Non solo Cuba Libre: la storia cubana ancora sconosciuta

Chi è Guido Mina di Sospiro?

Autore di romanzi e saggistica. Scrivo in inglese, vivo a Washington, D.C.; sono pubblicato, in traduzione dall’inglese, in dodici lingue, fra cui l’italiano.

La sua storia è in linea con il tema più sviscerato di oggi: l’immigrazione? Lei, si sente un emigrato?

In un certo senso, sì. Anche se allora non avevo modo di saperlo, ho lasciato Milano all’apice degli anni di piombo, poco dopo l’attentato alla stazione di Bologna. Un’emigrazione volontaria a un’università in California. Un altro mondo, allora, un’altra dimensione. Ma ho tante anime, parlo varie lingue. Quando la musica era centrale nella vita dei giovani, mi sono sentito a casa nella Los Angeles e Berlino Ovest degli anni ottanta (da Los Angeles ero corrispondente per riviste musicali italiane e tedesche); nella Miami ancora priva d’italiani degli anni novanta; nell’Athenum Club di Londra così come nella Plaza de Santa Ana, nel Barrio de Las Letras, a Madrid. Mi piace la definizione ufficiale che mi è stata appioppata qui in America: sono un “residente alieno”, ma capace di trovare, in posti molti diversi tra loro, patrie adottive multiple. È anche vero che se la Milano che lasciai fosse stata quella di oggi, probabilmente non me sarei andato. Allora Milano era una specie di zona di guerra.

Quando ha capito che la scrittura sarebbe stata la sua ragione di vita?

“La metafisica del Ping-Pong” di Guido Mina di Sospiro. Ed. Ponte Alle Grazie

Quando sono passato dal corsivo allo stampatello perché non riuscivo più a leggere quanto avevo scritto.

Nei numerosi suoi viaggi, un giorno ha incontrato una bellissima donna cubana, oggi sua moglie, la compagna di vita. Può raccontarci il vostro incontro?

A Los Angeles, ad un party dato da un persiano in onore del fidanzamento fra Lady Diana e il principe Carlo. Noi due, esuli di altre terre, ci siamo trovati in fondo al mondo, in riva al Pacifico—lei nata all’Avana ma cresciuta a New York; io nato a Buenos Aires ma cresciuto a Milano.

Che immagine si è fatto di Cuba?

Ho vissuto diciassette anni a Miami immerso nell’esilio cubano di oltre un milione di persone. Ho imparato da loro lo spagnolo, tanto che lo parlo con  l’accento cubano. E via via ho scoperto un mondo del quale non si parla. “Via via” perché gli esuli cubani preferiscono sempre parlare del presente e del futuro, e non fanno i nostalgici, nonostante abbiano perso la loro patria, la perla della Antille, come la chiamava il poeta Rúben Darío.

Cuba, e L’Avana in particolare, erano un posto da sogno, non per niente l’ultima colonia che la Spagna fu costretta a cedere, perché la migliore. Dopo la devastazione della seconda guerra mondiale, poi, L’Avana era meglio di qualunque capitale europea. Letterati, scienziati, scacchisti, musicisti—tutti di livello mondiale. E poi la famosa, o secondo altri infame, parte mondana, con i suoi night clubs sfarzosi, case da gioco, orchestre, ballerine, cantanti e così via.

Come avete vissuto in famiglia la morte di Fidel Castro? 

La premessa è che i genitori di mia moglie, così come altre centinaia di migliaia di esuli cubani, non hanno mai più messo piede nella loro madre patria, e quindi la morte del nonagenario Castro non cancella l’amarezza dell’esilio, i drammi della diaspora — con le famiglie stravolte da coloro che restavano e coloro che partivano — e gli sforzi fatti per ripartire, in esilio, da zero. Detto ciò, c’è stato comunque un sollievo e un senso di liberazione, anche se al potere rimane il fratello.

Una settimana dopo la morte di Castro, l’Occidente sembra si sia dimenticato di chi davvero era Fidel Castro. La sua morte inevitabilmente l’ha inserito nell’iconografia del Novecento. 

Conosco troppo da vicino la storia di Cuba. Se Cuba ha avuto la rivoluzione è perché, a differenza di tutta l’America latina, aveva una classe media, la quale, inizialmente, appoggiò i barbudos. La classe media (ho parlato con molti di loro, a New York, Miami, Madrid, Parigi) voleva far cadere Batista e andare direttamente alle elezioni. Invece si ritrovarono presto in pieno regime comunista – con le tipiche fucilazioni sommarie; prigionia e tortura (e anche morte in molti casi) per i dissidenti; perfino i campi di concentramento per chi, ingenuamente, faceva domanda ufficiale per andare in esilio. Ho raccolto, senza cercarle, testimonianze di gente umile che pure chiese d’andarsene e finì nei campi di concentramento; sono cose raccapriccianti che non si sanno e che fanno venire a mente Se questo è un uomo.

Fra le tante, la storia di Pablo.

Una mattina, quando abitavo a Miami, vado dal mio solito barbiere a Westchester, a pochi chilometri a ovest, un quartiere in cui su trentamila abitanti il novanta per cento è di madrelingua spagnola. Ernesto, mi dicono, non c’è.

“Allora torno domani,” ma Pablo mi fa cenno di sedermi. È un vecchio dall’aspetto mite con un sorriso a tutto denti. Dà per scontato che io parli spagnolo. Mentre mi mette il grembiule dice, “Lavorare ancora alla mia età, ma guarda un po’…”. Aggiunge, “Fa niente, lavorare mi piace. È che a Cuba ero conducente d’autobus la mattina presto, portavo i bimbi a scuola, e poi barbiere fino alle due del pomeriggio.”

“E dopo le due?”

“Andavo a un bar lungo il malecon (il lungomare dell’Avana), a giocare a domino con gli amici, ciarlare, bermi il cafecito, fumare puros. Non guadagnavo un granché, ma mi bastava. Qui in America è dura: devo pagare il mutuo della casa, le rate della macchina, le bollette, le tasse, tutto è caro, e se non lavoro ogni giorno, non ce la faccio”.

M’ha coperto il volto con un cencio intriso d’acqua calda. “Allora,” da sotto il cencio, “se ci stava bene, perché l’ha lasciata, Cuba?”

“¡Ay, compadre!” e sospira mentre toglie il cencio e mi spennella la schiuma da barba sul viso.

“Subito dopo la rivoluzione, tutti i professionisti hanno lasciato Cuba. Io no, perché mai? Los barbudos erano dalla mia parte, ne eravamo convinti. Poi, ogni mese, ce ne combinavano una. Non eravamo ricchi, tutt’altro. Ma la casetta che avevamo fuori città, i nostri nonni, genitori e i miei fratelli, ce la confiscarono, e ci assegnarono invece un appartamento di due stanze: eravamo in undici a casa! S’andava da un sopruso all’altro, ma guai a protestare. Allora nel 1965 feci le carte per uscire da Cuba, regolarmente.”

Comincia ora a radermi. Sono alla mercé d’un ottuagenario, ma il tocco è leggero, una vita di pratica. Riprende: “Da allora cominciarono a chiamarmi gusano (verme), anche i vicini, non credo per convinzione, ma per paura. Le autorità mi dissero che avrei avuto le carte in un anno e mezzo, ma a una condizione.”

“Quale?”

“Dovevo andare in un campo di concentramento e tagliare canne da zucchero gratis per diciotto mesi. Però non ci davano da mangiare. Allora nascondevamo una canna da zucchero tagliata a pezzi sotto la camicia. Certe guardie ci scoprivano e ci picchiavano a sangue. Altre chiudevano un occhio, ¡que dios los bendiga! Di notte in cella le masticavamo per ore, per ciucciarne lo zucchero. Di mattina eravamo morti di sonno, e ancora di fame, ma se non lavoravamo, altre botte. Certi non ce la facevano; svenivano, o per sfinitezza, o per le botte ulteriori che prendevano. Altri li pestarono così tanto che li portarono via come sacchi di cipolle, e non li vidi mai più”.

Continua a rasarmi con la leggerezza d’una farfalla. Riprende il racconto: “Finalmente passò l’anno e mezzo, mi lasciarono partire, e arrivai qui senza un centesimo in tasca. Poco dopo cominciarono a cadermi i denti. Nel giro di due anni li persi tutti. Gracias, ¡Fidel!”

“Ma come, se ha un bellissimo sorriso?”

“A forza di lavorare, me li sono fatti impiantare tutti, anno dopo anno. Ho finito sei anni fa, a settantasei anni. L’ultima dentista da cui andavo è una salvadoregna che lavora nel proprio garage. Non mi sono mai potuto permettere un dentista ufficiale. Ma sono contento, qui a Miami ho conosciuto mia moglie, siamo sposati da quarant’anni e rotti, una santa donna”.

Il Presidente Nixon definì Castro “un tipo naif, ma non necessariamente un comunista” mentre Castro nei suoi discorsi americani sosteneva la rivoluzione definendola come “umanista” promettendo allora libere elezioni piuttosto la difesa della proprietà privata. La storia poi ci ha consegnato altri racconti. Cosa è rimasta di Cuba?

Era una meraviglia. Vi sono molti documentari in rete di Cuba negli anni trenta, quaranta e cinquanta che mostrano un’opulenza incredibile, a tutti i livelli. Adesso, dopo oltre cinquantanni di regime comunista, è devastata quanto Haiti. Il comunismo, si sa, ha bisogno della miseria per perpetuarsi, così come la mafia.

Cosa pensa accadrà post Castro?

Sarebbe bello, dopo l’uscita di Raul Castro dalla scena, vedere il ritorno della democrazia e la ricostruzione dell’intero paese nel rispetto dell’enorme patrimonio architettonico sparso per tutta l’Isola. Ma forse sono idee utopiche.

Sua moglie, la sua famiglia, pensano di fare ritorno in quel paese che li costrinse a chiedere rifugio? 

No. Genitori e zii, non ci sono più, se non due zie che stanno perdendo la memoria. Tutte le proprietà, perdute. I cugini sono sparpagliati per il mondo: due in Guatemala, due in Florida, uno a Singapore a insegnare storia dell’arte presso un’Università; il fratello di mia moglie, a New York City, e lei con me a Washington.

In Prima che sia notte Reinaldo Arenas racconta il periodo di Fulgencio Batista e successivamente il suo arruolamento tra i ribelli che volevano abbattere il regime. Arenas, protagonista dei processi farsa e delle fucilazioni sommarie, definisce quella rivoluzione come ipocrita. Nel 1980, Castro permette l’espatrio dall’isola agli “indesiderabili” del regime (omosessuali come Arenas, malati di mente e criminali). Arenas riesce a scappare nonostante la sommossa creatasi a causa dell’invasione da parte di alcuni cubani dell’ambasciata del Perù cambiando il suo nome da Arenas in Arinas. Prima a Miami, poi New York, e poi l’Europa dove si sente addosso la maledizione della voce di Cassandra, nessuno gli crede. I suoi racconti pubblicati in Francia servivano quella élite ipocrita che alle parole giustizia e verità avevano optato scegliendo sinonimi come legittimo e autenticità, perché così anche loro spingevano la loro notte un po più in là. 

È così, è molto triste. Abbiamo in casa un tavolo pitturato da Carlos Alfonzo, arrivato a Miami da Cuba nel 1980 durante l’esodo di Mariel. Lavorava come verniciatore/pittore di mobili vintage ad Antares, un negozio di mobili insoliti. Faceva la fame, come tanti altri Marielitos. Poi divenne famoso, ma morì a quarant’anni di AIDS, nel 1991. Tantissimi altri Marielitos erano “indesiderabili” secondo il regime di Fidel non perché fossero criminali; molti erano dissidenti, od omossessuali. Il nostro factotum a Miami, Pedro, era persona di assoluta fiducia, già l’autista privato del generale Ochoa in Angola. Ochoa fu fucilato a Cuba nel 1989 per “tradimento” e smercio di droga. In realtà, pare che i fratelli Castro lo fucilarono per coprire il loro coinvolgimento nel traffico di droga ad alto livello.

Nel mio romanzo Sottovento e sopravvento (leggi anche…), che uscirà in Italia il prossimo maggio, offro inter alia uno “spaccato” dell’Avana durante i secondi anni ottanta visto con gli occhi della protagonista femminile Marisol, che era stata depositata, appena neonata, in un canestro sugli scalini dell’ambasciata statunitense la notte del golpe, e in seguito adottata da una coppia di New York.

Comunque, da cubano d’adozione, voglio essere ottimista: lo spirito dei cubani è indomabile, tanto che nemmeno il comunismo è riuscito a sopprimerlo. Non posso che augurarmi che in un futuro prossimo la perla delle Antille diventi, effettivamente, Cuba Libre.

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