Rifugiati

La piccola Angela Merkel, figlia di profughi siriani, simbolo della sottomissione al sistema tedesco

Mamon e Tema Alhamza sono una giovane coppia siriana arrivata in Germania a ottobre del 2015. Oggi vivono nel campo profughi di Duisburg. La signora Alhamza il 27 dicembre ha dato alla luce una bambina chiamandola con il nome più tedesco che c’è: Angela Merkel. Proprio così: Angela Merkel, in onore del Cancelliere tedesco. La piccola Angela Merkel, nata di 3 chili e 300 grammi e lunga 55 centimetri, e la sua mamma Tema stanno bene e sono stati seguiti dall’équipe dell’ospedale St. John di Duisburg. Gli Alhamza sono originari del nord della Siria. I due giovani hanno deciso di emigrare a causa dei combattimenti cruenti tra il Daesh e i curdi. La signora Alhamza era incinta quando si è imbarcata per il viaggio verso l’Europa. “Qui, l’ospedale è fantastico, meglio che in Siria. Mi hanno trattata benissimo”, dice la signora Alhamza. “La Germania è come una madre per noi. Io posso vedere soltanto qui il futuro della mia famiglia”, conclude il padre di Angela Merkel. La piccola Angela Merkel, che gode di ottima salute, è stata registrata all’Ufficio anagrafe della città di Duisburg che non ha fatto obiezioni ai genitori che volevano dare come nome della bambina il nome e cognome del Cancelliere tedesco. Questo non è un fatto del tutto nuovo. Un’altra coppia, originaria del Ghana, ad agosto 2015 ha dato il nome e cognome del Cancelliere tedesco alla propria figlia e secondo la stampa tedesca il numero di queste Angela Merkel di importazione è in continua crescita. In Italia non ci sono casi di immigrati che hanno deciso di chiamare il loro figlio con il nome del presidente del Consiglio Matteo Renzi o di Silvio Berlusconi, scelta che forse non passerebbe neanche il vaglio della nostra anagrafe. Tornando al Cancelliere Angela Merkel e ai suoi numerosi fan arabi che la omaggiano nel modo più simbolico possibile, mi ritorna in mente la guerra inAlbania nel 1997. Ricordo, avevo undici anni, quando una moltitudine di immigrati, contadini dell’entroterra albanese o magari avanzi di galera, videro nella nostra guerra civile la possibilità di scappare e rifarsi una vita in Italia. Tanti di loro chiedevano ai loro figli di inscenare momenti di disperazione. Ricordo addirittura, nella piazza della scuola elementare, quando alcuni genitori ordinavano ai bambini di piangere se solo vedevamo un italiano. Ricordo che dovevamo essere gentili: insomma, noi bambini dovevamo impietosire. In quel periodo, molte donne che diedero alla luce figlie femmine le chiamarono Italia in onore del Paese che si credeva magico dalle nostre parti. Nel caso di figli maschi, i nomi erano Klajdi (Claudio), Marjo (Mario), Xhuzepe (Giuseppe). Alcuni conterranei, che erano partiti con la famosa nave del 1991 e successivamente rientrati, addirittura si prendevano gioco di noi dicendoci che in Italia i soldi crescevano sugli alberi. Per noi bambini l’Italia era un sogno meraviglioso, una terra promessa, sicché impietosire il Signor Pietro della Croce Rossa che distribuiva astucci, quaderni e grandi abbracci aveva un senso. Le numerose Angela Merkel in Germania dai tratti arabeggianti non sono solo un omaggio, ma anche una dichiarazione di sottomissione totale al sistema tedesco. Spesso i bambini rappresentano una polizza assicurativa per gli immigranti perché appunto impietosiscono. Ricordo quando ero una bambina che l’insegnante albanese di lettere ci leggeva una massima scritta dal principe di Marsillac, François de La Rochefoucauld, uno scrittore e filosofo del XVII secolo. Il filosofo francese diceva che “spesso l’umiltà non è altro che una finta sottomissione di cui ci si serve per sottomettere gli altri”.

L’emigrazione e il “diritto di fuga”

“La solitudine non deriva dal fatto di non avere nessuno intorno, ma dalla incapacità di comunicare le cose che ci sembrano importanti o dal dare valore a certi pensieri che gli altri giudicano inammissibili. Quando un uomo sa più degli altri diventa solitario. Ma la solitudine non è necessariamente nemica dell’amicizia, perché nessuno è più sensibile alle relazioni del solitario, e l’amicizia fiorisce soltanto quando un individuo è memore della propria individualità e non si identifica negli altri.” C.G. Jung È trascorso un anno e sono più di quattromila le persone morte nel Mar Mediterraneo. A nulla sono valsi gli appelli, i fiumi di parole spesi nei vari blog, gli articoli di giornali e gli svariati talk show. Ad oggi ci ritroviamo a parlare dello stesso argomento tuttavia senza trovare alcuna soluzione ma, soprattutto, nessuno riesce a donare una visione del fenomeno che vada oltre le ragioni che immaginiamo rispettoalla scelta di chi rischia la vita nel viaggio della speranza. Succede che Frans Timmermans, vicepresidente della Commissione dell’Unione europea, ha annunciato, alcuni giorni fa, che “Bruxelles ha deciso di accelerare sull’Agenda europea sulle migrazioni anticipandola a metà maggio, mentre prima era previsto a metà luglio”. La presidente della Camera dei deputati Laura Boldrini ha scritto al presidente dell’Europarlamento Martin Schulz e alle assemblee dei ventotto paesi che “col ripetersi di queste tragedie l’Unione europea non può non sentirsi chiamata in causa”. Ma la risposta più dura è quella data da Dimitris Avramopoulos, commissario dell’Unione europea agli Affari interni e alle politiche sull’immigrazione, il quale dichiara che “per affrontare alla radice il problema dei flussi migratori, l’Unione europea deve cooperare con i paesi di origine dei migranti, anche se a volte si tratta di dittature. Il fatto che cooperiamo, nel quadro dei processi di Rabat e Kartoum, con alcuni regimi dittatoriali non significa dare loro una legittimità democratica o politica. Dobbiamo cooperare: visto che abbiamo deciso di combattere il traffico di esseri umani, non possiamo ignorare che in alcuni di quei paesi ci sono le radici stesse del problema. Dobbiamo poterli impegnare e mettere davanti alle loro responsabilità, ma ripeto: senza per questo legittimare i regimi”. Timmermans pone come obiettivo quattro priorità ossia “migliorare il meccanismo del sistema di asilo con una maggiore sinergia tra gli Stati membri e assicurando che le regole vengano applicate nello stesso modo in tutti e 28 paesi”. Inoltre è importante secondo il vicepresidente della Commissione “proteggere le frontiere” oltre che “rafforzare le possibilità di Frontex e fare in modo che lo scambio di informazioni sia migliorato”. Il terzo punto riguarda quello di attuare “una politica aggressiva nella lotta all’immigrazione illegale in particolare contro coloro che con l’obiettivo di fare soldi si rendono responsabili delle tragedie dietro il traffico di esseri umani, o l’offerta di navi”. Inoltre Timmermans aggiunge che è fondamentale “migliorare le possibilità dell’immigrazione legale”. Fino a qui tutto bene. Il problema non è la partenza ma lo sbarco. Non voglio parlare del numero dei morti, delle condizioni disumane, dei diritti negati e delle promesse mancate ma cercare di capire profondamente dove va l’onda. Oggi l’immigrazione è finanziata strutturalmente dal capitale e concepita sovrastrutturalmente dalla “retorica del migrante”. Retorica che diviene capitale appoggiata dalle sinistre antiborghesi ultra-capitalistiche. Questa retorica iper-capitalizzata ci vuole tutti apolidi, migranti senza cultura, senza identità, privati di una coscienza oppositiva e di un idioma, dei paria sul piano dei diritti e della stabilità. A proposito di diritto, le stesse sinistre antiborghesi che hanno abbandonato la lotta per la tutela dei lavoratori oppressi promuovendo il mito del cittadino senza documenti e senza identità, o come lo chiamano i francesi sans papiérs, a favore delle logiche de-territorializzanti del fanatismo dell’economia ci dovrebbero portare a pensare che oggi, in fondo, sarebbe più intelligente non favorire l’immigrazione poiché i migranti verrebbero disintegrati e non integrati, tramite i migranti non-migranti, quest’ultimo ridotti al rango dei primi, come capitale per ottenere capitale. Da qui deduciamo che nella retorica dell’immigrazione si manifesta l’iniqua complicità tra il capitale e la sinistra. L’accoglienza di per sé è un atto di civiltà e umanità, il problema continua ad essere il macro-fenomeno dell’immigrazione. Oggi, chi sono i migranti? I nuovi cittadini della frontiera? I migranti appaiono come gli abitatori dei nuovi spazi transnazionali aperti dalle de-territorializzazioni e ri-territorializzazioni della globalizzazione, nuovo crocevia dell’ordine politico sovranazionale. Dinanzi alla moltitudine in partenza da svariati paesi, l’essere denaturalizzato, incompleto, nomade, contaminato di culture, non si chiama più clandestino. La parola “clandestino” che si appoggia alla logica moderna della cittadinanza nel contesto della crisi generale economica promuove la dimensione escludente ovvero il suo significato come nozione prodotta da una costruzione giuridica legittimata dai mass media. Il migrante è paria della terra, privato del senso di appartenenza ai quali vengono concessi briciole di sporadica umanità. Al migrante i diritti vengono stratificati, gerarchizzati al massimo può arrivare ad una ‘denizenship’ ovvero una forma residua e privatistica di contratto di lavoro. Ma perché si emigra dinanzi a queste aspettative? Il migrante trova la sua risposta nella rivendicazione e l’esercizio pratico del diritto di fuga, quest’ultimo è un’opzione soggettiva concepita da fattori oggettivi. Il melting pot si basa su un’ideologia stereotipata dell’altro costruita sull’idea dell’identità e infatti è una falsa coscienza quella che porta a credere la cultura occidentale di essere capace di riconoscere le differenze come atto di superiorità, universalità e soprattutto neutralità. In Diritto di fuga. Migrazioni, cittadinanza, globalizzazione – ombre corte Sandro Mezzadra spiega molto bene il concetto in merito alla questione sostenendo che: “Il linguaggio dei diritti e della cittadinanza non può essere amputato della sua tendenza all’universalizzazione senza rovesciarsi in uno strumento di difesa dello status quo e di legittimazione del dominio”. I movimenti migratori non possono essere fermati poiché sono legati a doppio filo al processo di decolonizzazione, fattore, quest’ultimo, costitutivo della costruzione in età moderna di una comune identità europea e occidentale. Lo storico bengalese Dipesh Chakrabarty nell’espressione “place holder” ridefinisce il neo-universalismo che non può contenere delle normative prescritte ridefinendo “a un tempo le logiche del dominio e il rompicapo della liberazione” per cui la storia non può essere concepita come il risultato univoco dell’applicazione forza propulsiva dell’occidente sui flussi migratori. Il neo-universalismo deve essere capace di stimolare una dinamica nuova ed includente dell’altro. Il diritto di fuga appartiene a coloro che indicano al pensiero la necessità possibile di un nuovo cammino.