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Scutari: culla della cultura albanese

Questa rubrica nasce con il desiderio di raccontare attraverso immagini e parole l’Albania. Siccome molti di voi mi scrivono per chiedermi informazioni sulle città da visitare, sulle tradizioni, sulla cucina, i costumi, le tradizioni e soprattutto sulle spiagge, ho pensato di dedicare un post alla settimana per raccontarvi un po’ di più del Paese che mi ha dato i natali. Parto dal nord dell’Albania, e la prima città che merita assolutamente attenzione è Shkodër, o meglio conosciuta con il nome di Scutari. Scutari. Scutari è un comune di 135 612 abitanti e prefettura omonima. La città è situata a nord ovest del Paese, tra le sponde del Lago di Scutari, vicino al fiume Drin, Buna e Kir e le Alpi dinariche. Scutari è considerata la culla della cultura albanese, la Firenze dei Balcani. Fondata tra il V-IV secolo a.C., si pensa che la città fosse abitata già dall’età del bronzo. Successivamente vi si stabilirono gli Illiri e nel 168 a.C. la città fu la protagonista della terza e ultima battaglia della guerra illirica che pose fine al regno di Genzio. Successivamente i romani fecero di Scutari un importante punto di snodo per il commercio e dopo la morte di Teodosio il Grande, Scutari venne compresa nell’Impero romano d’Oriente, fino al VII secolo quando l’imperatore Eraclio cedette la città ai serbi. Il dominio dell’Impero Ottomano. Per Scutari si susseguirono decenni e secoli di dominazioni: Bulgari, Bizantini, Serbi fino ai Veneziani e quest’ultimi fortificarono il castello cittadino e redassero gli Statuti di Scutari. Nonostante ciò, dopo la morte di Skanderberg, l’eroe nazionale albanese, la città si trovò a scontrarsi duramente contro gli ottomani, i quali ebbero la meglio persino contro i Veneziani, che dopo mesi di dura lotta in Albania, abbandonarono la città ritirandosi. Il dominio ottomano in Albania è durato 4 lunghi secoli, nei quali Scutari ebbe un ruolo fondamentale per il commercio, vista la sua posizione geografica strategica. Nel 1867 la città venne riconosciuta come un sangiaccato ed eretto al rango vilayet. Le guerre balcaniche. Durante il periodo delle guerre balcaniche , la città venne assediata dalle truppe montenegrine e serbe per poi essere liberata il 23 aprile 1913 quando gli ottomani si arresero ai Montenegrini. Nonostante il Regno di Montenegro Serbia avesse mire sulla città, la Conferenza di Londra riconobbe Scutari come una città del Principato d’Albania. Ma presto la città cadde nuovamente nelle mire espansionistiche del Montenegro, il quale, subito dopo la prima guerra mondiale, assediò la città fino a quando, nel 1916, l’esercito austroungarico si prese la città. Scutari venne presa dalle truppe dell’Intesa il 30 ottobre 1918. Oggi, sono accorpati alla città di Scutari i comuni di Ana e Malit, Velipojë, Postribë, Rhethinat, Gur i Zi, Berdicë, Dajç, Shalë, Pult e Shosh. Monumenti. Castello di Rosafa. Il castello di Scutari, o il castello di Rosafa, venne costruito nel IV secolo a.C ed è considerato il monumento più importante e si trova in collina alle porte della città. Cattedrale di Scutari. La cattedrale “Kisha e Madhe” (ovvero Chiesa Grande), venne visitata dal Papa Giovanni Paolo II nel 1993 e rappresenta per i cattolici un punto centrale della vita cittadina. L’orologio inglese. Il lord inglese Paget promosse l’opera finanziandola con ingenti fondi al fine di donare alla città un nuovo punto d’incontro. Il lord aveva come obiettivo quello di diffondere il protestantesimo e per farlo optò per la costruzione di un castello medievale, che ricordava l’Albania feudale, al fine di incoraggiare la cittadinanza ad un’attiva partecipazione. Altri monumenti importanti sono la Cattedrale ortodossa della Natività di Gesù, la Chiesa di San Francesco, il Santuario della Madre del Buon Consiglio, Moschea di Piombo, Moschea di Parrucë, Moschea Ebu Beker, Ponte di Mes, Teatro Migjeni e il Museo Marubi.

Donne in fuga dalla guerra in Siria.

Un fuggire transitivo

Mi capita spesso, ultimamente, di sentire un forte senso di apatia, di sentirmi inerme dinanzi al frastuono delle notizie quotidiane, alle urla, alla banalità, al turpiloquio, alla mise en scene bieca e oscena a cui ci hanno abituato i talk show, tutti i talk show. Eppure li guardo sugli schermi di tutti i telegiornali, quelle immagini e storie che ti stuprano l’anima, quegli occhi di quegli uomini e donne che aspettano su tutte le Diciotti, o nei campi profughi. Le speranze nutrite, le attese nei luoghi comuni. L’ansia perché in questa storia ti è capitato di raffigurare l’individuo diverso, l’altro, che in fondo gli altri siamo tutti noi. L’uomo senza Stato, l’uomo abbandonato, l’uomo senza Storia, l’uomo vinto. L’essere transitorio, in questo tempo che si piega attraverso i permessi negati, e l’umanità inasprita dentro le poesie mai lette che si trovano nelle tasche di coloro che non conosceranno mai il risveglio in quel tempo di quel luogo sognato. Conosco quegli occhi, sono anche i miei, mentre mi cerco ancora tra un libro e un articolo, un decreto legge, forse. Non sono mai riuscita ad abituarmi alla mia nuova condizione di cives libero, è come se una parte di me fosse rimasta ancora lì, sul porto di Bari, che vent’anni fa mi dava rifugio. Fuggire è una condizione dell’uomo da tempi immemorabili, fuggiamo tutti in qualche maniera. Da una terra che non ci dà opportunità per crescere, da una situazione familiare, da una relazione che ci sta stretta, o semplicemente da una vita che ci imprigiona. Ecco, che fuggire assume un significato più ampio, un diritto legittimo di cui non potremmo privarci. Sono nata nella città di Durazzo, e cresciuta tra le colline e montagne albanesi che si affacciano sul Mar Adriatico. L’Albania è piena di laghi e fiumi, di cui da piccola, ne seguivo il corso che puntualmente approdava sulla spiaggia di Lalzi, a pochi chilometri da Durazzo. Sono rimasta sempre molto colpita dall’immagine dei fiumi che vedevo concludersi sul Mare Nostrum; trascorrevo ore e ore per cercare di capire dove finisse tutta quell’acqua dolce. I fiumi sono tutti diversi, ci sono quelli impetuosi, quelli risoluti, quelli lenti, quelli fangosi, quelli informi, quelli rassegnati, e quelli a delta che appaiono solenni. E questi fiumi si mischiano all’acqua salata, altri la sporcano, altri deviano, altri ancora irrompono, distruggono, e infine, al tramonto della stagione invernale, mi è capitato di osservare un fiume che sembrava danzasse con il mare. E anche il Mare non riceve allo stesso modo, come la costa non consente a tutti i fiumi di abbandonarsi nella stessa maniera. La vita di una natura che combatte anche con se stessa, il racconto geologico di un viaggio che non conosce la fine. L’incontro di rivoli d’acqua, di pietre sparse, di sabbia muta, di perle preziose. Le nostre, quelle di tutti noi. Fuggire è un verbo transitivo, significa andare verso, perché ogni sistema vivente, che porta in se la complessità, saprà resistere al cambiamento del suo equilibrio.

Strage migranti, il tempo non ha più tempo

Ciao Europa, come state? Siamo le madri, abitanti del fondale del Mediterraneo. Noi vi scriviamo per ringraziarvi di non aver fatto abbastanza per noi al fine che siamo sicure che farete molto per la moltitudine che avverrà, poiché solo attraverso la consapevolezza delle stragi nasce l’esigenza di riparare e di fare per gli altri. Sapete, potremmo essere molto arrabbiate per ciò che ci è accaduto, potremmo nutrire una rabbia “fondale” poiché vi siete sostituiti a Dio decidendo per la nostra morte dal momento che avete taciuto le vostre responsabilità. Qual era il problema? Il petrolio? Soldi? Perché non vi dite la verità? Noi, ormai la sappiamo molto bene. Ma questa lettera non ha la prerogativa di farvi la morale ma di dirvi una cosa fondamentale: noi, vi vediamo da qui. Sì, avete capito bene. Ma soprattutto vi diciamo che siete morti. Proprio così, voi non ci vedete e non ci sentite proprio perché siete morti grandemente. Come facciamo a dirvelo? Perché noi siamo morti solo a noi stessi. In quell’istante, in cui tutto affondò, i nostri respiri e quelli dei nostri figli e cari si sono incontrati, la paura ha smesso di muoverci i cuori. Eravamo liberi. Sapevamo la verità e così le acque ci avvilupparono dolcemente e ci trascinarono nelle profondità di una nuova realtà. Strette gli uni agli altri sapendo che il grande mare nostrum avrebbe battezzato le nostre vite, e si sa che ogni redenzione passa attraverso una morte. La morte dei nostri corpi. Avremmo voluto conoscervi, avremmo voluto comunicare con voi. Anche noi crediamo nell’amicizia, anche se siamo stati traditi per la pochezza materiale. Anche noi non sopportavamo l’ipocrisia, e anche noi saremmo stati capaci di dare amore. Potevamo essere una grande opportunità per tutti. Noi volevamo la libertà alla vita. Perdemmo tutto per ricominciare una nuova esistenza in cui saremmo potuti essere un po’ più protagonisti e non spettatori di una realtà che aveva firmato la nostra morte, da sempre. Noi eravamo la vostra opportunità per diventare altro. Non volevamo affollare le vostre vite e le vostre città dato che non eravamo partiti per vivere nella illegalità ma per lottare per la vita possibile. Noi, siamo coloro che si stringono stretti in fondo alle acque fredde del Mediterraneo. Le nostre lingue non si muovono più. I nostri respiri sono espirati. I nostri occhi, in fondo alle vostre paure, vedono come se fossero dall’altra parte dello specchio e non emergeremo più. Forse, doveva andare così, per noi. La vita ci è stata tolta perché voi non foste abbastanza forti da proteggerci mentre per i nostri governi eravamo solo merce di scambio. Qui sotto è tutto così nitido, così limpida la verità. Come state, voi lassù? Sono una mamma che stringe il suo figlio, e vi sento che ancora parlate. Quanto parlate! Quanto piangete! Dovete avere un mare dentro i vostri stomaci. Lacrime e parole. Cos’è la vita? Secondi, minuti, ore, giorni, settimane, mesi, anni, secoli che si vivono per amore. Ma non lo capite che non c’è più tempo? Se non sapete più morire a voi stessi per far vivere gli altri, in voi regnerà la disperazione, l’incertezza, l’irrequietezza e la paura. La paura che brutto laccio! Crediamo che queste parole nascano dal desiderio di donarci al mondo in estrem(n)a partecipazione e di donarci per amore alle persone indifese e non garantite. Quante bugie sono state dette sulla nostra disgrazia. Ma ciò che ci preme di più è farvi comprendere che dovete invertire la marcia perché state sbagliando direzione. Non c’è più tempo. Il tempo non ha più tempo. Abbiate il coraggio di testimoniare la verità. Buon viaggio a voi. Delle madri, una lettera immaginaria.