Gëzim Hajdari, ci racconti un po’ di lei, delle sue origini, della sua famiglia.
Sono nato nel 1957, in Darsìa. (Lushnje), in Albania, in una famiglia di ex-proprietari terrieri e commercianti, i cui beni sono stati confiscati durante la dittatura comunista di Enver Hoxha. Negli anni ’30 la mia famiglia possedeva due negozi nel pieno centro della città di Lushnje, una macchina, centinaia di ettari di terreni, boschi e bestiame. Mio padre a sedici anni si unì alla Resistenza partigiana. Dopo la guerra studiò a Tirana come geometra-ragioniere. Ha lavorato per alcuni anni presso l’ufficio del catasto di Lushnje, città dove è nata anche mia madre. Nur è una donna semplice e generosa come la madre terra. È cresciuta con le suore italiane, che avevano il convento vicino a casa sua. I suoi genitori lavoravano come agricoltori. Sono molto legato a Nur, che è sempre presente nella mia opera.
Quando mio nonno, Velì Hajdari venne dichiarato kulak, i dirigenti del Partito comunista decisero di licenziare mio padre. La casa di mio nonno veniva frequentata dai dervish, membri della confraternita mistica dei bektashi, di cui faceva parte anche la mia famiglia. Per il resto della sua vita mio padre ha lavorato come pastore di buoi della cooperativa comunista ricevendo a fine mese dallo Stato i soldi che bastavano solo per comprare il pane quotidiano. Ogni mattina, quando andava nei campi, nel sacco, insieme al desinare, Nur gli metteva un romanzo da leggere. Era un grande lettore, amava i classici russi, francesi e inglesi. Nelle notti invernali ci raccontava le saghe che aveva letto durante la giornata. Attorno al caminetto, in silenzio, noi bambini ascoltavamo rapiti.
Spesso, ci commuovevamo al suo raccontare. Alla luce pallida della candela ci lacrimavano gli occhi. Il racconto più struggente fu la storia di Anna Karenina. Una volta mia madre gli disse, mentre asciugava il volto, «Basta Rizà con questi romanzi, i figli si commuovono». Ma egli non smise mai di raccontare ciò che leggeva di giorno mentre pascolava i buoi. Ogni sera ci sedevamo attorno al caminetto, aspettando con impazienza di ascoltare una nuova saga. Il resto della mia vita appartiene alle lotte per la libertà e per la democrazia del mio Paese, denunce contro i crimini della dittatura comunista di Hoxha e contro gli abusi e le speculazioni dei nuovi regimi mascherati, disillusioni, minacce di morte, fughe, esili, condanne al silenzio da parte della mafia politica e culturale di Tirana; più di dodici anni di mestieri diversi come manovale per sopravvivere, sia in Patria che in Occidente, studi infiniti, viaggi in Africa, in Asia e nel sud del mondo testimoniando diverse e dimenticate realtà, spesso rischiando anche la vita.
Lei ha iniziato giovanissimo a comporre poesia, come è nata questa passione?
Ho iniziato a scrivere al primo anno delle medie, all’età di undici-dodici anni. La persona che mi ha fatto innamorare della la poesia è stato mio nonno paterno e poi mio padre, il quale recitava a noi bambini, prima di dormire, i canti epici dedicati ai guerrieri leggendari quali «Mujo», «Halil», «Gjergj Elez Alia» e «Aikuna piange il figlio Omero». Mentre della la lirica popolare mi fece innamorare lo zio di mia madre Selìm. Quando frequentavo le medie nella città di Lushnje, spesso dormivo dai miei nonni materni. Questo accadeva quando faceva brutto tempo e non potevo tornare nel villaggio. Allora preferivo trascorrere la notte presso i miei nonni anziani. Mio nonno era molto affezionato a me, diceva a mia madre che assomigliavo a lui. Suo fratello Selìm aveva fatto il nizam, così venivano chiamati in turco i soldati albanesi che combattevano per conto della Sublime Porta di Istanbul, durante il dominio degli Ottomani nei Balcani.
Egli aveva combattuto in Iran e Iraq per diversi anni. Non si sposò, visse il resto della sua vita con i ricordi degli anni del nizam. Ogni persona che incontrava gli raccontava la sua vita da soldato nei deserti lontani. I suoi racconti mi affascinavano molto. Spesso Selìm, dopo avermi raccontato dei lunghi viaggi per i deserti, degli addestramenti faticosi, delle battaglie feroci con i nemici dell’impero Ottomano, della morte dei suoi commilitoni, iniziava a cantare con una bellissima voce dei canti che raccontavano di tutto questo.
Ho portato sempre con me l’amore per i canti dei nizam. Finché un giorno decisi di tradurre questo patrimonio inestimabile del popolo albanese in italiano. Il volume «I canti dei nizam / Këngët e nizamit» è stato pubblicato nel 2012 da Besa Editrice.
Quali sono stati i primi autori che ha letto e quali quelli che hanno lasciato un’impronta su di lei?
Le opere degli autori che ho letto mentre frequentavo le medie e i primi anni del Ginnasio sono: «Le Quartine» di Omar Khayam; «Il Gulistan» di Saadi Shiraz; «Anna Karenina» di Tolstoj, i racconti di Čechov; le liriche di Puskin, Sergej Esenin ed Éduard Bagrickij; «Il Demone» di Lermontov; «Foglie d’erba» di Walt Whitman; «I quartieri del mondo» di Jannis Ritsos; «Decameron» di Boccacio; «Il De rerum natura» di Lucrezio; «L’inferno» di Alighieri; «La Saga dei Forsyte» di Galsworthy; i racconti dello scrittore indiano Krishan Chander; «Il rosso e il nero» di Stendhal e le liriche di Heinrich Heine. Questi grandi autori, tradotti magistralmente in albanese, hanno segnato per sempre il mio destino di poeta.
Come ha vissuto la relazione con la sua passione durante gli anni del regime?
Gli anni del regime di Enver Hoxha albanese rimarranno sempre un mistero per me, ma anche per gli albanesi. Nessuno di noi sapeva quello che accadeva nel cuore del potere comunista, per non parlare poi dei campi di internamento e delle prigioni. Nulla trapelava al di fuori delle mura dei recinti della dittatura del proletariato. E forse nulla si saprà dato che l’altra metà della verità storica si nasconde negli archivi segreti, ormai ‘ripuliti’, dai regimi post comunisti di Tirana.
Quindi un poeta come me viveva tra passione per la poesia e il terrore. Quando si inaspriva la lotta di classe, la mia famiglia veniva etichettata come nemica del partito comunista, invece quando la lotta di classe viveva un periodo di ‘pausa’ riuscivamo a vivere. Sono testimone vivente di molti arresti: “In nome del popolo siete in arresto!” da parte del Sigurim, la polizia politica del regime. Dopo ogni cittadino arrestato, la gente sussurrava: “Chissà a chi toccherà domani!”. Si poteva finire dietro le sbarre anche per una ‘parola’, per una ‘metafora’ oppure per un ‘sogno’.
Io avevo come compagno di banco nel Ginnasio Jozef Radi, figlio dell’intellettuale Lazer Radi, perseguitato politico, il quale viveva nel campo di internamento di Savër, Lushnje. Davanti al mio Ginnasio di tanto in tanto, passavano i carri militari carichi di uomini, donne e bambini deportati. Venivano da tutte le parti del Paese, per passare il resto della loro vita nei lager della mia città. Mentre furgoni con i finestrini bloccati dalle sbarre, portavano i prigionieri politici. Sono state le letture dei classici che mi hanno ‘salvato’ e, allo stesso tempo, temprato la mia consapevolezza di poeta nei tempi bui della storia albanese. Mentre il paesaggio brullo e mistico della mia provincia collinosa di Darsia mi dava un po’ di conforto negli anni della mia gioventù.
Quando avvenne la scelta di abbandonare l’Albania? Quali furono le ragioni che la spinsero a tale scelta?
Nell’inverno del 1991, sono stato tra i fondatori del Partito Democratico e del Partito Repubblicano della città di Lushnje, partiti d’opposizione, e fui eletto segretario provinciale per i repubblicani nella suddetta città. Sono cofondatore del settimanale di opposizione Ora e Fjalës. Più tardi, nelle elezioni politiche del 1992, mi sono presentato come candidato al parlamento nelle liste del PRA, ma non venni eletto.
Nel corso della mia intensa attività di esponente politico e di giornalista d’opposizione, ho denunciato pubblicamente e ripetutamente i crimini, gli abusi, la corruzione economica e culturale, nonché le speculazioni della vecchia nomenclatura di Hoxha e della più recente fase post-comunista. Anche per queste ragioni, a seguito di ripetute minacce subite, sono stato costretto, nell’aprile del 1992, a fuggire dal mio Paese.
Del resto, capì che il cosiddetto cambiamento democratico albanese non era altro che un gioco sporco deciso già a tavolino. La vecchia nomenclatura comunista di Enver Hoxha, con l’aiuto dei ‘poteri oscuri’ dall’oltre Oceano, si sono impossessati di nuovo del potere politico, economico e culturale del Paese delle aquile. I cosiddetti ex-perseguitati politici durante il comunismo, invece di fondare un loro partito, per aprire la strada ad un cambiamento radicale dell’amministrazione, della società e dello Stato, preferirono dividere il potere e le ruberie con i loro boia. È così che è stato ucciso definitivamente il sogno della libertà, della vera democrazia e della sovranità dell’Albania.
Come sono stati i primi anni da emigrante?
I primi anni in Italia sono stati molto duri. Avevo trentacinque anni e dovevo iniziare da zero. In tasca non avevo nessun centesimo, prima di partire da Durazzo avevo in tasca i soldi del biglietto solo di andata. Avevo perso tutto. Sconfitto. Per sopravvivere ho dovuto lavorare come pulitore di stalle, zappatore, manovale, aiuto tipografo. E nel frattempo frequentavo un’altra facoltà in Lettere Moderne alla Sapienza di Roma pagando tutte le tasse universitarie, oltre l’affitto di casa e da mangiare.
Era l’inizio degli anni ’90. L’Albania a quel tempo si identificava con le prostitute, con gli assassini, i ladri, stupratori. Un poeta come me dove essere tre volte più bravo dei suoi colleghi italiani e quelli che provenivano da altri Paesi. Le domande provocatorie nei miei confronti in quanto uomo di cultura e cittadino albanese erano all’ordine del giorno. Inoltre dovevo scrivere sia in albanese che in italiano dato che non avevo lettori albanesi. Le prime raccolte poetiche le ho pubblicate di tasca mia. Non conoscevo nessun editore italiano. Ci voleva denaro e tempo per andare a contattare degli editori nelle grandi città. Io lavoravo dalla mattina e rientravo a casa la sera e non potevo fare nulla. È il caso di raccontare un fatto triste che mi è accaduto durante i primi mesi in Italia. A quel tempo facevo dei lavori saltuari come manovale, i datori di lavoro a volte mi pagavano, a volte no.
Nei primi mesi trovai rifugio presso alcuni miei connazionali. La casa dove loro risiedevano era stata offerta dal Comune, quindi non pagavano affitto. Questi signori all’inizio mi hanno ospitato, poi un giorno mi cacciarono di casa. Li ho pregati di stare ancora qualche settimana affinché trovassi un lavoro che mi poteva permettere di affittare una stanza, ma nulla da fare. Mi ricordo che andavo in giro per la città bussando casa per casa chiedendo lavoro, ma appena le persone sentivano la parola ‘albanese’, chiudevano la porta dicendomi: “Vada via, siete dei ladri e criminali!”. Forse avevano ragione, nei primi anni ’90 gli albanesi occupavano le prime pagine della cronaca nera sui giornali e dei media italiani. Finché un giorno ho trovato lavoro come manovale presso una piccola ditta edile. Finalmente sono riuscito a trovare alloggio in un rudere disabitato da mezzo secolo dove l’affitto era basso.
Perché sceglieste di vivere in Italia?
Ho scelto l’Italia perché i nostri popoli hanno condiviso lo stesso destino durante la storia. L’Italia è stata sempre la grande porta che ha collegato l’Albania con il resto dell’Europa. E poi la lingua e la cultura italiana mi è stata sempre molto familiare. Non dobbiamo dimenticare che la letteratura albanese è nata in latino.
Quali erano allora i rapporti che aveva con la classe intellettuale italiana, come fu l’accoglienza?
I primi anni per me sono stati anni di fatica enorme, sofferenza e grande angoscia esistenziale. Non c’era tempo per fare “l’intellettuale“. L’intellettuale in Italia e all’estero lo facevano i poeti e scrittori del realismo socialista di Tirana, che insieme ai loro colleghi perseguitati fino a ieri durante il regime comunista, venivano nominati addetti culturali, ambasciatori, direttori della Fondazione Soros, oppure venivano ospitati nelle residenze di scrittura ovunque per Europa. Quei pochi poeti come me che denunciavano pubblicamente gli abusi, la corruzione e i traffici tra mafia e governanti, venivano etichettati come nemici dell’Albania.
Per me si trattava di lottare giorno e notte per sopravvivere ed esistere nella realtà sociale e nel nuovo contesto culturale. Inoltre dovevo imparare la lingua da autodidatta e leggere tanto. Dormivo pochissimo. Rifiutai un sussidio che mi proposero all’inizio il Comune di Frosinone. Ho deciso di guadagnare il pane quotidiano con le mie mani e attraverso il sudore della fronte.
Nel 1993, un anno dopo il mio arrivo in Italia, pubblicai la prima raccolta in bilingue, «Ombra di cane/ Hije qeni» con un piccolo editore, Dismisuratesti. Il libro fu accolto molto bene dai lettori e dalla critica. Poi seguirono «Erbamara/ Bari hidhët» e «Antologia della pioggia». Solo nel 1995 – 1996, con la pubblicazione di «Sassi controvento /Gurë kundërerës», e la vincita del primo premio EkseTra per la poesia, a Rimini, ho iniziato ad avere contatti frequenti con il mondo della letteratura. Mentre un anno dopo vinsi il premio Eugenio Montale con la raccolta “Corpo presente/Trup i pranishëm”.
Nel 2001, la città di Frosinone mi ha conferito la cittadinanza onoraria per meriti letterari. A proposito, è il caso di ringraziare alcuni dei miei amici intellettuali ciociari quali Amedeo Di Sora, Biagio Cacciola, Luciano Renna e Riccardo Mastrangeli, che mi sono stati vicini e di grande aiuto morale nei primi anni del mio esilio ciociaro.
Nonostante si percepisca una grande delusione nelle sue poesie, l’Albania è sempre molto presente. Quali sono i rapporti che ha oggi con l’Albania e con gli albanesi.
Potrei dire che la mia opera è una ‘enciclopedia’ che abbraccia vari aspetti della vita, dell’esistenza, del mistero umano, e non solo. Il mio percorso umano e letterario, vasto e complesso, attraversa Paesi, popoli, lingue, tradizioni, miti, leggende, storie, gioie, dolori, eros e thanatos.
Il mio rapporto con l’Albania e gli albanesi si riduce nel contatto con il mio paese natale, Darsìa e la lingua madre, che purtroppo oggi una parte dei miei colleghi la stanno massacrando in una maniera disumana, come se non bastassero mezzo secolo di terrore, lotta di classe, condanne, uccisioni, campi di internamento, ruberie della proprietà, della banca centrale, del patrimonio del paese, la corruzione, il disastro ambientale, il traffico della droga, la violazione del piano urbanistico, la distruzione dell’economia, della amministrazione, dello stato della cultura e della spiritualità.
Nella sua poesia si percepisce una grande universalità, difficilmente si trova questa caratteristica tra i giovani contemporanei, come vede la crescita esponenziale di poeti made in Albania?
È presto parlare della poesia albanese dei giovani. Dopo il crollo del regime comunista di Enver Hoxha, come in tutti settori della vita quotidiana, anche nella poesia della nuova generazione regna una certa confusione. Ci vorranno decenni per capire i veri nomi e i veri valori poetici che riusciranno a resistere al tempo e faranno parte del patrimonio letterario della nazione come parte integrante della memoria culturale dell’Europa. Però posso dire che la poesia femminile della nuova generazione è migliore di quella maschile.
Cos’è il “realismo socialista” a cui lei spesso fa riferimento?
Il cosiddetto “realismo socialista”, ossia il manifesto dell’arte di partito, è un metodo artistico e culturale nato nell’Unione Sovietica negli anni ’30. Secondo questo canone, l’opera d’arte doveva avere forma realista e contenuto socialista. In Albania l’isolamento totale dal resto del mondo e la mancanza di contatto con le esperienze storiche delle avanguardie letterarie europee fecero del marxismo l’unico principio estetico della poesia e dell’arte. Tutto questo seguiva i dettami e le linee della politica culturale teorizzata dalla dottrina marxista/leninista, avvelenata dall’ideologia e presa come modello per una letteratura nazionale e popolare per i paesi dell’Est che si richiamava, al contrario dell’idea goethiana di una letteratura universale.
Per il dittatore Enver Hoxha lo scrittore era semplicemente uno strumento nelle mani del partito per l’educazione comunista del popolo, il braccio destro del potere: per questo si affermava che, in Albania, la letteratura era nata nel 1941 con la fondazione del Partito Comunista. Infatti coloro che si opposero a questo metodo sono stati fucilati, imprigionati e internati ai lavori forzati per il resto della vita. Durante il regime comunista di Hoxha in Albania furono fucilate e sono morte nelle varie prigioni 148 tra intellettuali, artisti, scrittori, poeti, politici, filosofi, giuristi, traduttori e professori di latino e greco. L’ultimo poeta, impiccato alla forca, è stato Havzi Nela, ne 1988.
Lei è considerato “un poeta migrante”, ci si trova in questa definizione?
Essere un poeta migrante non è una limitazione ma una forma di mondialità, ci insegna il grande comparatista e scrittore Armando Gnisci. Vuol dire appartenere all’avanguardia transculturale della Letteratura Italiana e quella dei mondi. Il poeta migrante insegna a tutti ad essere migranti, esuli e viaggiatori in una “civiltà meticcia” in un mondo che si creolizza, per condividere insieme destini e futuri.
Il futuro della lingua e della letteratura italiana apparterrà proprio ai giovani meticci, ai viandanti, agli esuli e ai migranti, che daranno la dignità alla lingua italiana facendo restituire un barlume di verità alle sue metafore e vitalità al suo linguaggio addormentato, stanco e castrato.
Come vive il rapporto tra la lingua materna e quella d’adozione?
Io scrivo contemporaneamente in tutte e due le lingue, quindi sono un poeta “poligamo”. Mi tormento in albanese e scrivo in italiano, e viceversa.
Oggi viviamo nell’era delle migrazioni di massa, cosa ne pensa di questo fenomeno?
Il viaggio e la migrazione fa parte del DNA dell’esistenza umana. Anzi, la storia umana è fatta dai viaggiatori. Però, tutto questo non ha nulla a che fare con la migrazione di massa di oggi. Questo fenomeno drammatico nel terzo millennio è conseguenza delle politiche criminali dei nostri politici e dei nostri governanti corrotti, ingordi e guerrafondai, che si sono venduti ai “poteri oscuri” che lucrano distruggendo così Paesi, economie, tradizioni, lingue, culture, stati e speranze per il futuro dell’umanità. Lo scopo diabolico è quello che regni in Europa e nel resto del mondo, il caos, marasma, corruzione, frustrazione, guerre permanenti e sangue innocente tra la gente. Coloro che denunciano tale situazione vengono etichettati come nemici e antieuropeisti.
Pensa mai di fare ritorno in Albania?
Purtroppo la mia Albania non esiste più, ha solo cambiato padrone. Dall’ascesa del comunismo fino ad oggi, l’Albania nella sostanza non è mai stata degli albanesi in quanto dietro sia all’ideologia comunista che ai governi post-comunisti incombe il disegno politico dei “poteri oscuri” che non hanno mai avuto e continuano a non avere alcun interesse che l’Albania sia libera e sovrana. D’altronde, il loro modo di agire rispecchia in pieno l’antichissimo metodo del “bastone e della carota”. Mi spiego: la carota consiste nel denaro, nel potere, negli incarichi e uffici ministeriali/governativi, nelle borse di studio, nei posti di lavoro per sé o famigliari, nei premi letterari, onorificenze, cittadinanze onorarie ecc. ecc. Insomma la carota è il premio della sottomissione che quasi tutti i politici e pseudo intellettuali nonché uomini di cultura e accademici hanno accettato ben volentieri. Il bastone invece è il trattamento riservato ai veri uomini e intellettuali liberi, che non si sono né sottomessi e né compromessi con il potere diabolico che muove i fili delle marionette. Per il momento non c’è posto per me in Albania. Per questo continuerò a lottare per la liberazione definitiva dell’Albania, affinché si realizzi il sogno dei nostri veri Padri fondatori del Rinascimento Albanese, quel sogno che è stato infranto quasi cent’anni fa con un colpo di stato mascherato dei “poteri oscuri” per riportare al potere i loro uomini-agenti.
Una settimana fa, l’Albania ha perso l’ultimo dei suoi più grandi attori Bujar Lako, vi conoscevate? Se sì, quale il ricordo di lui.
Non conoscevo personalmente Bujar Lako, che era un attore nato. Purtroppo attori come lui, basta citare un genio come Kadri Roshi, che nacquero, vissero e lavorarono sotto il regime comunista, furono vittime del proprio destino: non ebbero l’opportunità di misurarsi con il mondo libero. Ma già il fatto di essersi salvato durante il terrore rosso, è stato il più bel ruolo che lui ha interpretato nel cinema crudele della vita.
Le donne. Lei, come le percepisce e come vive l’universo femminile?
Per scrivere non bastano solo il vissuto, l’esperienza interiore, l’impegno, le letture, i viaggi, le fatiche, le gioie quotidiane, il poeta ha bisogno anche delle donne lettrici. Più donne “seduce” un poeta, più valore acquisisce la sua poesia. Il valore della poesia di un poeta si misura proprio con il numero delle donne lettrici che egli seduce. Il vero intenditore della poesia non è il critico, lo studioso oppure l’accademico, ma la donna. Solo la lettrice donna è in grado di apprezzare se una poesia vale o meno. Quindi vivo l’universo femminile da poeta ma anche da lettore della loro poesia…
Come e dove vede Gëzim Hajdari il futuro? E la poesia?
Il futuro? Lo spero, e se lo avremo, sarà proprio la Poesia a vincere la pace, salvare l’umanità e conservare la memoria, e non le guerre sporche dell’Occidente.
Condividi