Immigrazione

Grazie a tutti gli italiani di buona volontà

Io non so come andranno queste elezioni, ma voglio, sin da subito, cogliere l’occasione per ringraziare un po’ di persone. Si dice che nessuno si salva da solo e mai come oggi per me questo è vero. Di questi tempi non si fa che parlare di come è cambiata l’Italia. Non si fa che parlare di questo Paese, che, almeno stando ai giornali, è diventato intollerante e incapace di reagire ai problemi che ogni giorno lo affliggono. Eppure, quando nel 1997, arrivai in Italia, avevo dieci anni e i problemi erano già tutti lì. A quei tempi, ad essere visti con sospetto, non erano gli africani, ma gli albanesi. Ricordo perfettamente la paura che avevo di prendere il telecomando e aprire quella finestra sul mondo: nel discorso pubblico, noi albanesi eravamo i cattivi, gente senza scrupoli che vendeva figli e sorelle. Ladri e prostitute. Mi ricordo ancora quando un professoressa, al Liceo Classico, mi disse che noi albanesi eravamo un popolo selvaggio, del tutto irrecuperabile. Ma per quanto difficili fossero quegli anni, per me che ero una bambina, nei miei ricordi ho lasciato spazio solo alle persone di buona volontà. Ricordo ad esempio quando, durante l’ora di religione, lasciavo la classe per prendere lezioni di italiano da Don Cleto, il parroco di un paesino in provincia di Pescara. Don Cleto era un uomo perbene e capiva il mio disagio: aveva sempre un sorriso da regalare e delle buone speranze che mi riempivano il cuore. Mi donava i libri che aveva nella parrocchia: “prendili tu, hanno bisogno di essere letti”. E poi la bidella, una signora bionda, minuta,  che ogni mattina mi regalava la merenda. E una ragazza di Villanova che si era laureata in Lingue e Letteratura inglese: mi regalò un’enciclopedia. Poi, con mia madre, ci trasferimmo a Cepagatti (che si chiama così perché fu terra di mercanti e, quindi, dal latino captus pagus, passando per il volgare Ce pagate). La prima cosa che feci lì, a Cepagatti, fu visitare la Chiesa di San Rocco e Santa Lucia, dove conobbi Don Agostino. Un parroco taciturno, un uomo di pochissime parole e di tantissime buone azioni. Si spese per la mia famiglia con ogni mezzo. A casa nostra, così, non mancava mai niente, perché il parroco e le suore si ricordavano sempre di noi. E poi la signora Lara, una imprenditrice che aveva una fabbrica che produceva camicie, dove mia madre trovò lavoro e amicizia. E infine le signore Jolanda, Lea, Franca e suo marito Francesco che avevano una gioielleria. E l’assistente sociale Francesca. Queste persone furono per noi come un salvagente. Ci tennero a galla. Poi sono cresciuta, e tra mille avversità ho conseguito la maturità classica. Mi sono trasferita a Roma per continuare gli studi e anche qui ho avuto la fortuna di vivere e crescere grazie alle cure delle suore dell’istituto Mater Mundi che si trovava sul Casaletto. Ecco, io oggi voglio ringraziare tutte queste persone. Questi uomini e queste donne semplici e vitali. Loro non lo sanno, e forse nemmeno si ricordano di me e della mia famiglia, ma io voglio ringraziarli per non avermi lasciata in mezzo a una strada. Voglio ringraziarli per l’amore e per la cura. E voglio dire a loro che se oggi sono candidata a queste elezioni è perché anch’io volevo dare il mio contributo al Paese che mi ha accolto. E testimoniare, con la mia presenza, tutto il loro amore disinteressato e la bellezza del loro cuore.

Carola Rackete all’UE: abbandonare i migranti in mare è vergognoso!

Oggi 29 giugno 2020, Carola Rackete, la capitana che lavora per la ONG Sea Watch, ha espresso il suo disappunto in merito alle scelte che i governi europei stanno attuando sui migranti in mare definendole “vergognose”. Diversi stati europei, tra cui Spagna, Malta, Italia, Paesi Bassi e Germania, continuano a ostacolare il salvataggio e il monitoraggio delle missioni in mare e in volo” Carola Rackete Oggi, esattamente un anno fa, la capitana della Sea Watch 3, Carola Rackete, condusse la sua nave nel porto italiano di Lampedusa facendo scendere 40 migranti. Questa scelta fece discutere moltissimo considerando gli ordini dell’allora Ministro leghista Matteo Salvini. Salvini non è più in carica al governo e in generale, in Europa, sembra che nulla è cambiato dall’anno scorso considerando l’incidente avvenuto a Pasqua dove 51 migranti e 5 morti sono stati rimpatriati dal governo maltese in Libia. L’Europa ha abbandonato completamente i migranti in balia delle onde nel Mar Mediterraneo affinché affoghino per spaventare quei paria della terra che decidono di partire verso le coste europee fuggendo dai campi di concentramento libici. Un po’ come fece il governo italiano durante il 1996 con gli albanesi, i quali, molti di loro, persero la vita nel Mar Adriatico: famosa la notte buia quando la Kater i Rades venne speronata dalla nave italiana e dove persero la vita 103 albanesi che giacciono ancora nel Canale di Otranto. Una tragedia mai indagata davvero e per la quale i familiari, dopo più di 20 anni, cercano ancora giustizia. La Rackete ha definito l’agenzia di frontiera dell’UE Frontex come la garante della politica razzista degli Stati europei. Se #BlackLivesMatter negli Stati Uniti chiede di sconfiggere i dipartimenti di polizia, di conseguenza dobbiamo chiedere a #DefundFrontex in Europa. Carola Rackete Affermazione che Frontex ha definito come “assurdità da gruppi marginali” e che “l’agenzia protegge i confini di centinaia di milioni di persone in tutta Europa”.

Migranti: la violenza di frontiera dei governi UE.

Dunja Mijatovic, il Commissario europeo per i diritti umani, il 19 giugno 2020, alla vigilia della giornata mondiale del rifugiato, ha invitato gli Stati europei a rispettare gli impegni presi in merito agli aiuti ai rifugiati. In un tweet ha espresso il suo disappunto rispetto alle scelte attuate negli ultimi mesi dicendo che “I respingimenti e la violenza alle frontiere violano i diritti dei rifugiati e dei migranti, nonché cittadini degli stati europei. Quando la polizia o altre forze dell’ordine possono agire impunemente in modo illegale e violento, la loro responsabilità viene erosa e la protezione dei cittadini viene messa a repentaglio. L’impunità per gli atti illeciti da parte della polizia è una negazione del principio di uguaglianza nella legge e nella dignità di tutti i cittadini e mina profondamente la fiducia dei cittadini nelle istituzioni statali“. Il Commissario europeo per i diritti umani incolpa i Paesi UE per aver aggirato le leggi affermando inoltre che alcuni politici sono promotori dell’idea che i diritti dei migranti possono essere messi in secondo piano al fine di proteggere i confini considerando lo status quo che stiamo vivendo a causa del Covid-19. I migranti sono lasciati a rischio delle loro vite in mare, sono tornati in paesi pericolosi, sottoposti a maltrattamenti o detenzioni arbitrarie, tenuti separati dalle loro famiglie o collocati in campi sovraffollati in condizioni spaventose. Dunja Mijatovic, Commissario europeo per i diritti umani. La Convenzione europea sui diritti umani esiste da quasi 70 anni e, secondo il Commissario europeo, mai come oggi i diritti dei rifugiati sono stati violati con cotanta sistematicità. D’altronde, come afferma anche Dunja Mijatovic, avviene sempre più di frequente che gli Stati europei oltrepassino le leggi europee sui diritti umani, e questo atteggiamento sta diventando sempre di più una prassi comune. I Paesi dell’area UE si concentrano sulla ricerca di “nuovi modi per impedire che tali obblighi diventino applicabili in primo luogo“, invece di essere garanti che loro politiche in materia di asilo e migrazione siano conformi alla legge e quindi ai sensi della Convenzione sui diritti umani. Inoltre, il Commissario europeo, ha avuto da ridire anche sull’Italia facendo riferimento al caso Hirsi Jamaa, quando il Bel Paese costrinse i migranti a rientrare in Libia, scelta che le valse una sanzione dalla Corte EDU nel 2012 . Il caso Hirsi Jamaa mise in allarme tutti gli altri Paesi UE, i quali negli anni hanno escogitato nuova modalità per sollevarsi da qualsiasi responsabilità rispetto a coloro che si trovano nel mare. Mentre questo mette gli Stati membri del Consiglio d’Europa a debita distanza dagli eventi, non fa nulla per impedire ai migranti di essere esposti a torture o trattamenti disumani o degradanti. afferma il Commissario UE per i diritti umani Mijatovic. I Paesi UE hanno creato molta confusione e sono responsabili di una cattiva gestione rispetto alle risorse e investimenti che vengono promossi in materia di asilo ai rifugiati. Inoltre, alcune sentenze giudiziarie, sono state manipolate dai Paesi UE stessi al fine di giustificare le pratiche di respingimento. Il fatto che tutta l’area europea sia contagiata e manipolata da una propaganda politica che alimenta l’odio verso i migranti attraverso una forte infodemia atta a deviare l’opinione pubblica verso una forte intolleranza che erge la protezione dei confini al di sopra dei diritti umani stessi. I governi europei dovrebbero pienamente comprendere che non sono nella posizione di decidere se rispettare una legge o meno, piuttosto prendere atto che la Convenzione sui diritti umani va rispettata ai sensi della legge la quale non può essere violata o raggirata. Inoltre, il Commissario europeo per i diritti umani, si augura che il mandato della Germania come Presidente del Consiglio europeo possa rafforzare la protezione dei diritti umani e le politiche in materia di asilo in Europa.

Immigrazione

Il nuovo Olocausto si chiama immigrazione, ed avviene nel Mar Mediterraneo

Accade in tutto il mondo: i migranti oggi sono ammassati in veri e propri campi di concentramento, costretti dietro dei muri. I primi vent’anni del Duemila non sono poi tanto diversi da quelli del Novecento.   Non vi racconterò la mia storia, perché sarebbe uguale alla storia dei milioni di migranti che scappano dalle proprie case, dalla propria terra, a causa delle dittature, delle guerre e della povertà. Sarebbe soltanto un eco retorico e autoreferenziale, e probabilmente l’ennesimo. La storia dell’albanese sfortunato, partito sulla nave Vlora, che alla fine ce l’ha fatta. Ma non sarebbe reale, e non sarebbe vera, e soprattutto non renderebbe giustizia agli incontabili morti di questi anni, a cui abbiamo taciuto persino la storia. Eppure anche la mia storia potrebbe essere l’esempio perfetto di quello che accade oggi nel Mondo. Sono una migrante, proprio come quegli egiziani, libici, somali, etiopi, siriani, messicani: i migranti del Mondo che oggi sono ammassati in dei veri e propri campi di concentramento, costretti dietro dei muri, che a guardarli sembra che i primi anni venti del Duemila non siano poi tanto diversi da quegli anni Venti di inizio Novecento. Sono semplicemente una delle migliaia di persone, non rifugiati politici, non profughi di guerra, non clandestini, non richiedenti asilo, non migranti economici, che è riuscita a sopravvivere e a concludere quel viaggio. Sono cioè solo fortunata. Badate bene, non etichette, sto parlando di persone, che anni fa hanno attraversato un confine, magari il mare, sperando di trovare in un’altra parte del Mondo, nel mio caso in Europa, una speranza di una vita migliore, rispetto allo scenario di morte o disperazione che lasciavano. Perché negli anni Novanta la mia terra era diventata un posto pericoloso in cui vivere. Perché in ogni parte del Mondo, quando la gente è ridotta alla fame, è disposta a tutto, fino a piegare l’aria all’odore del piombo. Oggi però ho una nuova casa: l’Italia. Certo, non dimentico la mia Patria natia, ma ne ho anche una adottiva, che fra alti e bassi è riuscita a darmi un’opportunità. In ogni parte del Mondo, quando la gente è ridotta alla fame, è disposta a tutto, fino a piegare l’aria all’odore del piombo. Ma i migranti oggi sono ammassati in dei veri e propri campi di concentramento. Non è stato un percorso facile da affrontare, nemmeno quello dopo quel viaggio: in Italia ho conosciuto anche il razzismo, il sessismo, i luoghi comuni sui migranti in genere, e nel mio caso quelli sugli albanesi, ma ho conosciuto anche la Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’Uomo e delle libertà fondamentali, la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea e la Dichiarazione universale dei diritti umani; cioè ho scoperto che come persona avevo dei diritti inalienabili, cioè che avevo diritto ad esserci, e che non mi poteva essere negato. Ma soprattutto in Italia ho avuto la possibilità di scegliere di studiare, di scegliere un percorso di vita, di scegliere uno stile di vita: in Italia ho scoperto che potevo avere un mio pensiero, e che poteva essere idealmente diverso da tutti, libero e critico, che potevo esporlo nei modi e nei metodi che ritenevo più opportuni, nel rispetto di me stessa e degli altri. Mi ha permesso di essere oggi qui, come giornalista, e raccontarvi questa storia. Forse voi non ci pensate, forse chi nasce qui pensa che sia davvero normale essere liberi, intendo liberi davvero, e che sia sempre così e ovunque. Ma no, non lo è. Ed essere migrante ti permette di apprezzarlo in un modo nuovo, unico. Di respirare l’aria e sentirne davvero l’odore. Perché se oggi sono qui a raccontarvi tutto questo, è davvero grazie a questo viaggio. Sono milioni i migranti che sono partiti, che partono, e migliaia quelli che non sono mai arrivati, e che non arriveranno mai a destinazione. Essere qui stasera, per me, è un onore e un privilegio, ma lo sarà fino in fondo, solo se rispetterò la memoria di chi è stato meno fortunato di me; magari perché un gommone è affondato, magari perché ucciso ancora prima di partire, magari perché non aveva i soldi per pagarsi lo scafista di turno. Voi forse non ci pensate, ma sta succedendo anche in questo momento, e c’è un’Anita, su quel confine, a cui stanno impedendo di pensare, di parlare, di realizzarsi, di vivere, di esistere. Di non essere, solo perché non si è nati in quella parte di Mondo che s’illude di meritarselo più degli altri. In Italia ho conosciuto anche il razzismo, il sessismo, i luoghi comuni sui migranti in genere. Ma ho conosciuto anche la Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’Uomo e delle libertà fondamentali, ho scoperto cioè che come persona avevo dei diritti inalienabili. Vedete, quando muore un cittadino occidentale, a Parigi come a New York, vengono eretti memoriali, vengono intitolate piazze e strade, si riempiono giustamente i giornali e i telegiornali con la cronistoria della vita di ciascuna di quelle persone; ma quando muore un migrante, beh, allora si tace. E quel silenzio è assordante quanto il senso di colpa che cerchiamo di nascondere. Quell’individuo, senza nome, senza documento, a cui è negata persino la Storia, è spesso solo un numero su una bara: il Migrante Ignoto, quello che abbiamo visto sfilare in tutti questi anni a Lampedusa, e che si è perso in quel grande cimitero blu che è diventato il Mar Mediterraneo. Perché le nostre torri gemelle, quelle europee, sono oggi in fondo al Mare Nostrum; nostro perché degli albanesi, degli italiani, dei francesi, degli spagnoli, dei greci, nostro perché di tutti noi europei. Negli anni Novanta, la guerra e l’anarchia sconvolsero il mio Paese, l’Albania. Una volta erano gli italiani a lasciare la propria terra, le proprie case, i propri affetti, nella speranza del sogno americano; ieri lo era l’Albania dei barconi, di chi attraversava l’Adriatico verso l’illusione del sogno italiano. Ma questo è accaduto tante altre volte, anche altrove, in tempi e Paesi diversi: qualcuno che lasciava la propria miseria, in cerca di una speranza. È accaduto, e accadrà ancora. Perché i migranti non sono quelli che vengono a rubarvi il lavoro, a occuparvi le case, ad approfittare di questo o quell’altro. I migranti, sono anche Anita. Persone, come voi e come me, che hanno diritto ad una speranza, ad un sogno, ad una vita. E spero che dopo stasera, prima di dire quella parola razzista che non andrebbe mai detta, ve lo ricorderete.

20 febbraio 1991, in Piazza Skanderberg a Tirana un gruppo di studenti tirano giù la statua del dittatore Enver Hoxha.

L’Albania, 26 anni dopo: la resa dei conti

È il 20 febbraio 1991 e l’enorme simulacro di bronzo domina la capitale albanese, una folla immensa attornia il simbolo e lo abbatte. L’Albania è un Paese strano, diviso a metà tra passato e presente, tra Oriente e Occidente e ancora non smette di stupirci. Rrubjekë. Il gallo sveglia il paese con il suo canto e io con il nonno siamo pronti per partire per il nostro viaggio a Tirana. La nonna ha preparato la solita borsa con frutta e verdure da portare allo zio che vive nella capitale. Mi sento un po’ assonnata ma l’idea di viaggiare mi piace tantissimo, ancor più se con me c’è il nonno. Dopo cinque chilometri a piedi raggiungiamo la piazzetta del paese dove vediamo altri contadini che come noi aspettano l’autobus. Il nonno chiede di farsi accendere la sigaretta ad un suo conoscente. Fa freddo, e tutti si stringono nei loro indumenti di colore opaco. Un gruppo di giovani raggiungono la piazza e tra una sigaretta e l’altra cominciano a parlare di ciò che sta accadendo a Tirana. I giovani dicono che stanno raggiungendo la capitale per sostenere il movimento studentesco che sta combattendo contro il sistema vigente. Nel gruppo c’è un bambino poco più grande di me. Insieme ci mettiamo a tirare le pietre sulle enormi pozzanghere presenti sulla piazza, il gioco sta nel non affogare la pietra nella pozza, ma di farlo saltare affinché raggiunga l’altro lato. Ovviamente i miei tentativi sono vani, continuo a perdere e allora il gioco non mi piace più. Mi sposto e all’orizzonte intravvedo un autobus blu che viene nella nostra direzione. Pochi minuti e ci mettiamo tutti in fila per pagare, salire e prendere posto. Attraversiamo tanti piccoli paesini, Bilalas, Maminas, Vorë ecc. Lo scenario immenso della campagna albanese fa da sfondo a questo lungo viaggio che sembra non finire mai. L’autobus arranca nella sua corsa e soltanto alcune ore dopo riusciamo a raggiungere finalmente la stazione degli autobus di Tirana. Scendiamo tutti, composti, il nonno stringe mani e regala pacche sulle spalle ad alcuni dei giovani che hanno viaggiato con noi. Insieme al mio vecchio ci incamminiamo per la capitale, non è la prima volta che la visito ma ogni volta che sono in questa città mi sento felice perché Tirana è bella e pulita e la gente qui sorride molto di più che nel villaggio. Comincio a sentire la stanchezza del viaggio e comincio a lamentarmi con il nonno al quale chiedo di prendermi in braccio. “Ninì, il tuo vecchio è andato e tu sei una signorina ormai”, dice sorridendomi mentre scuote la testa. Nella fredda Tirana c’è uno strano fermento, si percepisce che sta accadendo qualcosa. Finalmente,  raggiungiamo la piazza Skandërberg. Ci sono tantissime persone, di cui la maggioranza sono giovani, moltissimi i studenti. Ad un certo punto vedo carri  armati che irrompono in piazza nel tentativo di scomporre i gruppi e sterilizzare la protesta dei giovani. “O gjysh, çfarë janë këto [Nonno, cosa sono?]” gli chiedo. “Ninì, sono come le macchine, delle armi che servono a quei criminali per difendersi.” dice il nonno, e poi aggiunge “Guarda, che spettacolo!”. Le migliaia e migliaia di persone si scontrano a colpi di pietre con la polizia, che risponde con lacrimogeni e manganellate. Al culmine degli scontri, i poliziotti vengono annichiliti dalla folla di studenti che sono immensamente superiori per numero alle forze dell’ordine. Il nonno cerca riparo in uno dei palazzi, non siamo soli, con noi ci sono altri genitori, anche loro con figli più o meno grandi rispetto a me. Dinanzi a noi si spiega uno scenario incredibile, uno di quelli che neppure un film di alta tensione può regalarti. “Da quanto tempo ho sperato arrivasse questo giorno.” dice il nonno mentre mi stringe forte la mano e per un istante il suo volto tradisce i suoi modi austeri di fare liberandosi e regalandosi quella gioia nel volto che non gli avevo mai visto dipinto negli occhi. Da lontano vediamo studenti e operai che si danno da fare attorno alla statua, sembrano delle piccole formiche, e grazie a delle corde gli studenti riescono a buttarla giù in pochi attimi. Si concludeva così quel periodo storico che avrebbe portato successivamente a tanti mutamenti nella nostra piccola società, ma una cosa oggi mi preme in quanto cittadina e protagonista di quegli avvenimenti, e a nome di quella storia, e a nome del popolo albanese chiedo allo Stato che vengano messi in discussione le scelte politiche adottate in quegli anni; c’è bisogno di chiarezza, c’è bisogno che qualcuno si prenda delle responsabilità nel denunciare i criminali di guerra, i politici, gli artisti e gli intellettuali di Enver Hoxha affinché siano chiari a tutti i protagonisti e gli antagonisti di quell’epoca con cui non abbiamo fatto ancora i conti. 

Bujar Lako

Bujar Lako: quel padre che non ho avuto

“Pronto? Ciao Anita.” “Buongiorno Sig. Lako, che piacere la sua chiamata.” “Chiamami Bujo, per favore. Ho letto la tua sceneggiatura e l’ho trovata bellissima, poetica e non ho potuto non amare il personaggio di Ibrahim, il ruolo che hai pensato per me. Allora ci vediamo l’8, ti vengo a prendere all’aeroporto. La mia è una macchina piccola, ti dispiace se ti vengo a prendere con quella?” mi chiede. “Ma no, figurati, anzi, grazie mille per la tua disponibilità.” Venerdì 8 giugno 2012, dopo quasi 15 anni che avevo lasciato il mio Paese natale, decido di fare ritorno in Albania. Quando la portiera dell’aereo si apre, mi si stringe lo stomaco per l’emozione. Le gambe mi si muovono con fatica. Mi affaccio dall’uscio della carlinga ed il profumo mi avviluppa in un abbraccio, silenzioso. Sono tornata a casa. Poi, con la mia piccola valigia mi avvio verso la dogana, di quella linea invisibile che ci divide dall’UE. “Ecco, la mia carta d’identità” dico al poliziotto. Lui mi guarda, e mi fa un sorriso. Poi con un tono di voce basso, mi dice “Bentornata signorina Likmeta.” Nell’atrio dell’aeroporto mi guardo intorno. Non vedo nessuno che conosco, tuttavia le facce mi suonano come familiari. “Anita, sono qui. Girati!” una bellissima voce, mi chiama. È lui, Bujar Lako. Gli vado incontro, lui mi abbraccia paternalmente, ma io sono molto timida e ancora troppo incredula di essere tornata nello stesso Paese dal quale, tanti anni prima, ero scappata. “Bujo, grazie per essermi venuto a prendere. Sei molto gentile.” “Non potevo lasciarti sola.” ed io, sempre più timida, accenno ad un sorriso, seduta accanto alla sua macchina color arancio. Poi, la strada verso la capitale. Abbasso il finestrino, e osservo tutti quei cartelloni. Tutto è così diverso qui. “È cambiato, vero?” mi chiede lui. “Non è più come te lo ricordi, immagino.” aggiunge. Con le lacrime agli occhi, accenno un “sì”. Allora lui, mi appoggia una mano sulla testa, come fanno i padri con le loro figlie, il padre che io non ho mai avuto. Rimane in silenzio, aspettando che io dica qualcosa. “Mi si stringe il cuore se ti vedo così. Dai che stasera ti porto a mangiare cibo albanese, la cucina italiana la mangerai quando rientri a Roma.” Arrivati in centro a Tirana, lascio la valigia in albergo, per poi scendere di nuovo e andare a fare un giro per la città. Ci fermiamo ad un Bar in centro. Ci sediamo. “Un succo di frutta per me.” dice Bujo al cameriere, “lo stesso, grazie” chiedo al cameriere. “Allora, dimmi un po’: sei appena tornata dalla Francia, ti stai laureando, mi hanno dette cose belle di te.” mi dice sorridendo. “Faccio quello che mi piace, non sempre è facile. Come questa sceneggiatura.” gli dico, e mentre cerco di scrollarmi l’imbarazzo, una sagoma di uomo ci raggiunge. “Eccolo, lui è il grande Dritan Huqi, un giovane produttore che stimo molto.” dice Bujo, con gli occhi pieni di fierezza per il suo amico. “Allora Dritan, dovresti leggere la sceneggiatura di Anita, è piena di poesia. Sarà un bel film. Il mio ruolo è quello del nonno della bambina, la protagonista. Dai Anita, leggi una piccola parte, ti prego.” Apro la sceneggiatura, e vado a leggermi la parte finale del film, che è un monologo. Passano circa 5 minuti, e quando alzo la testa chiudendo l’ultima frase del monologo, Bujo ha gli occhi pieni di lacrime. Poi la sera scende su Tirana, quando la preghiera dell’Imam suona il suo rituale in tutta la città. Sabato 9 giugno 2012. Sono le 7 del mattino, e io sono già nel bar dell’albergo a fare colazione. Bujo mi raggiunge, ha portato con sé un grande libro. “Eccoti, questo è un libro che hanno pubblicato, e dove è riportata tutta la mia carriera.” dice lui mentre me lo autografa. “Allora facciamo così, scriverò anch’io qualcosa qui accanto, perché mi voglio ricordare di questo giorno per sempre.” gli dico, e prendo a scrivere. Bujo mi porta a vedere il teatro Nazionale di Tirana, poi tutto il Boulevard, le viuzze della città. Sono meravigliata nel vedere case che cadono a pezzi, accanto ai palazzi magnifici. “Io penso che c’è ancora molto da fare qui in Albania. Personalmente credo che la diaspora albanese darà comunque i suoi frutti, vedrai che nel tempo molti rientreranno portando con sé le loro esperienze e capacità. Io credo che l’Albania giocherà sempre un ruolo importante nella politica estera. Così lo é stato nel passato, e continuerà ad esserlo.” dice Bujo. “Non é semplice pensare di rientrare per me, come non lo credo lo sia per tutti gli altri. Ognuno di noi si è costruito una vita altrove, e ricominciare daccapo sarebbe traumatico per me; ho investito tutta la mia vita ad integrarmi in Italia, e l’ho fatto non soltanto attraverso la cittadinanza che ho appena acquisito, ma proprio ho incorporato quella cultura, l’ho fatta mia. Il mio modo di ragionare è frutto del mio viaggio in Italia e poi in Francia.” rispondo. “Lo capisco. Ma sai Anita, prima o poi, nella vita, si ritorna sempre da dove si è partiti. Si torna sempre a casa.” dice lui, e poi scuote la testa, burlandosi di me. La giornata continua tra discussioni politiche accese, e le storie di grandi attori. Poi Bujo convince il suo amico Dritan ad accompagnarci fino al paese dove sono cresciuta. Arriviamo a Maminas; la strada è completamente diversa, saliamo verso Bilalas fino ad arrivare a Rrubjekë. Scendo dalla macchina. “Bujo, non posso andare senza portare un mazzo di fiori.” Bujo si aggira per la piazza, e assieme, troviamo un piccolo negozio che vende dei fiori, anche se di plastica. Felice di aver trovato quel piccolo dono, mi avvio verso il cimitero, mentre Bujo e Dritan rimangono fuori ad aspettarmi. Sono rapita da un fiume di lacrime nel vedere quel camposanto abitato da così tante persone che avevano riempito con la loro presenza la mia infanzia. Dopo 15 minuti circa, poggio i fiori sulle tombe dei nonni, e raggiungo la macchina. Dritan si mette alla guida, Bujo gli è seduto accanto mentre io sono sul sedile posteriore; ancora non riesco a smettere di piangere mentre ricordo i miei nonni. Raggiungiamo Lalsi dove pranziamo. Qui, a Lalsi, è pieno di palazzi in costruzione; vedo il mare, e si mangia benissimo. Finito di mangiare, Bujo vuole che andiamo anche a Durazzo. Si sta facendo buio, ma lui me lo aveva promesso, e non vuole venire meno alla sua parola. Durazzo. È sera. Piena di gioventù, la città è completamente diversa rispetto a come l’ho lasciata io nel 1997. Un lungo giro, e siamo pronti per rientrare a Tirana. Ho viaggiato per la prima volta sull’autostrada Tirana-Durazzo: non ci sono più le buche che ricordavo. Ad ogni chilometro che faccio, vedo fabbriche, soprattutto italiane. Durante il viaggio, Bujo mi racconta un po’ la storia post anni ’90. Bujo non si stanca mai di ripetere quanto importante sia la democrazia e il viaggio verso la Comunità Europea; non lo ritiene una opzione, ma l’unica possibilità credibile da percorrere per un Paese come l’Albania. Bujo crede nell’integrazione, nel multiculturalismo, crede nel viaggio dell’individuo come l’unico modo per vincere se stessi. Una volta raggiunta Tirana, vengo accompagnata in albergo. “Allora, fai un buon viaggio di rientro. Poi ci sentiamo con calma per parlare del film. Continua ad essere come sei, e sorridi più spesso, perché sei bella; non nasconderti. Per qualsiasi cosa, Bujo c’è.” mi dice, e poi mi stringe in un abbraccio eterno. Vado a dormire. Al risveglio, sono le 5 del mattino, chiamo un taxi che poi mi porta all’aeroporto. All’arrivo in dogana, il cellulare vibra, un messaggio: “Cara Anita, grazie per essere venuta fino a qui. Ho apprezzato ogni momento che abbiamo trascorso in questi due giorni. Leggere la tua sceneggiatura, mi ha aiutato a capire la persona che sei. Lo so che potrei sembrare fuori luogo, ma io credo che ogni uomo avrebbe voluto avere una figlia come te. Sei in gamba e talentuosa; sei piena di luce. Non cambiare mai. Ognuno di noi ha i suoi demoni da combattere, le sue partite da vincere, la sua vita da compiere, ma ti prego, e te lo chiedo da padre, non lasciare mai che la vita ti indurisca. Continua a lottare, perché tutto andrà bene.” Buon viaggio a te Bujo, e grazie per essere stato per me, in tutti questi anni, il padre che non ho mai avuto.

La fuga dal Kashmir di Adnan per salvarsi la vita

Per salvarsi, ha attraversato la Libia, la Siria, la Turchia approdando in Italia dopo aver pagato 20 mila dollari ai mercanti di esseri umani. Ora – cameriere in un ristorante cinese del Milanese – è un uomo felice anche se una laurea in Fisica e Matematica autorizzavano ambizioni diverse. Adnan d’altra parte è consapevole che restare nel suo amato Paese – il Kashmir – significava andare incontro a morte sicura. Figlio di un insegnante e di una casalinga, Adnan militava nella Alleanza Nazionale per la liberazione del Kashmir. Il movimento è stato fondato da suo zio che, nel 2012, è stato assassinato: “Per capire il motivo – dice lui – converrebbe chiedere lumi ai servizi segreti del Pakistan. Nel Kashmir, possono candidarsi alle elezioni soltanto partiti politici che firmano un manifesto di fedeltà al governo pakistano”. I motivi che portarono Adnan ad arruolarsi nel movimento e a combattere sono chiari. Prima di tutto il Kashmir è un formidabile produttore di energia elettrica e fornisce tutto il Pakistan, mentre il 40% dei suoi villaggi sono privi di luce. Non c’è rete ferroviaria, nel Paese. Le scuole di base cadono a pezzi. Nelle università pakistane il numero chiuso vale solo per i cittadini del Kashmir. Su cento studenti di Ingegneria Medica, ad esempio, soltanto cinque sono del Kashmir. Successivamente alla morte dello zio, Adnan ha organizzato con altri militanti varie manifestazioni. È stato arrestato per tre volte fino a quando – sempre nel 2012 – è stato rapito da uomini incappucciati, imprigionato, interrogato per quindici giorni, picchiato, umiliato e gettato quasi esanime in un bosco. Salvo per miracolo, Adnan si è trovato di fronte a un bivio. Se il cuore gli diceva di continuare a combattere, la mente e soprattutto il padre gli hanno imposto un viaggio della salvezza verso la Gran Bretagna. Costo 20 mila dollari. Alla fine, i trafficanti di esseri umani hanno deciso – senza interpellarlo – di depositarlo in Italia dove gli è stato riconosciuto lo status di rifugiato politico. E di nuovo Adnan – mentre serve involtini di primavera in un ristorante cinese – si trova ad un bivio. Oggi che può viaggiare liberamente nei 28 Paesi dell’Unione Europea, sogna una vita migliore (anche perché la Cina è un altro storico nemico del suo popolo). Vorrebbe insegnare Fisica o lavorare nell’industria atomica, avendo tutte le competenze per farlo. Queste le ipotesi razionali. Ma il cuore di nuovo lo spingerebbe verso la militanza politica in favore del Kashmir. Il suo parere sull’immigrazione? Finché ci saranno nazioni in rovina, ci saranno uomini e donne e bambini costretti alla fuga. E posti più fortunati come l’Europa sono la mèta della loro disperazione. Solo se le grandi potenze mondiali si impegneranno per chiudere i focolai di crisi dei Paesi in disfacimento, si potrà arginare l’onda degli immigrati.

La piccola Angela Merkel, figlia di profughi siriani, simbolo della sottomissione al sistema tedesco

Mamon e Tema Alhamza sono una giovane coppia siriana arrivata in Germania a ottobre del 2015. Oggi vivono nel campo profughi di Duisburg. La signora Alhamza il 27 dicembre ha dato alla luce una bambina chiamandola con il nome più tedesco che c’è: Angela Merkel. Proprio così: Angela Merkel, in onore del Cancelliere tedesco. La piccola Angela Merkel, nata di 3 chili e 300 grammi e lunga 55 centimetri, e la sua mamma Tema stanno bene e sono stati seguiti dall’équipe dell’ospedale St. John di Duisburg. Gli Alhamza sono originari del nord della Siria. I due giovani hanno deciso di emigrare a causa dei combattimenti cruenti tra il Daesh e i curdi. La signora Alhamza era incinta quando si è imbarcata per il viaggio verso l’Europa. “Qui, l’ospedale è fantastico, meglio che in Siria. Mi hanno trattata benissimo”, dice la signora Alhamza. “La Germania è come una madre per noi. Io posso vedere soltanto qui il futuro della mia famiglia”, conclude il padre di Angela Merkel. La piccola Angela Merkel, che gode di ottima salute, è stata registrata all’Ufficio anagrafe della città di Duisburg che non ha fatto obiezioni ai genitori che volevano dare come nome della bambina il nome e cognome del Cancelliere tedesco. Questo non è un fatto del tutto nuovo. Un’altra coppia, originaria del Ghana, ad agosto 2015 ha dato il nome e cognome del Cancelliere tedesco alla propria figlia e secondo la stampa tedesca il numero di queste Angela Merkel di importazione è in continua crescita. In Italia non ci sono casi di immigrati che hanno deciso di chiamare il loro figlio con il nome del presidente del Consiglio Matteo Renzi o di Silvio Berlusconi, scelta che forse non passerebbe neanche il vaglio della nostra anagrafe. Tornando al Cancelliere Angela Merkel e ai suoi numerosi fan arabi che la omaggiano nel modo più simbolico possibile, mi ritorna in mente la guerra inAlbania nel 1997. Ricordo, avevo undici anni, quando una moltitudine di immigrati, contadini dell’entroterra albanese o magari avanzi di galera, videro nella nostra guerra civile la possibilità di scappare e rifarsi una vita in Italia. Tanti di loro chiedevano ai loro figli di inscenare momenti di disperazione. Ricordo addirittura, nella piazza della scuola elementare, quando alcuni genitori ordinavano ai bambini di piangere se solo vedevamo un italiano. Ricordo che dovevamo essere gentili: insomma, noi bambini dovevamo impietosire. In quel periodo, molte donne che diedero alla luce figlie femmine le chiamarono Italia in onore del Paese che si credeva magico dalle nostre parti. Nel caso di figli maschi, i nomi erano Klajdi (Claudio), Marjo (Mario), Xhuzepe (Giuseppe). Alcuni conterranei, che erano partiti con la famosa nave del 1991 e successivamente rientrati, addirittura si prendevano gioco di noi dicendoci che in Italia i soldi crescevano sugli alberi. Per noi bambini l’Italia era un sogno meraviglioso, una terra promessa, sicché impietosire il Signor Pietro della Croce Rossa che distribuiva astucci, quaderni e grandi abbracci aveva un senso. Le numerose Angela Merkel in Germania dai tratti arabeggianti non sono solo un omaggio, ma anche una dichiarazione di sottomissione totale al sistema tedesco. Spesso i bambini rappresentano una polizza assicurativa per gli immigranti perché appunto impietosiscono. Ricordo quando ero una bambina che l’insegnante albanese di lettere ci leggeva una massima scritta dal principe di Marsillac, François de La Rochefoucauld, uno scrittore e filosofo del XVII secolo. Il filosofo francese diceva che “spesso l’umiltà non è altro che una finta sottomissione di cui ci si serve per sottomettere gli altri”.

Esraa nel campo profughi si veste da uomo per non essere violentata

Esraa al-Horani è una make up artist che per fuggire le avances di uomini si veste da uomo e ha smesso di lavarsi. Esraa, oggi, vive in un campo a Berlino, in una struttura posta su due piani in cui ci sono soltanto due bagni. Il campo ospita 120 rifugiati di cui 40 donne e 80 uomini. Esraa ogni notte prima di addormentarsi spinge l’armadio per bloccare ogni entrata nella sua stanza. “Non vi è alcun blocco o chiave o altro”. Poi aggiunge: “Sono stata solo picchiata e derubata”. The migrants' path: How Esraa al-Horani dressed as a boy, stopped washing to ward off men @kbennhold #iamamigrant https://t.co/6xUPVhXbu7 — Leonard Doyle (@LeonardDoyle) January 3, 2016 Un’altra donna siriana immigrando verso la Germania è stata costretta a pagare il debito contratto dal marito offrendo il proprio corpo come baratto, merce di scambio. Un’altra donna è stata picchiata pesantemente da una guardia carceraria ungherese fino a rimanere in uno stato di incoscienza poiché non aveva corrisposto alle sue lusinghe. Le storie di coloro che intraprendono il viaggio della speranza non sono mai facili da raccontare ma ancor più difficile è il viaggio delle donne di questa parte di mondo. C’è chi vive in un perpetuo stato di violenza e tace come consuetudine sociale, c’è chi paga i debiti del padre, del fratello o del marito, c’è chi, come alcune donne che ho conosciute personalmente, vivono le loro giornate maledicendo ripetutamente il giorno della loro nascita. Nascere donne in certi luoghi e certe realtà è un male. Così tutte queste donne si imbarcano per il viaggio della salvezza. Queste donne escono dal loro ruolo di “immobilità”. Queste donne sono Ulisse e la loro potenza è in questo viaggio. L’immigrazione di massa ha amplificato la violenza contro le donne. Matrimoni forzati, violenza domestica, traffico sessuale e la tratta di organi umani vengono continuamente segnalati nelle interviste dalle migranti che denunciano con le loro storie colleghi profughi, i maschi del loro clan e agenti di polizia europei. L’Istituto tedesco per i diritti umani e l’Onu affermano che nonostante l’immigrazione femminile negli ultimi anni sia cresciuta rimane tuttavia inferiore rispetto a quella maschile. Uno dei motivi che facilita la violenza nei campi di accoglienza è il sovraffollamento, la mancanza di illuminazione in alcuni casi, ma soprattutto il fatto che uomini donnee bambini dormano nelle stesse aree. Nonostante le segnalazioni di violenza da parte di alcune donne molte altre tacciono silenziose per paura dei loro mariti o capo clan. Queste donne sono ombre sotto l’ala dei loro uomini. Esistenze soffocate.

Attraverso gli occhi di Ali, il migrante che ha perso tutto

Mi chiamo Ali al-Saho. Sono un uomo che poco più di due settimane fa ha perso la moglie e i sette figli nel Mar Mediterraneo. Vengo dalla Siria. Io, mia moglie, e i miei sette figli partimmo su un barcone da Çeşme in Turchia alla volta dell’isola greca Helios. Ricordo lucidamente che faceva molto freddo quel giorno. Guardavo gli occhi di mia moglie che mi sorrideva mentre si prendeva cura del nostro ultimo figlio di venti mesi. Quanti pensieri prima della partenza. Partire per l’Europa significava per me e mia moglie una possibilità per le nostre vite, i nostri figli. In Siria si continua a massacrare e a distruggere e il futuro non promette nulla, eppure me lo dicevo quando ero lì, me lo ripetevo quasi tutti i giorni “Non partire via mare Ali. Per quanto sia difficile prova a rimanere in Siria”. Alla partenza mi dissero che il viaggio sarebbe stato breve, che sarebbe durato soltanto 15 minuti. Ho pagato ai contrabbandieri la cifra di 4.600 euro. Ci siamo imbarcati, tutti noi. Magari potrebbe sembrare una cifra esigua per qualcuno ma per me è stato un prezzo molto alto, altissimo perché in quel breve viaggio ho perso tutta la mia famiglia. In questi giorni ho riconosciuto i corpi di quattro dei miei figli, gli altri risultano scomparsi. Vivo queste ore completamente angosciato. Nessuno mi restituirà la mia famiglia. I contrabbandieri non si faranno avanti per restituirmi i soldi. Ho perso due volte. In questi giorni ci sono giornalisti che mi cercano, vogliono che rilasci dichiarazioni su quello che provo o del motivo della mia partenza. Mi sento preso in giro. Fra me e questi giornalisti che mi guardano con gli occhi pieni di pietas si è creato un rapporto sociale umano mediato dalle immagini, le foto che puntualmente mostro di me e della mia famiglia assieme quando eravamo sorridenti in Siria, che oggettivano al mondo una visione. So che avete festeggiato il Natale, faccio i miei auguri a chi lo sa festeggiare tutti i giorni. Sicuramente tra una pietanza e l’altra avete parlato anche di quelli come me. Chissà come realmente ci vedete. Chissà quante illusioni avete consumato! Chissà quante immagini le trasmissioni e giornali hanno e continuano ad esporre. Penso che in qualche aspetto la mia vita non è così distaccata dalla vostra. Ciascun aspetto delle nostra vita si fonde in un corso comune, dove l’unità della vita stessa non può più essere ristabilita. Ho fatto richiesta di asilo politico in Europa, voglio andarmene da qui. Non posso tornare indietro. Non me lo posso permettere. Troppo dolore. Eppure a chi me lo chiede in Siria dico di non partire, che forse non ne vale la pena rischiare così tanto. So che a breve i giornalisti e la televisione avranno ampiamente consumato la mia storia e non ci sarà più nulla da dire. Mi sento morire all’idea di sopravvivere alla mia famiglia e mi fa impazzire che nessuno ascolti il mio urlo. Mi aggrappo su un precipizio. Non voglio cadere giù, non voglio essere ingoiato da Scilla e Cariddi. Ho bisogno di aiuto. Ho bisogno di vivere. Ho bisogno che vi esponiate a darmi una mano. Non abbandonatemi qui. Non sono un terrorista. Io sono terrorizzato! (Lettera immaginaria scritta da Anita Likmeta)