Attraverso gli occhi di Ali, il migrante che ha perso tutto

Mi chiamo Ali al-Saho. Sono un uomo che poco più di due settimane fa ha perso la moglie e i sette figli nel Mar Mediterraneo. Vengo dalla Siria. Io, mia moglie, e i miei sette figli partimmo su un barcone da Çeşme in Turchia alla volta dell’isola greca Helios. Ricordo lucidamente che faceva molto freddo quel giorno. Guardavo gli occhi di mia moglie che mi sorrideva mentre si prendeva cura del nostro ultimo figlio di venti mesi. Quanti pensieri prima della partenza. Partire per l’Europa significava per me e mia moglie una possibilità per le nostre vite, i nostri figli. In Siria si continua a massacrare e a distruggere e il futuro non promette nulla, eppure me lo dicevo quando ero lì, me lo ripetevo quasi tutti i giorni “Non partire via mare Ali. Per quanto sia difficile prova a rimanere in Siria”.

Alla partenza mi dissero che il viaggio sarebbe stato breve, che sarebbe durato soltanto 15 minuti. Ho pagato ai contrabbandieri la cifra di 4.600 euro. Ci siamo imbarcati, tutti noi. Magari potrebbe sembrare una cifra esigua per qualcuno ma per me è stato un prezzo molto alto, altissimo perché in quel breve viaggio ho perso tutta la mia famiglia. In questi giorni ho riconosciuto i corpi di quattro dei miei figli, gli altri risultano scomparsi. Vivo queste ore completamente angosciato.

Nessuno mi restituirà la mia famiglia. I contrabbandieri non si faranno avanti per restituirmi i soldi. Ho perso due volte. In questi giorni ci sono giornalisti che mi cercano, vogliono che rilasci dichiarazioni su quello che provo o del motivo della mia partenza. Mi sento preso in giro. Fra me e questi giornalisti che mi guardano con gli occhi pieni di pietas si è creato un rapporto sociale umano mediato dalle immagini, le foto che puntualmente mostro di me e della mia famiglia assieme quando eravamo sorridenti in Siria, che oggettivano al mondo una visione. So che avete festeggiato il Natale, faccio i miei auguri a chi lo sa festeggiare tutti i giorni. Sicuramente tra una pietanza e l’altra avete parlato anche di quelli come me. Chissà come realmente ci vedete. Chissà quante illusioni avete consumato! Chissà quante immagini le trasmissioni e giornali hanno e continuano ad esporre. Penso che in qualche aspetto la mia vita non è così distaccata dalla vostra. Ciascun aspetto delle nostra vita si fonde in un corso comune, dove l’unità della vita stessa non può più essere ristabilita.

Ho fatto richiesta di asilo politico in Europa, voglio andarmene da qui. Non posso tornare indietro. Non me lo posso permettere. Troppo dolore. Eppure a chi me lo chiede in Siria dico di non partire, che forse non ne vale la pena rischiare così tanto. So che a breve i giornalisti e la televisione avranno ampiamente consumato la mia storia e non ci sarà più nulla da dire. Mi sento morire all’idea di sopravvivere alla mia famiglia e mi fa impazzire che nessuno ascolti il mio urlo. Mi aggrappo su un precipizio. Non voglio cadere giù, non voglio essere ingoiato da Scilla e Cariddi.

Ho bisogno di aiuto. Ho bisogno di vivere. Ho bisogno che vi esponiate a darmi una mano. Non abbandonatemi qui. Non sono un terrorista. Io sono terrorizzato!

(Lettera immaginaria scritta da Anita Likmeta)

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Le favole a cui non credo
Java e il pianoforte, ovvero qual è il posto delle donne
Italia Albania: Let’s get physical
Lo ius scholae oltre gli interessi di bottega