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Strage migranti, il tempo non ha più tempo

Ciao Europa, come state? Siamo le madri, abitanti del fondale del Mediterraneo. Noi vi scriviamo per ringraziarvi di non aver fatto abbastanza per noi al fine che siamo sicure che farete molto per la moltitudine che avverrà, poiché solo attraverso la consapevolezza delle stragi nasce l’esigenza di riparare e di fare per gli altri. Sapete, potremmo essere molto arrabbiate per ciò che ci è accaduto, potremmo nutrire una rabbia “fondale” poiché vi siete sostituiti a Dio decidendo per la nostra morte dal momento che avete taciuto le vostre responsabilità. Qual era il problema? Il petrolio? Soldi? Perché non vi dite la verità? Noi, ormai la sappiamo molto bene. Ma questa lettera non ha la prerogativa di farvi la morale ma di dirvi una cosa fondamentale: noi, vi vediamo da qui. Sì, avete capito bene. Ma soprattutto vi diciamo che siete morti. Proprio così, voi non ci vedete e non ci sentite proprio perché siete morti grandemente. Come facciamo a dirvelo? Perché noi siamo morti solo a noi stessi. In quell’istante, in cui tutto affondò, i nostri respiri e quelli dei nostri figli e cari si sono incontrati, la paura ha smesso di muoverci i cuori. Eravamo liberi. Sapevamo la verità e così le acque ci avvilupparono dolcemente e ci trascinarono nelle profondità di una nuova realtà. Strette gli uni agli altri sapendo che il grande mare nostrum avrebbe battezzato le nostre vite, e si sa che ogni redenzione passa attraverso una morte. La morte dei nostri corpi. Avremmo voluto conoscervi, avremmo voluto comunicare con voi. Anche noi crediamo nell’amicizia, anche se siamo stati traditi per la pochezza materiale. Anche noi non sopportavamo l’ipocrisia, e anche noi saremmo stati capaci di dare amore. Potevamo essere una grande opportunità per tutti. Noi volevamo la libertà alla vita. Perdemmo tutto per ricominciare una nuova esistenza in cui saremmo potuti essere un po’ più protagonisti e non spettatori di una realtà che aveva firmato la nostra morte, da sempre. Noi eravamo la vostra opportunità per diventare altro. Non volevamo affollare le vostre vite e le vostre città dato che non eravamo partiti per vivere nella illegalità ma per lottare per la vita possibile. Noi, siamo coloro che si stringono stretti in fondo alle acque fredde del Mediterraneo. Le nostre lingue non si muovono più. I nostri respiri sono espirati. I nostri occhi, in fondo alle vostre paure, vedono come se fossero dall’altra parte dello specchio e non emergeremo più. Forse, doveva andare così, per noi. La vita ci è stata tolta perché voi non foste abbastanza forti da proteggerci mentre per i nostri governi eravamo solo merce di scambio. Qui sotto è tutto così nitido, così limpida la verità. Come state, voi lassù? Sono una mamma che stringe il suo figlio, e vi sento che ancora parlate. Quanto parlate! Quanto piangete! Dovete avere un mare dentro i vostri stomaci. Lacrime e parole. Cos’è la vita? Secondi, minuti, ore, giorni, settimane, mesi, anni, secoli che si vivono per amore. Ma non lo capite che non c’è più tempo? Se non sapete più morire a voi stessi per far vivere gli altri, in voi regnerà la disperazione, l’incertezza, l’irrequietezza e la paura. La paura che brutto laccio! Crediamo che queste parole nascano dal desiderio di donarci al mondo in estrem(n)a partecipazione e di donarci per amore alle persone indifese e non garantite. Quante bugie sono state dette sulla nostra disgrazia. Ma ciò che ci preme di più è farvi comprendere che dovete invertire la marcia perché state sbagliando direzione. Non c’è più tempo. Il tempo non ha più tempo. Abbiate il coraggio di testimoniare la verità. Buon viaggio a voi. Delle madri, una lettera immaginaria.

Digerire (parte II) Rinascere nel viaggio. Nel dolore

Parliamo delle donne. Voi li vedete questi migranti, questi esseri umani che il mondo arabo sta vomitando sulle coste italiane, al confine francese, la materia che sta generando un problema diplomatico tra Italia e Germania, tra Italia e Francia, tra Italia e Unione Europea. Dai luoghi delle rivolte, della guerra civile e delle dittature la maggior parte degli immigrati che partono sono uomini, anche se negli ultimi anni questo fattore è venuto sempre meno. Allora io mi chiedo e vi chiedo: dove sono le donne? Restano nelle zone di guerre, restano indietro per affrontare da sole quello che resta delle rivoluzioni, delle rivolte, a ricostruire dopo la morte, a rinascere, aspettando magari un giorno il ritorno dei loro uomini. Alle donne il compito di rifondare la società, di farla uscire dallo stato semi tribale o dittatoriale e agli uomini quello di cercare fortuna nei paesi cosiddetti avanzati. Nei cosiddetti paesi civili una ragazza come me non può prendere un autobus da sola, né alle quattro del mattino, né a mezzogiorno e men che meno alle nove di sera. Nei paesi cosiddetti civili una ragazza come me non può e non deve vivere una vita da single senza che questa diventi un vero e proprio inferno. Questi paesi sono civili come una guerra, civile. Questo perché ci si è dimenticati della donna. La donna è diventata ormai oggetto del pubblico piacere, la possibilità dell’essere forti in quanto esiste un sesso debole, l’attrazione degli occhi. La percezione della realtà oggigiorno è un grido d’allarme che riguarda l’incapacità atavica di affrancarsi da determinati preconcetti culturali. Ho sempre avuto la sensazione che una donna che viene da realtà di sofferenza, da un paese in smobilitazione, che ha subito atrocità di ogni tipo, è una donna che può essere facilmente succube, che si può addomesticare magari anche soltanto con la commiserazione. Se poi una donna, compiace il desiderio di certi uomini, può essere vista inconsapevolmente, in certi casi, come un trofeo di caccia in una società ancora a trazione “testosteronica”. In tutto questo c’è un “ma” dovuto all’intelligenza che una donna può avere e questo può spiazzare e rendere furioso il misericordioso ominide di turno. Le donne che partono devono affrontare nel viaggio una triplice lotta per affermarsi: come straniere, come donne e come persone lucide ed intelligenti. Molti paesi d’Europa cosiddetta “democratica” hanno grandi problemi ad accettare l’integrazione e l’emancipazione perché lo straniero fa paura, è destabilizzante; se poi ha anche idee proprie e autonome diventa una minaccia. Il vulnus umano sono gli occhi, una ferita aperta. Il dolore delle donne sta proprio in quel modo di non essere mai considerate in quanto esseri uguali con gli stessi diritti e doveri. Vivit sub pectore vulnus cioè la ferita sanguina nell’intimo del cuore, come diceva Virgilio nell’Eneide in riferimento a Didone, e per molte donne è proprio così. In molti paesi la donna viene rappresentata come essere immobile attaccata alla realtà delle cose, attaccata alla tradizione da preservare. Ci sono molti miti che potremmo citare a partire da Penelope che doveva restare nella zona della dimensione reale della vita, in attesa del ritorno del suo uomo. La donna immobile legittima la mobilità dell’uomo. La visione immobilista sulle donne trova le sue origini nel mito ma è anche un fatto storico poiché il viaggio viene associato soltanto alla virilità dell’uomo e questo genera un carattere antitetico alla femminilità. Le ragioni di questa discriminazione vanno ricercate anche nella letteratura ufficiale dei primi del Novecento quando le figure di riscatto della nazione non potevano essere femminili e tanto meno, qualora lo fossero state, le avrebbero elogiate. La mia personale storia è sicuramente collocabile in quella di figlia di una donna, quale mia madre, che ha compiuto la difficile scelta di espatriare in cerca di un futuro migliore, in cerca di possibilità ma soprattutto in cerca di una possibile realtà dove fondare le proprie radici e ricostituire la propria identità e riprendere in moto ciò che a certe donne come mia madre è stato negato o non è stato possibile. L’emigrazione femminile dovrebbe essere un argomento da riprendere, a prescindere dall’entità numerica di chi parte e di chi resta, e merita un approfondimento dal punto di vista storico proprio per la sua specificità e peculiarità. Il mio breve racconto non ha la presunzione di essere un articolo che tratta il viaggio delle donne come un trattato antropologico sulle donne ma una semplice riflessione che mi induce ad addentrarmi in quanto io stessa sono stata e sono tuttora soggetto di e nella storia. Il viaggio, sia quello delle donne che partono o di quelle che rimangono e sia quello degli uomini, rappresenta la possibilità che una forza generatrice capace di mutare, trasformare, raffinare e innalzare gli spiriti porta al cambiamento. Questo viaggio si compie attraverso la consapevolezza del dolore da superare. Il dolore in qualche maniera rappresenta già la fonte di emancipazione umana. Quell’antico obbligo al dolore, in quanto si compie una scelta attiva e talvolta o spesso passiva, è una viva ed essenziale componente psicologica e biologica e non è contaminato dall’illusione ottimistica dell’idealismo e del positivismo in modo deciso e radicale ma è capace di interpretare l’inquietudine profonda che la società occidentale vede come minaccia a causa del crollo dei valori tradizionali, messi in crisi dall’attivismo spregiudicato e dallo spirito di sopraffazione dei mercati e dunque del capitalismo. Il dolore è un atto di iniziazione, non è mai fine a se stesso. Nel dolore non vi sono casualità ma soltanto possibilità. Arrivare “attraverso” il dolore per ottenere la possibilità. Infine il dolore è cosa unicamente di Dio, appartiene soltanto a Lui in quanto Egli è la felicità infinita e soltanto nel Signore Gesù si trova la conclusione dell’angoscia misteriosa del dolore. É così che il viaggio si identifica profondamente nella vera e unica visione cristiana che nel dolore trova la sua fonte di liberazione, cioè un’azione libera. Il viaggio nel nostro tempo è di tutti noi, di piccola o grande distanza, per cui il dolore è tutt’uno con tutti noi, tutt’uno con Dio, anzi lì è Dio stesso. Il viaggio, in quanto non vive nell’accezione da protagonista o spettatore ma quello di strumento, ci porta a spogliarci delle nostre debolezze e dalle falsità e illusioni e in esso il nostro spirito si emancipa alla Verità. Il dolore e il viaggio sono essenza delle “uoma” cioè delle donne. Fa parte della loro rinascita, è capacità di discernimento, vive in coloro alle quali è toccato nuovamente riconoscersi e che sanno e sapranno sempre trascinarsi avanti. Più della consapevolezza del peccato, più del farsi “attraversare” dal viaggio e dal dolore più del “qui non finisce mai…” e più del silenzio dell’essere in orrore una donna che rinasce è un atto, un dono, della splendida creazione. di Anita Likmeta su The Huffington Post