Nazioni Unite

Ex Jugoslavia, 1989. Ph. Steve McCurry.

I Balcani negli interessi delle vacche grasse

di Gëzim Qadraku Sono trascorsi ormai più di venti anni da quando la Jugoslavia iniziò a sbriciolarsi a causa di una delle più brutali guerre dell’ultimo secolo, tutte le realtà che la componevano avevano intrapreso la strada verso l’indipendenza. Nonostante la suddivisione della ex-Jugo in sette Stati, quando si parla di Balcani, si fa ancora riferimento – soprattutto – a quel blocco che costituiva la Repubblica Federale Socialista di Jugoslavia. Quel blocco era governato da Josip Broz Tito, l’uomo capace nel miracolo interno di mantenere insieme popoli di lingue, etnie e religioni diverse, ma anche in ambito internazionale, mantenendo una posizione “neutrale” tra quelle che erano le due superpotenze mondiali dell’epoca: Stati Uniti d’America e Unione Sovietica. Fu Tito infatti, insieme a  Nehru, Sukarno, e el-Nasser a prendere l’iniziativa per formare il movimento dei Paesi non allineati. Un impegno il loro, che aveva come scopo la protezione degli Stati che non volevano schierarsi o essere influenzati dai due giganti mondiali. Nonostante le condizioni della regione balcanica siano completamente cambiate in questi anni, i Paesi che la compongono sembrano poter ambire a giocare un ruolo importante in termini di politica internazionale. Nell’ultimo periodo infatti, parlando di Balcani, l’argomento principale al quale si fa riferimento è l’entrata nell’Unione Europea di tutti gli stati della penisola. Eppure all’inizio del suo mandato, Jean Claude Juncker, Presidente della Commissione europea, la pensava in maniera molto diversa rispetto agli ultimi tempi, nei quali ha addirittura previsto una possibile data, quella del 2025, come anno nel quale l’UE potrebbe allargarsi a 33 membri. Ad avere inciso sul cambiamento di veduta della situazione sono stati fattori esterni che non erano stati previsti da Bruxelles. Mentre l’Unione Europea non prendeva in considerazione i Balcani, questi diventavano il principale corridoio di entrata per l’immenso flusso di migranti provenienti dal Medio Oriente, dando così vita alla crisi migratoria che ha messo in difficoltà le istituzioni europee, a cavallo di un altro episodio piuttosto scomodo: la Brexit. Infine, come pericolo maggiore per gli obiettivi di Bruxelles nella regione, sono arrivati gli investimenti e l’interesse di tre attori internazionali non indifferenti: Russia, Turchia e Cina. Ognuno dei tre ha nella zona un proprio modo di agire e specifici progetti. È utile quindi analizzare singolarmente ogni Paese. Partendo dalla Russia, che nell’area balcanica ha sin dai tempi della guerra giocato un ruolo cruciale, per poi proseguire nel post-conflitto come supporto principale della Serbia, soprattutto nella delicata questione Kosovo, essendo insieme alla Cina, uno dei due Paesi del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite a non aver ancora riconosciuto il Kosovo come Stato indipendente. Mosca inoltre gioca un ruolo cruciale nei Balcani dal punto di vista dei rifornimenti, per il grande flusso energetico che mette a disposizione. Vi è inoltre un legame di tipo identitario con alcuni popoli della penisola, i quali si sentono molto vicini alla Russia, come serbi, macedoni e bulgari, che ne condividono la religione. Restando sul tema del legame identitario, a beneficiare di questa comunanza è la Turchia, la quale porta avanti la dottrina del “neo-ottomanesimo”, cercando di espandere la propria influenza soprattutto nei Paesi come Bosnia e Kosovo, grazie proprio alla condivisione della religione islamica. Due Paesi nei quali l’intenzione di Ankara è quella di investire in maniera massiccia. Inoltre, negli ultimi tempi, il governo turco ha intensificato i contatti e i rapporti commerciali con Belgrado, la capitale serba che dovrebbe essere collegata a Sarajevo, grazie ad un’autostrada o una superstrada. Ad occuparsene sarà proprio la Turchia, che potrebbe in questo modo giocare un ruolo decisivo da intermediario nel miglioramento e nel riavvicinamento dei rapporti tra serbi e bosniaci musulmani. Ma se questo della strada è ancora un progetto teorico, tra Belgrado e Ankara gli accordi commerciali vanno a gonfie vele, con un volume che avrebbe sfiorato il miliardo di dollari nel 2016, secondo i dati OEC. I maggiori settori che legano i due Paesi al momento sono quello metallurgico, tessile e alimentare. Per quanto riguarda il Kosovo invece, la Turchia è, insieme alla Svizzera, il Paese straniero che più ha investito nel giovane Paese balcanico. È di opera turca l’autostrada che collega Prishtina all’Albania. Ma Ankara non si limita ad investire nello sviluppo infrastrutturale, bensì anche nel campo culturale, nel quale si è impegnata a ristrutturare diverse opere ottomane presenti sul territorio kosovaro, chiedendo inoltre di rivedere nei testi scolastici la descrizione dell’impero ottomano. Parallelamente alla politica voluta da Erdogan a Prishtina, c’è stata negli ultimi anni l’apertura di diversi istituti scolastici privati sul territorio, ad opera delle fondazioni vicine a Gülen, nemico numero uno di Erdogan, il quale continua a chiedere la chiusura di queste scuole, le quali sono state nel frattempo fatte costruire anche in Albania, Bosnia e Macedonia. Istituti che nel tempo sono diventati sempre più aperti al mondo internazionale, dove le èlite decidono di mandare i propri figli, come per esempio il presidente del Kosovo Thaçi. L’ultimo dei tre protagonisti è la Cina, l’unico Paese a non avere alcun legame identitario con la zona. Particolare di poco conto, in quanto i cinesi sembrano interessati esclusivamente a fare business. La destinazione principale delle loro attenzioni fino a questo  momento è stata la Serbia, dove il denaro di Pechino non è arrivato in forma di investimenti, ma di prestiti. La presenza degli asiatici viene vista come un fatto positivo sia per lo sviluppo, sia per avere un maggiore consenso sulla causa Kosovo. A giocare un ruolo determinante è la posizione geografica della penisola, che permette di fare da collegamento a quella che sarà la nuova via della seta. I cinesi sono interessati ad esportare il più possibile in Europa e per farlo, hanno bisogno dei migliori collegamenti. Ma le volontà della Cina non si fermano qui, in quanto sempre in Serbia, hanno già acquistato diverse aziende e programmano l’apertura di centri di produzione di beni cinesi. Politica questa, che potrebbe portare diversi vantaggi per Belgrado. C’è da considerare anche il rovescio della medaglia, perché se questo interesse ad investire nel territorio è una buona notizia, d’altra parte, le azioni cinesi sono caratterizzate da poca trasparenza, dall’assenza di appalti pubblici e del mancato rispetto degli standard richiesti dall’UE. Terreno fertile che permette al problema principale che affligge i Balcani di ampliarsi, ovvero la corruzione. Concentrandosi ora invece su quella data, il 2025, evidenziato da Juncker come possibile anno della svolta, viene da chiedersi quanto possa essere fattibile e plausibile un’entrata di tutti e sette gli Stati balcanici nell’UE. I problemi sono diversi e non di poco conto, per citarne alcuni, in Paesi come Albania, Bosnia e Kosovo, la popolazione pensa ancora a come lasciare la propria terra per cercare un futuro migliore in Europa. Il numero di richiedenti asilo albanesi nell’ultimo anno è diminuito, ma 22mila richieste sono ancora una cifra importante. In Bosnia invece, pare che nessuno voglia vedere il problema dello svuotamento del Paese, nell’ultimo anno sarebbero state 150mila le persone ad essersene andate. D’altro canto c’è invece la corruzione, immenso grattacapo per tutti i paesi. Poi vi sono le questioni politiche, come per esempio il miglioramento dei rapporti tra Prishtina e Belgrado, punto fermo richiesto da Bruxelles. Mentre l’Albania deve assolutamente trasformare in realtà la tanto attesa riforma della giustizia. Infine la Macedonia deve risolvere la questione che riguarda il suo nome, con la vicina Grecia. Da questa situazione di forte interesse per la zona balcanica potrebbero trarne beneficio gli investimenti che i tre attori esterni sarebbero pronti ad emettere, cifre importanti che l’Unione Europea al momento non è in grado di permettersi. Questa intrusione esterna sta allo stesso tempo allarmando Bruxelles, che vuole subito ricorre ai ripari per ritornare ad essere il protagonista principale nella penisola balcanica. I governi, dalla loro parte, dovrebbero impegnarsi nel risolvere i problemi interni e permettere alla popolazione di poter vivere stabilmente nella loro terra madre. Successivamente, con quella che potrebbe essere l’integrazione europea e gli investimenti turchi, cinesi e russi, i Balcani potrebbero seriamente rifiorire e diventare importanti in tutti i campi.

Bambino kosovaro che rovista nella spazzatura per cercare vestiti e avanzi di cibo.

Kosovo: l’indipendenza corrotta

di Gëzim Qadraku È il 17 febbraio 2008, quando a Prishtina il Parlamento kosovaro, riunitosi in una seduta straordinaria, dichiara la propria indipendenza dalla Serbia. Da ex regione autonoma della Jugoslavia, il Kosovo diventa uno Stato indipendente. La dichiarazione viene sottoscritta da tutti i deputati presenti in aula, eccezion fatta, ovviamente, per i rappresentanti della minoranza serba, i quali decidono di non presentarsi neanche. In aula viene esposta la nuova bandiera, su uno sfondo blu compare il profilo della nazione di colore giallo, sopra il quale vi sono sei stelle bianche che simboleggiano le sei comunità etniche presenti sul territorio: albanesi, serbi, turchi, bosniaci, rom e gorani. Un richiamo diretto all’Europa. Inoltre, per la prima volta in assoluto, viene intonato anche l’inno nazionale, che non prevede alcun testo. Il Kosovo entra ufficialmente nella Storia, diventando uno Stato indipendente. Il Kosovo è uno Stato orgoglioso, indipendente e libero. Hashim Thaci Trascorsi dieci anni dalla sua nascita, il piccolo Stato balcanico ha ricevuto, ad oggi, 115 riconoscimenti diplomatici come Stato indipendente. Andando nel dettaglio dei riconoscimenti, questi sono arrivati dal 58% degli Stati che fanno parte delle Nazioni Unite, per quanto riguarda invece l’Unione Europa, sono cinque i Paesi che non lo hanno ancora riconosciuto, e quattro sono membri della NATO. Col passare degli anni sono arrivati riconoscimenti importantissimi da enti internazionali, due su tutti, FIFA e UEFA, che hanno permesso agli atleti kosovari di partecipare a competizioni come le qualificazioni per il mondiale di calcio, le Olimpiadi di Rio de Janeiro del 2014, nelle quali è arrivata la prima, storica, medaglia d’oro. Conquistata dalla judoka Majilinda Kelmendi. E pochi giorni fa la bandiera kosovara ha sfilato anche alla parata d’inaugurazione dei giochi olimpici invernali che si stanno tenendo in Corea del Sud. Il caso della Catalogna ha fatto riemergere in molti l’attenzione sulla questione del Kosovo. Motivo principale per il quale da Madrid non è ancora arrivato il riconoscimento per Prishtina, in quanto dalla Spagna vedono una certa somiglianza tra la condizione catalana e quella kosovara. Proprio pochi giorni fa la Spagna ha ribadito alla Commissione Europea la propria visione sul Kosovo, dichiarando che “Il Kosovo non fa parte del processo di allargamento, ma va trattato come un caso particolare“. Occorre innanzitutto ricordare che la popolazione albanese del Kosovo è stata vittima di una guerra, 1998-99, nella quale l’intenzione di Milosevic era quella di fare della ex-regione autonoma parte della Serbia, liberandosi così della popolazione maggioritaria albanese, che ne costituisce il 90%. Fatti, questi, che non sussistono al momento a Barcellona e dintorni. Sulla dichiarazione di indipendenza kosovara si è dichiarata la Corte di giustizia internazionale, affermando che essa non viola né il diritto internazionale, né la risoluzione 1244, né tantomeno il quadro costituzionale vigente dal giorno della proclamazione stabilito dall’UNMIK. Lavoro della Corte che si è concluso in questo modo, senza che l’organo abbia dichiarato nulla per quanto riguarda il quesito se il Kosovo sia uno Stato legittimo, allo stesso tempo non ha dato alcun via libera agli altri stati per riconoscere Prishtina. Noi oggi siamo accettati da 115 paesi come Stato indipendente. Questo è un successo notevole. Ma per quanto riguarda la coesione interna, siamo ben lontani dalle aspettative. Albin Kurti Per la nascita del più giovane Stato d’Europa un ruolo decisivo e fondamentale, è stato quello degli Stati Uniti, sin dai tempi della guerra. Molto probabilmente il Kosovo non sarebbe sopravvissuto, senza l’intervento statunitense. Impegno che viene tutt’oggi ricordato dalla popolazione, con strade intitolate ad esponenti americani e la statua nella capitale in onore all’ex presidente americano Bill Clinton. Supporto nei confronti degli USA che non ha è diminuito neanche dopo l’elezione di Donald Trump. Posizione, quella di Washington, che però non è sempre stato di appoggio nei confronti di Prishtina e dintorni. Basti ricordare che prima del conflitto gli Stati Uniti consideravano l’Uçk (l’esercito di liberazione kosovaro) un’organizzazione terroristica, per poi cambiare idea e diventarne partner. Significativo cambio di rotta che venne chiarito dalle azioni di Washington nel piccolo Stato dopo la fine della guerra, con l’installazione di quella che è la base americana più grande del mondo, Camp Bondsteel, ben 955 acri di terreno. Successivamente è iniziata una politica di privatizzazione, che ha visto gli USA protagonisti di primo piano, i quali tentarono inizialmente di accaparrarsi la PTK, la società di telefonia pubblica del Kosovo, ma poi si tirarono indietro, senza però lasciarsi scappare altre occasioni come le risorse minerarie e l’oleodotto. Insomma, per gli americani la strada in Kosovo è sempre aperta. Quello della privatizzazione è un argomento cruciale per il destino del Kosovo, infatti, dal giorno dell’indipendenza, è stata adottata questa politica di vendita delle principali proprietà statali a prezzi di saldo, come se queste appartenessero ai politici, più che essere delle risorse per lo Stato e soprattutto per i cittadini. Teoricamente, laddove avviene una privatizzazione, la compagnia dovrebbe avere un miglioramento in termini di efficienza e produttività, cosa che però non sta avvenendo. L’investimento privato sembra essere diventata una scusa per poter vendere a prezzi più bassi e nei tempi minori possibili, in maniera tale che quei soldi finiscano nelle tasche degli uomini che si trovano al potere. Un processo che ha due problemi principali, il primo è la mancanza assoluta di ricerche o analisi per comprendere se la privatizzazione in un determinato caso, sia la scelta migliore; il secondo è il fatto che le caratteristiche e le differenze delle industrie e/o compagnie non sono state minimamente prese in considerazione. L’attenzione è stata data esclusivamente alle offerte degli acquirenti, per comprendere quale di queste sarebbe stata la più redditizia in termini di guadagno. Una politica che ha portato nelle casse dello Stato una cifra che si aggira intorno ai 400-500 milioni, la quale, teoricamente, sarebbe dovuta essere l’offerta per una sola delle proprietà statali. Ad oggi, la privatizzazione avrebbe dovuto portare 1-2 miliardi di euro nelle casse statali, e non la cifra irrisoria citata poc’anzi. Gli esempi più lampanti di questa politica sono le privatizzazioni della compagnia elettrica, venduta dal governo nel 2012 al gruppo turco Limak-Calik alla cifra di 26,3 milioni di euro. Una cifra irrisoria, ma che non è il punto più assurdo di questa storia, in quanto dal momento del passaggio in mano ai turchi, i cittadini kosovari hanno visto un aumento del costo della corrente elettrica e soffrono ancora di problemi con questa considerando che non hanno ancora la completa disponibilità giornaliera. E poi dell’aeroporto di Prishtina, dato in concessione per i prossimi venti anni alla cordata Limak & Airport de Lyon MAS, dal cui intervento sono previsti 100 milioni di investimenti e un allargamento di 25 mila metri quadri. Gli investimenti arrivati dall’estero in questi anni sono stati numerosi e piuttosto generosi, tanto per citarne qualcuno: Germania 292 milioni, Regno Unito 250 milioni, Svizzera 115 milioni, Slovenia 195 milioni, Austria 130 milioni. Soldi arrivati nonostante gli incentivi siano veramente pochi per investire in un paese caratterizzato da una costante instabilità politica, da un piccolo mercato domestico e da una corruzione altissima, il Kosovo si posiziona infatti al 95° posto su 197 Paesi presi in considerazione nella classifica di Transparency International. Un Paese che ha a disposizione un’enorme forza giovanile, la quale però tocca il 50% di disoccupazione. Un dato ancora peggiore è quello che riguarda le donne senza lavoro, ovvero l’80%. Numero condizionato anche da una mentalità retrograda, che vede la figura della donna soltanto come responsabile del mantenimento della casa e della crescita dei figli. Secondo il rapporto dell’agenzia statistica del Kosovo, lo stipendio medio netto nel 2016 era di 450 euro, 337 nei settori privati e 586 nei settori pubblici.Con la paga minima per gli under 35 di 130 euro e per gli over 35 di 170 euro. Per crescere economicamente il Kosovo dovrebbe concentrarsi sulle proprie infrastrutture, cercare di produrre il più possibile, per cessare di dipendere dalle importazioni. Migliorare il processo di privatizzazione, cercare di equipaggiare la propria gioventù con le abilità e le capacità richieste dal mercato. Lo Stato più giovane e uno dei più poveri d’Europa. La costante di questi dieci anni di vita è stata l’instabilità politica e la formazione di governi insicuri e incoerenti, uno su tutti l’ultimo di Ramush Haradinaj, il quale è passato dall’essere imprigionato in Francia su mandato di cattura da parte della Serbia, rischiando prima l’estradizione a Belgrado, per poi essere liberato e diventare Presidente del Consiglio dei Ministri, proprio grazie ai voti della minoranza serba, dopo che questi avevano ricevuto l’ok proprio da Belgrado. Impossibile trovare un filo logico e coerente a questa vicenda. Un Presidente del Consiglio che dalla sua dispone di 21 ministri e 82 sottosegretari e ha deciso di alzarsi il proprio stipendio a 3000 euro.  Gli ultimi tempi hanno visto una condotta rischiosa da parte delle forze al potere kosovare, le quali infatti si sono permesse di minacciare l’abrogazione della Corte Speciale per i crimini commessi dall’Esercito di Liberazione del Kosovo. Se c’era da dare un segnale che avessero qualcosa da nascondere, non avrebbero potuto fare di meglio. Sono stati 43 i deputati di maggioranza a votare la richiesta di una sessione straordinaria del Parlamento affinché fosse revocata la legge che creò la Corte nel 2015. L’intervento internazionale è stato immediato e ha permesso che la proposta venisse bloccata. Atteggiamento questo inaccettabile e spaventoso, come definito dall’Unione Europea. La classe politica sta giocando con il fuoco, in quanto sono ormai anni che non riesce a raggiungere ciò che gli è richiesto, come la definizione dei confini con il Montenegro, l’accordo di stabilizzazione con la Serbia e ora questa iniziativa non fa altro che attirare su Prishtina le ire degli attori internazionali, i quali hanno il coltello dalla parte del manico, questo è bene ricordarlo al governo Haradinaj. Dieci anni fa le speranze e i sogni erano tanti, ma poco di ciò che ci si augurava è accaduto. Il Kosovo rimane una questione che divide, a partire dalla sua indipendenza per finire alla situazione politica attuale, e soprattutto a come gli investimenti stranieri stiano conquistando il territorio, con il lasciapassare delle forze politiche. Quasi che un classe dirigente corrotta e con più di uno scheletro nell’armadio faccia comodo. Nel frattempo a subire tutto ciò, non può che essere la popolazione. Un numero altissimo di persone che negli ultimi anni ha tentato di lasciarsi alle spalle una situazione disastrosa, per cercare di costruirsi un futuro migliore in Europa, con tutte le difficoltà del caso considerando che un cittadino kosovaro necessita di un visto per poter uscire dai propri confini. Il sogno europeo è una vera e propria utopia, ed è un errore, in primis da parte di Bruxelles, dare anche la minima fiducia a Prishtina, in quanto la classe politica in questi anni non ha fatto altro che riempirsi il proprio portafoglio, lasciando in secondo piano la crescita e il miglioramento delle condizioni di vita. Dieci anni fa si urlava “New Born” e si festeggiava. Oggi le urla sono colme di rabbia e da festeggiare, è rimasto ben poco.