Guido Mina di Sospiro

Guido Mina di Sospiro "Sottovento e Sopravvento"

Il poliedrico e multiforme teatro della vita: un romanzo di mari, amori e misteri

di Ivano Mugnaini Mina di Sospiro gioca con le parole, con il loro mistero, con il senso e l’assenza di senso, con la vita, fatta di codici astratti e di carne palpabile e danzante, folle e assetata, a volte perfino saggiamente folle. È attratto da tutto ciò che porta e indossa la vita, sopra e sottovento, sopra e sotto i vestiti, i gesti, i sorrisi ammiccanti, l’invito a esplorare i confini e a fare un passo oltre. La vita lo incuriosisce, lo attira, gli pone di fronte uno spettacolo variegato fatto di contrasti e chiaroscuri, il sublime e il becero, il pensiero e il salto ad occhi chiusi in un vortice o in un baratro. E allora lo scrittore la osserva, la corteggia, la fa bere e la fa parlare. Ha la conferma di quanto lieve e complessa sia, la vita, e che il suo significato è una sciarada con troppe soluzioni, o forse con nessuna, o entrambe le cose assieme. Non ha bisogno del re scozzese shakespeariano per confermare e confermarci quanto la vita sia “a tale told by an idiot”. Lo sa, ne ha preso atto da tempo, ma non si è fermato, non ha rinunciato a mettere le vele al vento. Anzi, si è ripetuto, come Hölderlin, che “l’uomo è un dio quando sogna, un mendicante quando riflette”. Ma non è sceso neppure a questo porto. Con la forza dell’istinto e di un possente vitalismo ha compreso che mischiando le due componenti in giuste dosi l’uomo può essere meno misero quando pensa e meno asceticamente incorporeo quando sogna. Basta rendere vivo il sogno, aggiungendo una porzione di follia, di avventura, di sudore, di adrenalina, di paura e attrazione: tramite un viaggio, un’esplorazione, una sfida, quindi, ancora, un gioco. Sempre sapendo, con un sorriso, che non c’è niente di più intrigante e divertente del gioco, e, al tempo stesso, non c’è niente di più serio. E che il gioco non è mai gratuito, impone attenzione, coinvolgimento assoluto, per capirne le regole sancite e soprattutto quelle nascoste, le più importanti. Alla fine, bisogna essere anche disposti a perdere, a capire che non c’è niente da capire, come cantavamo negli Anni Settanta, oppure che tutto ciò che si deve comprendere è che non tutto può essere compreso, è questo è il più secco e il più dolce dei colpi di vento. La narrazione di Mina di Sospiro vive di accostamenti e contrasti. Unisce oggetti, azioni e idee come un artista materico, e non si lascia abbattere se non combaciano gli angoli, anzi, ne esulta. Sconfina con gusto, deborda e ci trascina con forza gioiosa ed esuberante a bordo di una fantasia onnivora, poliedrica, multiforme, un teatro nel teatro della vita. Il susseguirsi delle scene, delle azioni, degli spunti e degli stimoli è rapido, incalzante. L’autore mette in pratica ciò che ha scritto in suo fortunato libro sul ping pong e sulla metafisica che ne è alla base; o, meglio, applica alla scrittura anche di questa polimorfa creatura letteraria l’istinto e la ragione del gioco da lui preferito: la necessità di correre e pensare allo stesso tempo. Fino a far coincidere le due istanze, senza distinguerle, senza separarle dalla naturalezza del respiro. Perché quell’istante di riflessione fuori tempo e fuori luogo farebbe cadere a terra la pallina e con essa la magia folle della passione che tutto assorbe, dell’affabulazione che rende tutto credibile, irreale nella realtà a cui scegliamo di dare corpo. Racconto di pirati, a tratti di moderna cappa e spada, tra malviventi e personaggi ambigui, bizzarri e disperati, ma senza resa né tregua, il romanzo è mille cose insieme, mille generi, toni, rimandi e allusioni, senza compiacimento, senza ammiccamenti. Quindi, è soprattutto anzi unicamente se stesso, un pezzo unico, originale. Non da collocare in qualche museo o catalogo ma da porre costantemente in un flusso, sia esso quello della lettura che della fantasia. Romanzo on the road, sulla strada del mare, ha bisogno di moto costante, non può sostare. Racchiude posti e volti inventati e al contempo è un documento ricco di riferimenti a luoghi esistenti, il Jackson Memorial, Palm Beach, la Florida, le Antille, i Caraibi, Cuba e mille altri luoghi collocati a metà strada tra il mare e il mito. Tra le righe, ma anche dentro, nelle pieghe più sensibili, è il resoconto di un mondo che siede sulle sdraio a strisce multicolori in luoghi di lusso tra il sole e l’ombra densa di sotterfugi e intrighi, la zona morta, ma brulicante di umanità, tra legalità e crimine, disperazione, fantasia e il sogno costante di un altrove risolutivo, una mossa a sorpresa che cambia le carte e rovescia i tavoli.  Il destino, lo si sa, si nutre di logiche sbalestrate. Nella seconda parte del libro Mina di Sospiro lo fa condurre da una nave senza timone, ricca di assonanze e richiami fascinosi: “Durante questa unica e irripetibile settimana astrale, gli eventi di ogni giorno saranno influenzati e talvolta addirittura decretati dalle divinità pagane. Quali? Quelle della mitologia latina e sassone, le due culture che hanno colonizzato il nuovo mondo e che evidentemente presiedono alla pari sul mar dei Caraibi. Le stesse divinità, infine, che hanno ispirato il nome dei giorni della settimana, sia nelle lingue d’origine latina, fra le quali lo spagnolo, che in quelle d’origine sassone, fra le quali l’inglese”. Un escamotage accattivante, del tutto coerente con lo spirito e l’animo che orientano il romanzo: lo scambio costante di colpi d’approccio e di schiacciate fulminee e secche tra il caso e l’uomo, tra il rischio, la pena e il piacere di non sapere mai se saremo sopravvento o sottovento, con la sola certezza del mutare costante. Consapevoli solo che, per dirla con le parole di una delle epigrafi del libro: “Non ci sarà sortita. Tu sei dentro e la fortezza è pari all’universo dove non è diritto né rovescio né muro esterno né segreto centro”. (Jorge Luis Borges, Labirinto). Questo romanzo ci chiede una cosa difficile ed esaltante: lasciarsi andare alla corrente. Chiudere gli occhi e abbandonarsi alle onde, oppure spalancarli, ma lasciando spazio a ciò che non si vede immediatamente, a quel senso di mistero che è, la trama ce lo indicherà gradualmente, un oro che non si può afferrare con le dita, ma che non per questo è privo di peso, anzi, contiene in sé il peso del tempo e dello spazio di tutti i secoli e tutti i sogni che abbiamo fatto e che ancora saremo in grado di fare. La narrazione sui generis di Mina di Sospiro ha un potere straniante, ci porta in un luogo che non c’è ma che, improvvisamente, con un sorriso, riconosciamo come nostro: un posto dove siamo già stati, o, più esattamente, dove abbiamo immaginato di andare, e, quindi, dove siamo stati veramente. Il romanzo ci fa lo stesso effetto che Christopher Foley, uno dei personaggi del libro, esercita su Ruth, una delle partecipanti alla spedizione: “Era venuta a sapere di lui indirettamente, investigando la storia del Belize e della  barriera corallina che Chris aveva aiutato certi oceanografi a esplorare. Da quanto aveva sentito e in seguito letto su di lui, l’aveva colpita come un essere umano tanto illogico che, prima ancora d’averlo conosciuto, ne era già stranamente attratta. ≪Un tuffo nell’irrazionale≫  pensò mentre si convinceva della bontà della propria decisione, ≪ecco cosa fa per me. Ci sarà da divertirsi≫”.

Hollyweed

America, questa sconosciuta

“Hollywood” Tratto dalla serie di vignette “L’America, questa sconosciuta” dello scrittore italo-americano Guido Mina Di Sospiro, noto autore di romanzi come “La metafisica del ping-pong” e dell’ultimo “Sottovento e sopravvento” in uscita in Italia il 25 maggio con l’editore Ponte alle Grazie. Il produttore cinematografico, chiamiamolo Jack, ci accoglie sulla soglia della sua villa a Beverly Hills. Con lui un’amica, bionda e cordiale. Gli è piaciuto un mio romanzo e vuole conoscermi. Ci aspetta un Dom Pérignon ghiacciato e un’intera forma di Parmigiano-Reggiano, divisa in due. Jack è pimpante; versa champagne, taglia formaggio, racconta aneddoti, ride, scherza. Propone un giro della villa, grande e con una vista strepitosa, mia moglie con la sua amica, io con lui. Nel suo studio, fra posters di films, copioni e computers, mi fa vedere delle foto. “La mia ragazza,” spiega, una modella emergente, aspirante attrice. “La amo da morire,” aggiunge; “non è bellissima?” Ne convengo. “Ha il più bel derrière al mondo, non trovi?” “Non saprei, non li ho visti tutti.” Insiste, “È il più bel derrière del mondo, non c’è dubbio,” e mi fissa con occhi lucidi e sdrucciolevoli. Glielo concedo, come posso ripetere che non lo so? Poco più tardi, a cena in un ristorante à la page, sembra un Jack-in-the-box: continua a zompare in piedi per poi risedersi come se fosse azionato da una molla. Il motivo? Le tante stelle e stelline che saluta in modo calorosissimo. Senza volerlo, penso, quest’uomo è dotato d’una notevole vis comica. Ma ci sta riservando un trattamento di favore, e prima o poi parlerà anche del mio romanzo. Il trattamento di favore non finisce con la cena, prolungata per incontrare il maggior numero di celebrità possibile. “Vi porto nel miglior club di Hollywood,” fra Hollywood Boulevard e Vine Street, come scopriamo, angolo famoso, o famigerato. Ci aspetta una lunga coda composta principalmente da donne che sembrano uscite da Playboy. Ma, con nostro sollievo, la saltiamo: i colossali buttafuori gli fanno i salamelecchi. Interessante come in America le code siano osservate con devozione religiosa, ma come, al contempo, coloro in coda accettino di buon grado che un VIP la salti. È un effetto collaterale della venerazione delle celebrità: gli italiani provano invidia, dal latino “in-video”, che è poi il malocchio; gli americani, l’esatto opposto: ammirazione per la gente di successo, che vedono di buon’occhio, il che, incidentalmente, elimina sul nascere ogni conflitto di classe. Il club è cavernoso, con soffitti molto alti. A metà strada tra pavimento e soffitto, una rete sulla quale strisciano in perpetuo delle donne seminude. La musica tecno, piuttosto forte, scoraggia la conversazione. Il locale è pieno di gente pittoresca e le donne, come abbigliamento, non si discostano di molto da quelle sopra le nostre teste. Ci sediamo all’unico tavolo riservato. Jack ordina vodka e caviale (dopo cena?). Il caviale, mi fa notare con orgoglio parlandomi in un orecchio, “in America non si può più importare.” “E lei come fa ad averlo?” gli domando intuendo che s’aspetta proprio tale domanda.   “Ho certi contatti… ” I suoi occhi mi sembrano ancora più lucidi e sdrucciolevoli. Si alza e mi fa cenno di seguirlo. Dopo quattro passi si ferma, si gira e mi domanda: “Ti piacciono le nere?” Stavolta mi prende alla sprovvista. Sono palesemente sposato, con mia moglie a pochi metri di distanza. Ma non voglio passare per il guastafeste; rispondo: “Nere, bianche, gialle, pellirosse—le donne mi piacciono tutte.” Dev’essere la risposta giusta: mi guarda con occhi più sdrucciolevoli che mai e sorride. “Seguimi.” Poco dopo ci troviamo in una “saletta privata,” mi spiega con ammiccamenti pirateschi. Ci raggiunge un uomo. Si salutano e parlottano fra loro. “Vediamo dove si va a parare,” penso. “Senti,” mi dice Jack, “qui puoi chiedere qualunque cosa.” “Che cosa intendi dire?” “Qualunque cosa, anche la cosa più proibita, e la ottieni. Poi noi ti lasciamo in pace. Che cosa ne dici? Chiedi e ti sarà dato!” L’altro personaggio mi fissa a sua volta. Ci penso un po’ su e poi dico, “È da quando abbiamo finito di cenare che ne ho voglia…” Con lo sguardo m’incoraggiano a continuare. “Visto che me lo domandate, una richiesta l’avrei.” “Dicci.” “Vorrei fumarmi un bel sigaro.” Si guardano, spiazzati. Jack infine dice: “Non so se ci siamo capiti: ti possiamo procurare quello che vuoi, e te lo puoi godere qui, indisturbato…” “Grazie; mi basterebbe un sigaro, ce l’ho in tasca.” L’altro personaggio interviene, con voce stentorea:  “Spiacente, ma è vietato fumare, vedi?” e indica un cartello. “Sì,” rispondo, “l’ho visto, ma pensavo che una fumatina—” “Spiacente,” dice il personaggio, “ma è vietato fumare, ed è la legge. È chiaro?” Il “Vietato Fumare” in America è legge, religione, dogma. Nella saletta privata sono offerte sostanze di tutti i tipi; donne (o uomini) di tutte le razze, e chissà cos’altro. Ma fumarsi un sigaro in santa pace, è chiedere troppo.

Non solo Cuba Libre: la storia cubana ancora sconosciuta

Chi è Guido Mina di Sospiro? Autore di romanzi e saggistica. Scrivo in inglese, vivo a Washington, D.C.; sono pubblicato, in traduzione dall’inglese, in dodici lingue, fra cui l’italiano. La sua storia è in linea con il tema più sviscerato di oggi: l’immigrazione? Lei, si sente un emigrato? In un certo senso, sì. Anche se allora non avevo modo di saperlo, ho lasciato Milano all’apice degli anni di piombo, poco dopo l’attentato alla stazione di Bologna. Un’emigrazione volontaria a un’università in California. Un altro mondo, allora, un’altra dimensione. Ma ho tante anime, parlo varie lingue. Quando la musica era centrale nella vita dei giovani, mi sono sentito a casa nella Los Angeles e Berlino Ovest degli anni ottanta (da Los Angeles ero corrispondente per riviste musicali italiane e tedesche); nella Miami ancora priva d’italiani degli anni novanta; nell’Athenum Club di Londra così come nella Plaza de Santa Ana, nel Barrio de Las Letras, a Madrid. Mi piace la definizione ufficiale che mi è stata appioppata qui in America: sono un “residente alieno”, ma capace di trovare, in posti molti diversi tra loro, patrie adottive multiple. È anche vero che se la Milano che lasciai fosse stata quella di oggi, probabilmente non me sarei andato. Allora Milano era una specie di zona di guerra. Quando ha capito che la scrittura sarebbe stata la sua ragione di vita? Quando sono passato dal corsivo allo stampatello perché non riuscivo più a leggere quanto avevo scritto. Nei numerosi suoi viaggi, un giorno ha incontrato una bellissima donna cubana, oggi sua moglie, la compagna di vita. Può raccontarci il vostro incontro? A Los Angeles, ad un party dato da un persiano in onore del fidanzamento fra Lady Diana e il principe Carlo. Noi due, esuli di altre terre, ci siamo trovati in fondo al mondo, in riva al Pacifico—lei nata all’Avana ma cresciuta a New York; io nato a Buenos Aires ma cresciuto a Milano. Che immagine si è fatto di Cuba? Ho vissuto diciassette anni a Miami immerso nell’esilio cubano di oltre un milione di persone. Ho imparato da loro lo spagnolo, tanto che lo parlo con  l’accento cubano. E via via ho scoperto un mondo del quale non si parla. “Via via” perché gli esuli cubani preferiscono sempre parlare del presente e del futuro, e non fanno i nostalgici, nonostante abbiano perso la loro patria, la perla della Antille, come la chiamava il poeta Rúben Darío. Cuba, e L’Avana in particolare, erano un posto da sogno, non per niente l’ultima colonia che la Spagna fu costretta a cedere, perché la migliore. Dopo la devastazione della seconda guerra mondiale, poi, L’Avana era meglio di qualunque capitale europea. Letterati, scienziati, scacchisti, musicisti—tutti di livello mondiale. E poi la famosa, o secondo altri infame, parte mondana, con i suoi night clubs sfarzosi, case da gioco, orchestre, ballerine, cantanti e così via. Come avete vissuto in famiglia la morte di Fidel Castro?  La premessa è che i genitori di mia moglie, così come altre centinaia di migliaia di esuli cubani, non hanno mai più messo piede nella loro madre patria, e quindi la morte del nonagenario Castro non cancella l’amarezza dell’esilio, i drammi della diaspora — con le famiglie stravolte da coloro che restavano e coloro che partivano — e gli sforzi fatti per ripartire, in esilio, da zero. Detto ciò, c’è stato comunque un sollievo e un senso di liberazione, anche se al potere rimane il fratello. Una settimana dopo la morte di Castro, l’Occidente sembra si sia dimenticato di chi davvero era Fidel Castro. La sua morte inevitabilmente l’ha inserito nell’iconografia del Novecento.  Conosco troppo da vicino la storia di Cuba. Se Cuba ha avuto la rivoluzione è perché, a differenza di tutta l’America latina, aveva una classe media, la quale, inizialmente, appoggiò i barbudos. La classe media (ho parlato con molti di loro, a New York, Miami, Madrid, Parigi) voleva far cadere Batista e andare direttamente alle elezioni. Invece si ritrovarono presto in pieno regime comunista – con le tipiche fucilazioni sommarie; prigionia e tortura (e anche morte in molti casi) per i dissidenti; perfino i campi di concentramento per chi, ingenuamente, faceva domanda ufficiale per andare in esilio. Ho raccolto, senza cercarle, testimonianze di gente umile che pure chiese d’andarsene e finì nei campi di concentramento; sono cose raccapriccianti che non si sanno e che fanno venire a mente Se questo è un uomo. Fra le tante, la storia di Pablo. Una mattina, quando abitavo a Miami, vado dal mio solito barbiere a Westchester, a pochi chilometri a ovest, un quartiere in cui su trentamila abitanti il novanta per cento è di madrelingua spagnola. Ernesto, mi dicono, non c’è. “Allora torno domani,” ma Pablo mi fa cenno di sedermi. È un vecchio dall’aspetto mite con un sorriso a tutto denti. Dà per scontato che io parli spagnolo. Mentre mi mette il grembiule dice, “Lavorare ancora alla mia età, ma guarda un po’…”. Aggiunge, “Fa niente, lavorare mi piace. È che a Cuba ero conducente d’autobus la mattina presto, portavo i bimbi a scuola, e poi barbiere fino alle due del pomeriggio.” “E dopo le due?” “Andavo a un bar lungo il malecon (il lungomare dell’Avana), a giocare a domino con gli amici, ciarlare, bermi il cafecito, fumare puros. Non guadagnavo un granché, ma mi bastava. Qui in America è dura: devo pagare il mutuo della casa, le rate della macchina, le bollette, le tasse, tutto è caro, e se non lavoro ogni giorno, non ce la faccio”. M’ha coperto il volto con un cencio intriso d’acqua calda. “Allora,” da sotto il cencio, “se ci stava bene, perché l’ha lasciata, Cuba?” “¡Ay, compadre!” e sospira mentre toglie il cencio e mi spennella la schiuma da barba sul viso. “Subito dopo la rivoluzione, tutti i professionisti hanno lasciato Cuba. Io no, perché mai? Los barbudos erano dalla mia parte, ne eravamo convinti. Poi, ogni mese, ce ne combinavano una. Non eravamo ricchi, tutt’altro. Ma la casetta che avevamo fuori città, i nostri nonni, genitori e i miei fratelli, ce la confiscarono, e ci assegnarono invece un appartamento di due stanze: eravamo in undici a casa! S’andava da un sopruso all’altro, ma guai a protestare. Allora nel 1965 feci le carte per uscire da Cuba, regolarmente.” Comincia ora a radermi. Sono alla mercé d’un ottuagenario, ma il tocco è leggero, una vita di pratica. Riprende: “Da allora cominciarono a chiamarmi gusano (verme), anche i vicini, non credo per convinzione, ma per paura. Le autorità mi dissero che avrei avuto le carte in un anno e mezzo, ma a una condizione.” “Quale?” “Dovevo andare in un campo di concentramento e tagliare canne da zucchero gratis per diciotto mesi. Però non ci davano da mangiare. Allora nascondevamo una canna da zucchero tagliata a pezzi sotto la camicia. Certe guardie ci scoprivano e ci picchiavano a sangue. Altre chiudevano un occhio, ¡que dios los bendiga! Di notte in cella le masticavamo per ore, per ciucciarne lo zucchero. Di mattina eravamo morti di sonno, e ancora di fame, ma se non lavoravamo, altre botte. Certi non ce la facevano; svenivano, o per sfinitezza, o per le botte ulteriori che prendevano. Altri li pestarono così tanto che li portarono via come sacchi di cipolle, e non li vidi mai più”. Continua a rasarmi con la leggerezza d’una farfalla. Riprende il racconto: “Finalmente passò l’anno e mezzo, mi lasciarono partire, e arrivai qui senza un centesimo in tasca. Poco dopo cominciarono a cadermi i denti. Nel giro di due anni li persi tutti. Gracias, ¡Fidel!” “Ma come, se ha un bellissimo sorriso?” “A forza di lavorare, me li sono fatti impiantare tutti, anno dopo anno. Ho finito sei anni fa, a settantasei anni. L’ultima dentista da cui andavo è una salvadoregna che lavora nel proprio garage. Non mi sono mai potuto permettere un dentista ufficiale. Ma sono contento, qui a Miami ho conosciuto mia moglie, siamo sposati da quarant’anni e rotti, una santa donna”. Il Presidente Nixon definì Castro “un tipo naif, ma non necessariamente un comunista” mentre Castro nei suoi discorsi americani sosteneva la rivoluzione definendola come “umanista” promettendo allora libere elezioni piuttosto la difesa della proprietà privata. La storia poi ci ha consegnato altri racconti. Cosa è rimasta di Cuba? Era una meraviglia. Vi sono molti documentari in rete di Cuba negli anni trenta, quaranta e cinquanta che mostrano un’opulenza incredibile, a tutti i livelli. Adesso, dopo oltre cinquantanni di regime comunista, è devastata quanto Haiti. Il comunismo, si sa, ha bisogno della miseria per perpetuarsi, così come la mafia. Cosa pensa accadrà post Castro? Sarebbe bello, dopo l’uscita di Raul Castro dalla scena, vedere il ritorno della democrazia e la ricostruzione dell’intero paese nel rispetto dell’enorme patrimonio architettonico sparso per tutta l’Isola. Ma forse sono idee utopiche. Sua moglie, la sua famiglia, pensano di fare ritorno in quel paese che li costrinse a chiedere rifugio?  No. Genitori e zii, non ci sono più, se non due zie che stanno perdendo la memoria. Tutte le proprietà, perdute. I cugini sono sparpagliati per il mondo: due in Guatemala, due in Florida, uno a Singapore a insegnare storia dell’arte presso un’Università; il fratello di mia moglie, a New York City, e lei con me a Washington. In Prima che sia notte Reinaldo Arenas racconta il periodo di Fulgencio Batista e successivamente il suo arruolamento tra i ribelli che volevano abbattere il regime. Arenas, protagonista dei processi farsa e delle fucilazioni sommarie, definisce quella rivoluzione come ipocrita. Nel 1980, Castro permette l’espatrio dall’isola agli “indesiderabili” del regime (omosessuali come Arenas, malati di mente e criminali). Arenas riesce a scappare nonostante la sommossa creatasi a causa dell’invasione da parte di alcuni cubani dell’ambasciata del Perù cambiando il suo nome da Arenas in Arinas. Prima a Miami, poi New York, e poi l’Europa dove si sente addosso la maledizione della voce di Cassandra, nessuno gli crede. I suoi racconti pubblicati in Francia servivano quella élite ipocrita che alle parole giustizia e verità avevano optato scegliendo sinonimi come legittimo e autenticità, perché così anche loro spingevano la loro notte un po più in là.  È così, è molto triste. Abbiamo in casa un tavolo pitturato da Carlos Alfonzo, arrivato a Miami da Cuba nel 1980 durante l’esodo di Mariel. Lavorava come verniciatore/pittore di mobili vintage ad Antares, un negozio di mobili insoliti. Faceva la fame, come tanti altri Marielitos. Poi divenne famoso, ma morì a quarant’anni di AIDS, nel 1991. Tantissimi altri Marielitos erano “indesiderabili” secondo il regime di Fidel non perché fossero criminali; molti erano dissidenti, od omossessuali. Il nostro factotum a Miami, Pedro, era persona di assoluta fiducia, già l’autista privato del generale Ochoa in Angola. Ochoa fu fucilato a Cuba nel 1989 per “tradimento” e smercio di droga. In realtà, pare che i fratelli Castro lo fucilarono per coprire il loro coinvolgimento nel traffico di droga ad alto livello. Nel mio romanzo Sottovento e sopravvento (leggi anche…), che uscirà in Italia il prossimo maggio, offro inter alia uno “spaccato” dell’Avana durante i secondi anni ottanta visto con gli occhi della protagonista femminile Marisol, che era stata depositata, appena neonata, in un canestro sugli scalini dell’ambasciata statunitense la notte del golpe, e in seguito adottata da una coppia di New York. Comunque, da cubano d’adozione, voglio essere ottimista: lo spirito dei cubani è indomabile, tanto che nemmeno il comunismo è riuscito a sopprimerlo. Non posso che augurarmi che in un futuro prossimo la perla delle Antille diventi, effettivamente, Cuba Libre.

Il migrante metafisico

“Un buon viaggiatore non sa dove va; un perfetto viaggiatore non sa da dove viene”. Questo aforisma di uno scrittore cinese è il perfetto compendio della “Metafisica del ping-pong – Un’introduzione alla filosofia perenne“ di Guido Mina di Sospiro. Guido Mina di Sospiro nato a Buenos Aires in Argentina, da famiglia italiana emigrata dopo la guerra per poi successivamente rientrare, a Milano, nel periodo del boom economico, dove ha trascorso i primi vent’anni della sua vita per poi trasferirsi nei primi anni ’80 in America, è autore bilingue di libri di successo quali “Il Libro Proibito” co-scritto con Joscelyn Godwin, “Il Fiume”, “L’albero” e altri. Nella “Metafisica del Ping-Pong – Introduzione alla filosofia perenne” Guido Mina di Sospiro si racconta “in avventure olistiche e globali in un viaggio fisico intellettuale palleggiando con Sun Tzu, Aristotele, Henry Miller, che giocò con Bob Dylan, e Arnold Schönberg, che giocava con Gershwin”. Il cammino intrapreso dall’autore in questo nuovo lavoro letterario è un cammino metafisico “un’iniziazione sciamanica” come avveniva nel XV e XVI per i Cavalieri e i Trovatori. Raimon Panikkar sosteneva in “Vita e Parole” che “la mistica come esperienza della Vita ha una valenza di genitivo sia oggettivo che soggettivo: l’esperienza (che abbiamo) della Vita e l’esperienza della Vita (che sta in noi)” e questo concetto riflette alla perfezione il viaggio che l’autore Mina di Sospiro compie nel suo “Metafisica del ping-pong” poiché “…ogni vero artista, è anche un artigiano e sa che la tecnica viene prima di tutto. Dopotutto, la parola greca téchne si traduce come “arte””. (pag. 156) L’arte opzionata come arma sacra dotata di personalità propria e psyché in questo libro è la “racchetta perfetta” che conduce l’autore a speculare con la metafisica di Platone fino ad arrivare a Benvenuto Cellini. “La differenza tra i giocatori di tennistavolo occidentali e quelli dell’Estremo Oriente consiste nel fatto che i secondi cercano il Tao consapevolmente, o almeno ci provano. Ma l’evocazione consapevole di uno stato di grazia non e un’impresa facile ed è per questo che di rado viene conseguita a comando, altrimenti tutte le partite ad alto livello sarebbero “epiche”, e non lo sono” (pag. 225) Il viaggio poliedrico di Guido Mina di Sospiro induce il lettore a meditare non utilizzando il solo linguaggio di una determinata spiritualità e portandolo ad una mutua fecondazione tra le differenti tradizioni umane. L’incontro dialogo tra ideologie e concezioni del mondo è un imperativo dell’autore che viaggia come un immigrato 2.0, un’Ulisse contemporaneo, tra culture e tradizioni senza pretendere di condurre a termine la vasta gamma dell’esperienza umana. Il dialogo come attività religiosa inteso nel senso più profondo quale la pienezza ossia il progetto della salvezza.