, almeno fare il tentativo, al Teatro Nazionale di Tirana. Presi coraggio, grazie anche alla meravigliosa donna che ho accanto, e preparai un concerto e per mio stupore la cosa ebbe un successo enorme. Mi sono appassionato tantissimo al Jazz tanto che l’ho suonato per anni imparando moltissimo dai grandi jazzisti italiani, senza dimenticare ovviamente il mio primo amore: la musica classica.  Ormai è noto a tutti che tu, oggi, sei uno delle certezze di Albano Carrisi, come è stato il vostro incontro?  Ho conosciuto Albano Carrisi nei primi anni del 2000. Un mio amico, un violoncellista, mi disse che Albano stava cercando un bravo insegnante per sua figlia Cristel. Il mio amico mi chiese se fossi interessato al lavoro. Ovviamente, d’impulso, accettai subito! Ora ti racconto una cosa.  (Ekland si mette a ridere) Ho rischiato di cadere dall’albero e di farmi male sul serio quando Albano venne in concerto in Albania. Cosa che non avrei dovuto fare e che non rifarei mai per nessuno.  (E continua a ridere) Ero un ragazzo. Insomma, ricordo che mi sono presentato a casa di Albano e lui con modi molto discreti mi chiese di suonare e fargli sentire qualcosa del mio repertorio classico. Mi sedetti davanti al pianoforte, e quando la mia mano prese da se ad accarezzare quel meraviglioso strumento da cui fuoriuscirono le prime due note Albano mi fermò e mi disse: “Quando puoi iniziare a impartire lezioni a Cristel?”.  Negli anni, in Italia, ti sei affermato diventando uno dei pianisti più stimati e amati sia dal grande pubblico che dall’ambiente underground e quello d’êlite. Cosa pensi quando ti fermi a ricordare il viaggio che ti ha portato fino a qui? Quali i dolori? Quali le speranze?  Io rifarei tutto quello che ho fatto. Non è semplice realizzarsi nel campo musicale, per non parlare di riuscire a mantenersi anche economicamente con quello. Credo però che con la costanza, l’umiltà e la perseveranza ognuno può penetrare il proprio l’obiettivo. Per me fare il musicista è un’esperienza di vita bellissima, non c’è nulla al mondo a cui posso paragonarlo. Per me non c’è nulla di più bello di quello regalarmi attraverso la mia arte alle persone, credo sia l’obiettivo di chiunque faccia questo mestiere. Dico sempre che l’artista è un poveraccio che fa la vita da ricco! Come vedi l’Albania oggi? Pensi mai di ritornare a viverci? In una parola “work-in-progress”. L’Albania è un Paese in evidente crescita economica e culturale, ogni volta che faccio ritorno per lavoro la trovo sempre più diversa, poi non so effettivamente come è viverci in pianta stabile.  E degli albanesi, cosa ne pensi? Trovo che gli albanesi che sono emigrati negli anni ’90 continuano a conservare nella loro intimità familiare i valori della cultura albanese, mentre quelli che sono rimasti li trovo un po’ cambiati, alcuni nel bene e altri peggiorati.  E l’Italia. Come vivi oggi il Bel Paese?  Sento spesso dire che l’Italia era un Paese bellissimo negli anni 60’ e ’70 e ’80, mentre oggi, come tanti Paesi europei, si trova a far fronte a problematiche che riguardano un po’ tutti i Paesi dell’Eurozona. Poi credo che ogni periodo di difficoltà è anche una  grande possibilità per crescere, imparare e magari scoprirsi più forti.  Sei Direttore di un piccolo ma importante Teatro a Lecce. Raccontaci questa esperienza?  Devo precisare: ho diretto il teatro dal punto di vista artistico ma ho avuto anche l’occasione di organizzare diversi spettacoli da sovrintendente culturale. È una responsabilità enorme, ma come dicevo prima, in Italia oggi è tutto molto difficile a causa di una burocrazia asfissiante, quando si tratta di scadenze e magari salti o ti dimentichi ritardando di un giorno finisci che devi pagare la mora ma quando si tratta che devi percepire un compenso dalle istituzioni può accadere di aspettare anche quasi due anni. Questo non aiuta, non ti motiva a fare sicché comprendo le ragioni di coloro, giovani e non, che tentano la fortuna in Paesi più elastici e propensi ad aiutare a far crescere il cittadino.  Che rapporto hai con i tuoi connazionali? Sono molto fortunato perché ho avuto l’occasione di coltivare le mie amicizie sin dall’adolescenza, oggi molti di loro sono riusciti a realizzarsi nella vita, nell’arte e questo non può che rendermi molto felice. L’amicizia per me è un grande valore e mi sento amato almeno quanto amo e credo che sia questo il senso più profondo della vita.  L’Albania ha perso una delle sue icone più grandi. Bujar Lako. Voi eravate molto amici. Come hai saputo e come vivi la sua scomparsa?  Bujo! Parlare di Bujar Lako mi è estremamente difficile. Io ho avuto legame molto importante, molto forte, con la famiglia Lako in quanto sua moglie Mira Lako è stata la mia prima insegnante di solfeggio nonché amica di mia madre.  Bujo non era solo amico mio, ma era l’amico di tutti gli albanesi. Bujo era onesto, sensibile, professionale, amabile, umano, rispettoso, un talento immenso. Bujo viveva per la sua arte, amava sua moglie Mira e suo figlio Bojken, la sua famiglia. Ci sentiamo tutti un po’ orfani senza di lui, ma io credo che Bujo è e rimarrà sempre nei paraggi, ad osservare come era solito fare, a scrutare le vite degli altri, a vegliare su di noi. Attraverso i suoi film vivremmo sempre la sua grandezza e umanità, la profondità di questo grandissimo artista.  Ci puoi raccontare un episodio di vita con lui che ti porterai per sempre nel cuore? Ricordo l’ultima voce a Lecce, parlammo per ore e ore della cinematografia e lui che attraverso la sua magnetica voce mi raccontava di aneddoti, di storie, di Robert De Niro, di Al Pacino e tantissimi altri. La cosa che mi colpì in quella conversazione fu quando mi raccontò che non aveva mai preso parte alla Prémiere di un suo film perché non riusciva a reggere l’emozione.  Quali i tuoi progetti nel futuro prossimo? Ti vedremo di più in concerti oppure teatri?  Con il beneplacito del buon Dio continuerò a fare concerti in giro per il mondo finché potrò. Quest’anno, per esempio, lavorerò in Giappone, in Cina, in Europa e naturalmente in Albania che continua a darmi grandi soddisfazioni come quella del concerto dei “Tre Tenori” organizzato da Tullumani Produksion. Prossimamente rientrerò in patria, su invito del nostro grande tenore di fama mondiale Josif Gjipali,  per un concerto in onore del decimo anniversario dell’ospedale americano a Tirana. Infine, cosa si augura per il futuro Ekland, un uomo che può dire di avere avuto due vite, diviso tra Oriente e Occidente. Mi auguro la felicità, spero di poter continuare a fare il mio mestiere, mi auguro di regalare pace e sorrisi ai miei spettatori. 

Edison Balla

Edison Balla, giovane promessa dell’arte made in Albania

Edison Balla, giovane promessa dell’arte made in Albania, classe 1997, racconta in questa intervista i suoi inizi di carriera, i suoi maestri, i suoi sogni ma soprattutto dipinge attraverso le sue parole l’Albania odierna, un quadro in continuo movimento.  Edison, raccontaci chi sei? Dove sei nato e quando? Sono nato  a Tirana, in Albania, il 14 gennaio 1997. Inizialmente ho vissuto a Shijak, in provincia di Durazzo; successivamente quando iniziai gli studi liceali mi trasferii a Durazzo, dove ho vissuto per quattro anni, insomma fino a compimento del mio percorso scolastico. Infine, a Tirana dove mi sono iscritto all’Accademia delle Belle Arti.  Qual è stato il tuo percorso di studio?  Come vi dicevo, ho frequentato la scuola elementare nella piccola provincia. Alcune persone, inclusi amici e parenti, quando videro che io nutrivo la passione per il disegno e la pittura, non esitarono ad incoraggiarmi e per questo scelsi di iscrivermi al liceo artistico “Jan Kukuzeli”, dove, per quattro anni, ho avuto l’opportunità di perfezionarmi nell’arte della scultura. Questi quattro anni, molto proficui per me, sono stati fondamentali per la mia crescita, oggi continuo a proseguire i miei studi nell’Accademia delle Belle Arti indirizzo scultura e ceramica.  In cosa ti sei specializzato? Dopo aver sperimentato un pò di tutto al liceo, mi sono specializzato nella lavorazione della ceramica, anche se la pittura è una passione che non morirà mai in me, tanto che, qualche tempo fa, mi ha portato a Capri, in Italia, ad esibirmi e a concorrere assieme ad artisti internazionali. Per me la parola “specializzazione” vuol dire poco, non è congrua a quella che è l’intendimento creativo per un artista. Personalmente alcune idee le percepisco molto di più tridimensionali mentre altre le preferisco vedere come un “telaio”.  Puoi raccontarci un pò meglio la storia della tua famiglia d’origine? Le origini della mia famiglia sono di Tirana, mio nonno lavorava, in passato, come Capo anticriminalità organizzata a Durazzo, fu per questo motivo che noi ci trasferimmo ad abitare a Durazzo, la città che mi ha cresciuto e influenzato anche nella mia identità artistica. La mia famiglia è gente semplice ma grandi lavoratori, i quali hanno realizzato le loro aspirazioni nel pieno rispetto della dignità, attraverso sacrifici.  Cosa ne pensano i tuoi familiari di questa tua scelta?  I miei familiari, inizialmente, non erano d’accordo con la mia scelta perché intraprendere un percorso artistico in Albania può presentare molti ostacoli, specialmente per un giovane come me, quindi è stato molto difficile convincerli, ma la mia tenacia e il mio lavoro li ha portati a pensare che forse dovevano darmi la possibilità di misurarmi con il mio talento e andare fino in fondo. Ad oggi, dopo un percorso di traguardi raggiunti, almeno accademici, i miei genitori sono felici per me, e anzi, mi incoraggiano.  Quali sono stati i tuoi Maestri principali nel percorso che hai fatto in Albania, e quali gli artisti che ti hanno ispirato? Diciamo che sono stati i professori del liceo ad aver profondamente inciso nel mio modo di concepire e fare arte, ma c’è stata una persona in maniera speciale ad aver fatto la differenza per me, la pedagoga Florina Shani, alla quale sono grato e per la quale nutro grande rispetto. Poi, gli artisti che maggiormente hanno influito in me sono Lucian Freud, Rene Magritte, Egon Schiele.  Cosa ti ispira nel tuo lavoro? Nel mio lavoro trovo l’ispirazione nella natura, nella psicologia, mi piace pensare agli aspetti intimi della persona; l’uomo che tutto costruisce e tutto distrugge, il mondo emozionale.  La tua storia è quella di un ragazzo che è nato esattamente nel periodo post anarchico, post guerra civile, insomma sei un Millennians balcanico, come vive un ragazzo come te l’Albania di oggi?  Un giovane d’oggi in Albania deve combattere ancora di più per raggiungere gli obiettivi che si prefissa. In Albania puoi trovare eccellenze in ogni campo per cui il livello di concorrenza è altissimo per non parlare della lotta di classe sociale piuttosto quella politica, e infine economica. Personalmente trovo interessante quando l’ambiente diventa competitivo perché mi porta a migliorare.  Cosa pensi dell’immigrazione? Penso che l’immigrazione  è necessario per conoscere nuovi orizzonti e per misurarsi con nuovi mondi, oltre il proprio. Per quanto riguarda le famiglie, invece, a volte è una scelta incondizionata per tentare la fortuna e costruirsi una vita migliore altrove. Certo, è molto triste pensare di lasciare la patria natia a causa delle difficoltà e dello Stato che non sovvenziona e incentiva con contributi le famiglie. Ma spesso, l’emigrazione si rivela un viaggio molto interessante.  Pensi mai di voler lasciare l’Albania per andare altrove? E se sì, dove ti piacerebbe andare e perché? Sì, l’ho pensato. Per me sarebbe interessante vivere in un altro Paese per sviluppare al meglio le mie possibilità. Ho pensato a Capri, ci sono stato, come vi dicevo, e l’ho trovato molto bello sotto ogni profilo. Mi è piaciuto la gente, il clima, ma soprattutto è un luogo che ispira molto. Onestamente ho sempre amato l’Italia, per la sua cultura e per le possibilità che questo Paese può dare ad un artista. Certo, non escludo a priori gli altri Paesi.  Cosa, secondo te, manca ancora all’Albania?  Penso che in Albania manchino le possibilità affinché un artista possa svilupparsi al meglio, questo perché da noi non si respira ancora un’aria internazionale. Poi, cosa ancora più importante, in Albania manca la capacità di integrare il vecchio con il nuovo. Non ci sono ancora politiche d’integrazione atte a riequilibrare le lotte sociali che viviamo nel Paese.  I tuoi genitori ti raccontano quegli anni? E i tuoi lavori sono condizionati dalla tua storia? No, i miei lavori non sono condizionati dai fattori storici. I miei lavori rappresentano me e quello che io penso, oggi.  Cosa pensi degli ambienti accademici in Albania? Quello che posso dire è che il livello accademico in Albania è molto buono anche se ancora non ci misuriamo con gli standard che l’Unione Europea propone.  Secondo te, il mondo dell’arte è sovvenzionato dalla classe politica albanese? Voglio essere onesto: penso che la politica albanese raramente degna di uno sguardo il mondo dell’arte, ciò a cui noi assistiamo ogni giorno è la messa in scena dei personalismi individuali. Una cosa vergognosa!  Come vedi l’Albania oggi?  L’Albania è un Paese bellissimo, io attualmente vivo qui, anche se incontro molte difficoltà, come le incontrano tutti gli albanesi che ogni giorno nel loro piccolo tentano di fare la differenza con grandi sacrifici.  E degli albanesi, cosa ne pensi? E dei tuoi coetanei?  Io osservo e vedo che i miei connazionali sono spaesati, increduli insomma in una grande difficoltà storica. Personalmente sono fortunato perché sono circondato da artisti e vivo in un ambiente dove pullulano le idee nonostante manchino i fondi. I miei coetanei invece, li vedo pietrificati, passivi e demotivati. Come interpreta un giovane come te le derive totalitariste e ultranazionaliste che in molti albanesi sono presenti? Penso che l’Albania, oggi, sia il nodo da sciogliere per capire molte dinamiche che ancora non sono chiare perché é mancante dal punto di vista delle fonti storiche, non c’è un’unica voce ufficiale. Io sono orgoglioso del mio Paese quanto di essere albanese. Spero soltanto che i politici inizino a mettere da parte i loro personalismi per poi indicarci una strada percorribile per il bene comune.  Pensi che l’Albania e gli albanesi siano pronti per entrare nell’Unione Europea, oppure pensi che questa scelta non è opportuna in questo periodo storico? Penso che non siamo pronti relativamente. In Albania abbiamo ancora problemi di politica interna, come le tasse oppure il debito pubblico nazionale. Qui, manca il lavoro. La domanda che io mi pongo spesso è come possiamo essere pronti per sottometterci a delle nuove leggi da parte dell’Unione Europea quando ancora siamo incapaci di decidere la direzione basilare da prendere, in questo piccolo Paese.  Che messaggio vorresti dare ai quei giovani artisti, albanesi e non, che in Italia e nel mondo ti leggeranno attraverso le tue parole in questa intervista? Il messaggio che io posso lasciare agli artisti e giovani albanesi non è soltanto quello di lavorare per quello in cui eccelliamo e amiamo ma, di farsi forza e combattere per nutrire quell’ego professionale al fine di incamminarci verso il futuro che da oggi si chiamerà anche Albania.  Quali sono le tue speranze, i tuoi sogni?  I miei sogni hanno a che fare con l’arte. ovviamente. E proprio su questo sto lavorando ad una esposizione a Capri, in Italia, assieme a mio cugino Renato Balla, il quale è un fotografo. Nell’esposizione ci saranno i miei quadri accompagnati da installazioni visive. Insomma, posso dire che i miei sogni, ad oggi, in parte si stanno realizzando anche se la strada da fare è ancora molto lunga e non mancano le difficoltà, ma in queste difficoltà incontro persone, giovani e non, che abbracciano le mie speranze e questo è il più bell’abbraccio perché mi incoraggia a fare meglio ma soprattutto mi motiva a lottare per portare fuori, attraverso il mio lavoro, la mia Albania, il mio popolo.  E siamo all’ultima domanda per te, giovane Sig. Balla, se potessi scegliere il tuo colore preferito per dipingere il mondo quale sceglieresti? Il mio colore preferito è il nero. Per me è il colore che contiene dentro tutti gli altri colori, tutti i colori primari sono dentro. Poi, è così che filtro il mondo in quanto penso che il nero, senza l’accezione negativa che gli affibbiano, è il colore simbolo dell’umanità, dell’universo, la vita, la morte, la luce, la passione, il mistero, l’emozione.  Grazie Edison, che la tua arte possa danzare al ritmo dei sogni più belli, di quelli che un giorno ti fanno dire “C’era una volta un mondo…” e poi magari di fronte si trovano un quadro, il tuo. Edison Balla.

Bujar Lako

Bujar Lako: quel padre che non ho avuto

“Pronto? Ciao Anita.” “Buongiorno Sig. Lako, che piacere la sua chiamata.” “Chiamami Bujo, per favore. Ho letto la tua sceneggiatura e l’ho trovata bellissima, poetica e non ho potuto non amare il personaggio di Ibrahim, il ruolo che hai pensato per me. Allora ci vediamo l’8, ti vengo a prendere all’aeroporto. La mia è una macchina piccola, ti dispiace se ti vengo a prendere con quella?” mi chiede. “Ma no, figurati, anzi, grazie mille per la tua disponibilità.” Venerdì 8 giugno 2012, dopo quasi 15 anni che avevo lasciato il mio Paese natale, decido di fare ritorno in Albania. Quando la portiera dell’aereo si apre, mi si stringe lo stomaco per l’emozione. Le gambe mi si muovono con fatica. Mi affaccio dall’uscio della carlinga ed il profumo mi avviluppa in un abbraccio, silenzioso. Sono tornata a casa. Poi, con la mia piccola valigia mi avvio verso la dogana, di quella linea invisibile che ci divide dall’UE. “Ecco, la mia carta d’identità” dico al poliziotto. Lui mi guarda, e mi fa un sorriso. Poi con un tono di voce basso, mi dice “Bentornata signorina Likmeta.” Nell’atrio dell’aeroporto mi guardo intorno. Non vedo nessuno che conosco, tuttavia le facce mi suonano come familiari. “Anita, sono qui. Girati!” una bellissima voce, mi chiama. È lui, Bujar Lako. Gli vado incontro, lui mi abbraccia paternalmente, ma io sono molto timida e ancora troppo incredula di essere tornata nello stesso Paese dal quale, tanti anni prima, ero scappata. “Bujo, grazie per essermi venuto a prendere. Sei molto gentile.” “Non potevo lasciarti sola.” ed io, sempre più timida, accenno ad un sorriso, seduta accanto alla sua macchina color arancio. Poi, la strada verso la capitale. Abbasso il finestrino, e osservo tutti quei cartelloni. Tutto è così diverso qui. “È cambiato, vero?” mi chiede lui. “Non è più come te lo ricordi, immagino.” aggiunge. Con le lacrime agli occhi, accenno un “sì”. Allora lui, mi appoggia una mano sulla testa, come fanno i padri con le loro figlie, il padre che io non ho mai avuto. Rimane in silenzio, aspettando che io dica qualcosa. “Mi si stringe il cuore se ti vedo così. Dai che stasera ti porto a mangiare cibo albanese, la cucina italiana la mangerai quando rientri a Roma.” Arrivati in centro a Tirana, lascio la valigia in albergo, per poi scendere di nuovo e andare a fare un giro per la città. Ci fermiamo ad un Bar in centro. Ci sediamo. “Un succo di frutta per me.” dice Bujo al cameriere, “lo stesso, grazie” chiedo al cameriere. “Allora, dimmi un po’: sei appena tornata dalla Francia, ti stai laureando, mi hanno dette cose belle di te.” mi dice sorridendo. “Faccio quello che mi piace, non sempre è facile. Come questa sceneggiatura.” gli dico, e mentre cerco di scrollarmi l’imbarazzo, una sagoma di uomo ci raggiunge. “Eccolo, lui è il grande Dritan Huqi, un giovane produttore che stimo molto.” dice Bujo, con gli occhi pieni di fierezza per il suo amico. “Allora Dritan, dovresti leggere la sceneggiatura di Anita, è piena di poesia. Sarà un bel film. Il mio ruolo è quello del nonno della bambina, la protagonista. Dai Anita, leggi una piccola parte, ti prego.” Apro la sceneggiatura, e vado a leggermi la parte finale del film, che è un monologo. Passano circa 5 minuti, e quando alzo la testa chiudendo l’ultima frase del monologo, Bujo ha gli occhi pieni di lacrime. Poi la sera scende su Tirana, quando la preghiera dell’Imam suona il suo rituale in tutta la città. Sabato 9 giugno 2012. Sono le 7 del mattino, e io sono già nel bar dell’albergo a fare colazione. Bujo mi raggiunge, ha portato con sé un grande libro. “Eccoti, questo è un libro che hanno pubblicato, e dove è riportata tutta la mia carriera.” dice lui mentre me lo autografa. “Allora facciamo così, scriverò anch’io qualcosa qui accanto, perché mi voglio ricordare di questo giorno per sempre.” gli dico, e prendo a scrivere. Bujo mi porta a vedere il teatro Nazionale di Tirana, poi tutto il Boulevard, le viuzze della città. Sono meravigliata nel vedere case che cadono a pezzi, accanto ai palazzi magnifici. “Io penso che c’è ancora molto da fare qui in Albania. Personalmente credo che la diaspora albanese darà comunque i suoi frutti, vedrai che nel tempo molti rientreranno portando con sé le loro esperienze e capacità. Io credo che l’Albania giocherà sempre un ruolo importante nella politica estera. Così lo é stato nel passato, e continuerà ad esserlo.” dice Bujo. “Non é semplice pensare di rientrare per me, come non lo credo lo sia per tutti gli altri. Ognuno di noi si è costruito una vita altrove, e ricominciare daccapo sarebbe traumatico per me; ho investito tutta la mia vita ad integrarmi in Italia, e l’ho fatto non soltanto attraverso la cittadinanza che ho appena acquisito, ma proprio ho incorporato quella cultura, l’ho fatta mia. Il mio modo di ragionare è frutto del mio viaggio in Italia e poi in Francia.” rispondo. “Lo capisco. Ma sai Anita, prima o poi, nella vita, si ritorna sempre da dove si è partiti. Si torna sempre a casa.” dice lui, e poi scuote la testa, burlandosi di me. La giornata continua tra discussioni politiche accese, e le storie di grandi attori. Poi Bujo convince il suo amico Dritan ad accompagnarci fino al paese dove sono cresciuta. Arriviamo a Maminas; la strada è completamente diversa, saliamo verso Bilalas fino ad arrivare a Rrubjekë. Scendo dalla macchina. “Bujo, non posso andare senza portare un mazzo di fiori.” Bujo si aggira per la piazza, e assieme, troviamo un piccolo negozio che vende dei fiori, anche se di plastica. Felice di aver trovato quel piccolo dono, mi avvio verso il cimitero, mentre Bujo e Dritan rimangono fuori ad aspettarmi. Sono rapita da un fiume di lacrime nel vedere quel camposanto abitato da così tante persone che avevano riempito con la loro presenza la mia infanzia. Dopo 15 minuti circa, poggio i fiori sulle tombe dei nonni, e raggiungo la macchina. Dritan si mette alla guida, Bujo gli è seduto accanto mentre io sono sul sedile posteriore; ancora non riesco a smettere di piangere mentre ricordo i miei nonni. Raggiungiamo Lalsi dove pranziamo. Qui, a Lalsi, è pieno di palazzi in costruzione; vedo il mare, e si mangia benissimo. Finito di mangiare, Bujo vuole che andiamo anche a Durazzo. Si sta facendo buio, ma lui me lo aveva promesso, e non vuole venire meno alla sua parola. Durazzo. È sera. Piena di gioventù, la città è completamente diversa rispetto a come l’ho lasciata io nel 1997. Un lungo giro, e siamo pronti per rientrare a Tirana. Ho viaggiato per la prima volta sull’autostrada Tirana-Durazzo: non ci sono più le buche che ricordavo. Ad ogni chilometro che faccio, vedo fabbriche, soprattutto italiane. Durante il viaggio, Bujo mi racconta un po’ la storia post anni ’90. Bujo non si stanca mai di ripetere quanto importante sia la democrazia e il viaggio verso la Comunità Europea; non lo ritiene una opzione, ma l’unica possibilità credibile da percorrere per un Paese come l’Albania. Bujo crede nell’integrazione, nel multiculturalismo, crede nel viaggio dell’individuo come l’unico modo per vincere se stessi. Una volta raggiunta Tirana, vengo accompagnata in albergo. “Allora, fai un buon viaggio di rientro. Poi ci sentiamo con calma per parlare del film. Continua ad essere come sei, e sorridi più spesso, perché sei bella; non nasconderti. Per qualsiasi cosa, Bujo c’è.” mi dice, e poi mi stringe in un abbraccio eterno. Vado a dormire. Al risveglio, sono le 5 del mattino, chiamo un taxi che poi mi porta all’aeroporto. All’arrivo in dogana, il cellulare vibra, un messaggio: “Cara Anita, grazie per essere venuta fino a qui. Ho apprezzato ogni momento che abbiamo trascorso in questi due giorni. Leggere la tua sceneggiatura, mi ha aiutato a capire la persona che sei. Lo so che potrei sembrare fuori luogo, ma io credo che ogni uomo avrebbe voluto avere una figlia come te. Sei in gamba e talentuosa; sei piena di luce. Non cambiare mai. Ognuno di noi ha i suoi demoni da combattere, le sue partite da vincere, la sua vita da compiere, ma ti prego, e te lo chiedo da padre, non lasciare mai che la vita ti indurisca. Continua a lottare, perché tutto andrà bene.” Buon viaggio a te Bujo, e grazie per essere stato per me, in tutti questi anni, il padre che non ho mai avuto.