Editoriale

Ddl Zan, ha vinto l’ipocrisia

Oggi abbiamo ostracizzato la diversità. Ha vinto Zan e la sua ipocrisia sulla sessualità nel rendere complesso un tema legittimo attraverso l’uso della retorica e dei sofismi.  Ha vinto il Pd per la sua ipocrisia di aver manipolato come una bandiera uno dei diritti legittimi.  Ha vinto Salvini per la sua ipocrisia suffragata da dati oggettivi degli esempi a lui vicini di sessualità da tutelare.  Ha vinto Berlusconi per la sua ipocrisia delle incoerenze tra l’essere e il fare.  Ha vinto Meloni, una donna prima che essere una cristiana.  Ha vinto la Chiesa, l’Unica Santa e Apostolica Romana, perché ancora rimette i peccati in un mondo sempre più laico e che non li riconosce più.  Ha vinto il gioco delle parti e ha perso quello dei partiti.  Hanno vinto tutti quelli che sono ipocriti perché fanno finta di non capire e non hanno alcuna intenzione di combattere per la libertà.  Oggi, abbiamo ostracizzato la diversità.

Governare l’odio

Come ebrea post-moderna non posso che appoggiarmi a due pilastri sicuri: la Torah e Freud. Qualche giorno fa, in un’occasione di campagna elettorale, mi era stato chiesto di parlare dell’odio. Avrei voluto declinare l’invito, che pure mi onorava, e dirmi impreparata sulla materia. Invece, per quanto mi sentissi piuttosto lontana da un certa dilagante suscettibilità per la quale il valore umano sarebbe sempre commisurato ai torti che abbiamo, o che crediamo di avere subito, ho dovuto confessare a me stessa di essere piuttosto versata nella materia.  Intanto perché, in quanto ebrea, appartengo al popolo sicuramente più odiato della storia, dai tempi dei faraoni fino a quelli dell’imbianchino viennese e oltre. E poi perché, come immigrata albanese a Cepagatti, provincia di Pescara, posso raccontare tutta una serie di aneddoti dei quali oggi sorrido ma sui cui ricordo di aver versato più di qualche lacrimuccia da bambina. Ma, dunque, che cos’è l’odio? Soprattutto, quand’è che cominciamo a odiare? Ora, se fra i lettori ci fossero anime candide che ritengono l’odio un sentimento tardivo, una indispettita reazione alla mancanza d’amore o di cura che ci affligge solo dopo aver subito un torto, ebbene, io credo che si sbaglino. L’odio nasce un po’ prima di scoprire che Babbo Natale non esiste. Come ebrea post-moderna, diciamo così, non posso che appoggiarmi a due pilastri sicuri: la Torah e Freud.  Per Freud l’odio ha a che fare con la scoperta stessa dell’oggetto, con la prima grande ferita narcisistica costituita dalla scoperta che non è tutto Io, ma che c’è qualcosa là fuori: il mondo, insomma, quel complesso intreccio di stimoli e frustrazioni che il bambino comincia a scoprire sin da subito. L’odio sarebbe quindi secondo Freud il modo stesso della nostra prima capacità di conoscere, di fare esperienza. Del resto, se ripesco fra i ricordi sempre più sbiaditi del mio passato di studentessa di filosofia, trovo che nella relazione fichtiana fra Io e Non-Io entra sempre in gioco quello che il filosofo tedesco chiama Anstoss: un’irritazione, uno stimolo urticante che dà il via. Il calcio di inizio, insomma, visto che Anstoss vuole dire anche questo. Certo, che il mondo, in principio, si conosca nell’odio, non è una prospettiva rassicurante. Perché se così è, l’odio ci appare allora come un sentimento primigenio, connaturato all’uomo. Semplicemente inestirpabile. La questione dunque è come possiamo farci i conti, come possiamo conviverci. Soprattutto, come questa prima modalità del conoscere e del rapportarsi al mondo possa di volta in volta essere disciolta in altro, neutralizzata, per così dire. E qui mi torna in mente la storia di Miriam e Aron, che sparlavano di Mosè, che aveva sposato Sefora, una donna madianita. E a Miriam e Aron, Sefora non piaceva. Non per qualcosa che dipendesse da lei, per una sua colpa, ma proprio in quanto donna madianita. Senza girarci intorno, insomma, secondo loro Mosè non avrebbe dovuto sposare una donna di colore. Ora, la cosa interessante, è che per questa professione di odio, proprio Miriam, colei cioè a cui secondo la Torah si deve la salvezza matrilineare del popolo di Israele, viene punita dal Signore: si ammala di lebbra e viene “esiliata” dall’accampamento. Mosè allora intercede per lei, chiede al Signore che la guarisca. Mosè insomma non ricambia Miriam con la stessa moneta. Così Miriam dopo sette giorni guarisce dalla lebbra dell’odio e viene riammessa nell’accampamento. La morale della storia è sin troppo semplice, ma è bene esplicitarla: l’odio fa peggio a chi lo prova che al soggetto contro cui si scaglia. Ed è, per giunta, una malattia contagiosa. Così infatti l’odio fa male al Faraone, a cui ha indurito il cuore. E l’odio professato dal Faraone fa male agli stessi Egiziani, molti dei quali ne sono stati infettati. Tanto che al Deuteronomio tocca ricordare che l’odio va maneggiato con cura e dispensato il meno possibile: “Non odiare l’egiziano perché foste stranieri nella sua terra”. E tocca invece all’Esodo stabilire di chi sia la responsabilità della persecuzione, senza che agli Ebrei possa venire in mente di fare di ogni erba un fascio: “Allora sorse un nuovo Re, che non aveva conosciuto Giuseppe”. Sembra un dettaglio da niente, ma non lo è: il nuovo Re non aveva conosciuto Giuseppe. Suona quasi come una circostanza attenuante. E qui la morale si fa più fine, più densa di implicazioni che interrogano la coscienza. L’odio fa male a chi lo prova ancor più che a chi ne è bersaglio, dicevo. Ma la nostra difesa dall’odio consiste allora, ogni volta, nel mostrare un accesso alla conoscenza dell’Altro che passi per una via diversa dall’irritazione causata dalla primigenia ferita narcisistica insita nel conoscere stesso. Nel presentare, con pazienza e ogni volta, Giuseppe al nuovo Re. Ogni volta, con pazienza, presentarsi da capo. Così, insomma, mi chiamo Anita Likmeta. Sono una cittadina italiana, nata in Albania. Ho imparato, con fatica, una lingua, la vostra, che adesso è diventata  la mia. Quanto ho ricevuto, oggi, sono qui a restituire.

Solo Sala

Non è una opzione, ma una scelta obbligata per Milano e i milanesi. Quella delle elezioni a Milano pare una vittoria annunciata per il centrosinistra di Beppe Sala. Credo sia perché i milanesi riconoscono l’importanza di dare continuità a quel progetto politico che da qui era partito con l’Expo del 2015. Chi vive la città conosce bene le difficoltà che Milano ha dovuto affrontare negli ultimi due anni, ma sa anche che, non fosse stato per la pandemia che ha coinvolto tutto il mondo, l’ascesa di Milano come nuova capitale europea post Brexit non si sarebbe arrestata.  Per capire cosa pensano di questo i milanesi, basta parlare con taxisti, che conoscono meglio di tutti le dinamiche e le sfumature di questa città. Sono loro, in qualche modo, il vero specchio in cui si riflette lo stato delle cose. Sono in molti ad evidenziare le difficoltà patite durante il Covid ma nello stesso tempo, gli stessi, mi evidenziano l’importanza di dar seguito a quel progetto politico ed espansivo al contempo, che vede la città al centro di dinamiche non più nazionali ma di respiro internazionale.  E Milano sta diventando metropoli nonostante le difficoltà delle misure restrittive imposte dal Covid-19. E se questa città riesce a imporsi e a diventare la nuova capitale europea, così come lo era Londra negli anni ’90 e Berlino nella prima decade del secondo millennio, è perché ci sono state politiche capaci di attrarre grandi investimenti e soprattutto perché c’è stato un grande lavoro di inclusione che è iniziato a partire dalle periferie.  Beppe Sala non è una opzione, ma in qualche modo una scelta obbligata per i milanesi che riconoscono il valore del lavoro che ha svolto in questi anni. D’altronde la lista civica di Luca Bernardo per il centrodestra è debole e presenta un progetto confuso, di ripiego, che non convince i cittadini. Colpisce semmai la scelta di Fratelli d’Italia e della Lega nelle grandi città come Milano e Roma: sembra quasi che Salvini e Meloni desiderino passare sottotraccia nelle sfide delle grandi città. A pensare male verrebbe da dire che preferiscono non confrontarsi con la politica più vera e fattiva, quella cioè dell’amministrazione delle città, per giocarsi tutto nella partita nazionale senza prima aver mostrato agli elettori il bluff della mancanza di una vera e propria classe dirigente.  Così la rielezione di Beppe Sala rappresenta l’unico scenario politico possibile per Milano e i cittadini lo sanno intimamente. Per questo non si non si faranno condizionare dagli slogan vacui delle grandi promesse di cambiamento. I milanesi, che sono pragmatici di buona volontà, il cambiamento se lo conquistano un millimetro alla volta, giorno dopo giorno.  Da milanese di adozione riconosco ai miei concittadini questa ironia sottile che di certo li porterà, dentro le urne, a diffidare delle sparate del pediatra con la pistola. Come diceva Piovene, del resto, “Milano è forse l’unica città italiana dove esista l’umorismo vero, l’umorismo in senso britannico, che vela e insaporisce le cose senza però modificarle”. Da questo punto di vista, insaporendo appunto le cose senza modificarle, ogni milanese sa perfettamente che è troppo sottile e labile la linea che distingue un pistolero da un pistola.

A lezione dall’Albania, subito in soccorso del popolo afghano

Chi ha conosciuto questo mondo e, con fatica, se ne è liberato, oggi manda aerei in aiuto a Kabul. Quello che sta accadendo in questi giorni a Kabul è un genocidio in piena regola e sta avvenendo sotto i nostri occhi. Uomini, donne, anziani, adolescenti e bambini costretti a scappare senza meta per cercare rifugio dalle persecuzioni dei talebani che hanno conquistato Kabul. Non è un caso che questo avvenga ora; per chi non è a digiuno di storia contemporanea sa bene che la scelta di Biden di ritirare le truppe dal suolo afgano potrebbe essere pura strategia rispetto a quello che accadrà nei prossimi mesi, in un delinearsi di nuovi fronti sulla scacchiera geopolitica mondiale. Ma mentre il mondo intero rimane sgomento per i messaggi video e per le foto che ci arrivano da là, fa notizia la scelta del Premier dell’Albania, Edi Rama, di inviare aerei in Afghanistan per soccorrere la popolazione civile e offrire così un rifugio momentaneo a chi fugge la persecuzione. Il premier albanese espone la sua scelta in un lungo post su Facebook in cui spiega le ragioni che lo hanno spinto ad agire immediatamente. Ha ricordato che in Albania trovarono rifugio gli ebrei e che nessuna di quelle duemila persone che fuggirono dal regime di Hitler venne consegnata ai nazisti. In questo modo, oltre a dare una lezione all’Occidente, Edi Rama, leader di una giovane democrazia in un paese in larga parte musulmano, ha preso anche una posizione chiara che suona come monito all’ondivago e contraddittorio ′sentiment′ diffuso nelle democrazie occidentali rispetto a quanto sta succedendo in Afghanistan: senza se e senza ma, i talebani sono i nazisti del nuovo millennio.  Mi rincuora sapere che questa volta la mia Patria natia abbia saputo dimostrare all’Occidente cosa significa mettersi in gioco al di là delle trame e degli interessi politico-economici. Mi auguro che nelle prossime ore anche la mia Patria adottiva dimostri di essere all’altezza della propria Costituzione democratica facendosi parte attiva nel soccorso ai civili afgani. E mi scuso se la dico senza tanti giri di parole, ma la differenza fra due culture di morte come quella nazista e quella talebana sta solo nel fatto che per i nazisti si trattava di affermare la superiorità di una razza sulle altre, per i talebani si tratta di affermare una superiorità di genere: il vero obiettivo dei talebani è un patriarcato folle e perverso, volto all’annientamento morale e fisico della donna. La mercificazione e la reificazione delle donne è un fatto ancestrale proprio di molte culture nel mondo. Queste abitudini inveterate non si possono, evidentemente, mettere in discussione in Afghanistan. Quelli che oggi scappano da questa terra, quelli che si aggrappano alle ali degli aerei, sono uomini e donne che si sono compromessi con gli ideali di uguaglianza occidentali e che non sono più disposti a subire una cultura criminale che accetta di far sposare bambine di 8 anni per poi seppellirle il giorno dopo la prima notte di nozze. Mi torna in mente un film albanese che mi colpì molto (“14 vjeç dhëndër”, 14 anni sposo): una famiglia  benestante, almeno rispetto alla povertà collettiva, decide di far sposare il loro unico figlio di 14 anni con una fanciulla di 20 anni, forte e robusta ma di famiglia poverissima, affinché faccia da serva in casa. La ragazza si oppone come può, scappando e salendo sul tetto di casa, minacciando il suicidio. La madre la supplica di sposarsi per dare la possibilità alle sorelle di crescere con qualche mezzo economico in più. Mossa dal senso di colpa, la giovane Marigo cede. C’è una scena del film che narra perfettamente la condizione delle donne nell’Albania rurale di quegli anni: Marigo, come tante altre donne, di ritorno dalla campagna, porta sulle spalle un carico di legna, come un mulo da soma. Due uomini, intenti a prendere il caffè, osservano con compiacimento il ritorno delle donne dai campi. “Siamo gli uomini più fortunati! Al mondo non esistono donne come le nostre”, dice uno. Ma l’altro gli risponde: “No amico mio, non sono loro le migliori, i migliori siamo noi: servirci è il minimo che possono fare”. Chi ha conosciuto questo mondo e, con fatica, se ne è liberato, oggi sta mandando gli aerei in soccorso a Kabul.

Ritorno a Tirana, come una ragazzina che ritrovi donna

L’Albania si avvia verso una nuova era della sua storia e in questo tragitto c’è bisogno di tutti. Tornare nella terra in cui sono nata, dopo lunghi anni, è stata per me una esperienza di forte impatto, uno scontro di sensazioni con le quali, appena rientrata in Italia, devo fare i conti. Tirana non è più la città che ricordavo: come una ragazzina che ritrovi donna, Tirana ha cambiato faccia, è cresciuta in altezza, quasi non la riconoscevo. Eppure, accanto ai nuovi grattacieli e al grande centro commerciale Toptani, qua e là resistono residui dell’urbanistica hoxhaista. Come a ricordarmi l’infanzia difficile da cui quella ragazzina è scampata. Camminando per le strade della capitale ho incontrato i volti solcati dalle rughe di una vita che non è stata mai facile, ma anche la freschezza di una gioventù cha ha voglia di mettersi in gioco, con una luce negli occhi, con una vitalità che mi ricorda quella di certi film italiani degli anni sessanta. E nonostante l’occidentalismo possa far paura, perché ha investito la società come un tornado, senza quasi lasciare il tempo agli albanesi di capire quello che stava succedendo, è tuttavia palpabile la disponibilità a mettersi in gioco, a rischiarsi il futuro in un mondo difficile ma finalmente aperto a infinite possibilità. Piazza Skanderberg, oggi tutta area pedonale, comunica una grande apertura: i bambini giocano, i musicisti di strada ti regalano ad ogni angolo della piazza un sorriso e suonano il classico repertorio di musica “arbëreshë”. Camminando in mezzo alla piazza, le immagini memoriali di come l’avevo conosciuta si sovrappongono a quelle che mi trovo davanti agli occhi, e mentre pranzo in uno dei ristoranti più modaioli della capitale, il mio sguardo sconfina oltre le grandi vetrate del locale. Il mio commensale, Dastid Miluka, considerato uno dei più grandi pittori albanesi contemporanei, mi indica la statua dell’eroe nazionale e subito dopo mi indica il chiosco dove i cittadini fanno la fila per vaccinarsi, ricordandomi che proprio lì, al posto di quel presidio per la salute pubblica, spadroneggiava un tempo quella statua di Enver Hoxha che 30 anni prima, proprio lui e i suoi amici studenti, buttarono giù e trascinarono via. La vittoria alle elezioni del leader del Partito Socialista Edi Rama è sulla bocca di tutti quelli che incontro. C’è chi ne è contento chi no. Alla grossa, i cittadini di Tirana non si mostrano entusiasti, mentre chi abita nelle periferie, soprattutto i contadini con cui ho avuto modo di parlare, lo adorano: è decisamente il loro uomo. A differenza delle democrazie europee insomma, il centrosinistra qui ancora non pare coincidere con le ZTL. La cosa straordinaria di Tirana, lo capisco subito, è che il potere è davvero a due strette di mano: i politici, o chi lavora per loro, non hanno la spocchia di chi è arrivato. Gli albanesi sono un popolo ospitale, non sono mai riuscita a pagare un caffé. L’ospite è sacro in Albania, e un ospite, mi rendo conto, è quello che sono. E mentre faccio la turista da un angolo all’altro della città, da uno studio televisivo all’altro, noto i volti delle persone. Quelli sì non sono granché cambiati. Accetto l’invito del rabbino dell’Albania Yisroel Finman, al centro cinematografico Pietro Marubbi, pittore italiano naturalizzato albanese e sostenitore di Garibaldi, che venne coinvolto durante i moti risorgimentali nell’omicidio del sindaco di Piacenza costringendolo così, nel 1856, a emigrare nell’Albania dell’impero ottomano. Il centro cinematografico Marubbi ha un giardino meraviglioso, pieno di opere di artisti contemporanei albanesi. Con il rabbino rimaniamo seduti a parlare dell’Albania degli ultimi anni, dei movimenti studenteschi, degli ebrei che vennero salvati dal popolo albanese, del progetto di costruire insieme un Albanians National Museum of Holocaust e, più in generale, di questa fragile democrazia che ci vede tutti coinvolti. Inizia a pioviccicare e lasciamo il centro cinematografico e il suo meraviglioso giardino che si apre accanto al Ministero delle Finanze e del Commercio. Una strada provinciale ci separa dai nuovi palazzi costruiti negli ultimi anni. Ammassi di cemento che fuoriescono dalla terra e che i cittadini albanesi chiamano case. Non c’è equilibrio architettonico, sono palazzi partoriti in piena crescita economica del paese: ricordano le speculazioni edilizie dell’Italia del boom. Palazzi senza una identità, senza storia: grigi e stretti, gli uni agli altri, come a tentare di non cadere nonostante sembrino ancora nuovi. Per strada i cittadini vanno in bicicletta, altri in macchine dal motore truccato, con  il volume dello stereo a mille. Le persone qui si affrettano per andare da qualche parte, sembrano tutte in ritardo. Cerco di scrutare i loro volti, nei loro occhi leggo ancora smarrimento e un po’ di tristezza. Una giovane donna mi viene incontro, è ben vestita, con la sua 24 ore sotto braccio. Ha uno sguardo sospettoso. Cammina su tacchi a spillo altissimi. In punta di piedi al suo dolore, penso. E infine l’incontro con Blendi Fevziu, il conduttore TV più noto in Albania che qui paragonano a Bruno Vespa. Un uomo molto gentile. Fevziu, negli studi di RTVKlan, mi mostra la statua di mio zio, il pittore Ibrahim Kodra, migrante a sua volta nell’epoca del re Zogu e morto a Milano nel 2006, che è riuscito a salvare. E così, davanti a quella statua che riproduce le immagini dei suoi quadri, rivedo la mia storia. Perché l’arte, come la filosofia, anticipa la vita e getta la sua rete di senso sempre un po’ più in là, in un’Albania fantastica ancora tutta da inventarsi. Ma Tirana è una capitale in grande espansione, il lavoro di questi ultimi 30 anni è visibile nelle strade, negli edifici, nei parchi, nei locali alla moda. Camminare per le vie di questa città non fa più paura. Anzi, si ha come la percezione di essere protetti. L’Albania si avvia verso una nuova era della sua storia e in questo tragitto c’è bisogno di tutti. Negli occhi dei miei connazionali in questi giorni ho letto voglia di vivere, desiderio di ripartire, di scoprirsi. Nei volti dei cittadini albanesi ho letto tanti valori, ma soprattutto ho visto la partecipazione attiva alle tematiche politiche: la partecipazione dei cittadini comuni alle discussioni in ogni bar, mi ha commosso. I giovani albanesi sono pieni di talento, sono gentili, aperti al futuro e alle potenziali connessioni culturali. In Albania, in questi giorni, non mi è mai capitato di ascoltare una parola denigratoria o offensiva. Qui il razzismo non è ancora di casa. Per il resto, in questo viaggio di ritorno nella mia patria di origine, la sensazione più buffa che ho provato riguarda proprio la constatazione di quanto il popolo  albanese sia simile a quello italiano. Simile, certo, ma solo ancora un po’ più giovane. Sapere di poter cambiare le cose: questa è la sensazione che riassume tutto il mio viaggio. Il terzo mandato di Rama può suggellare questa nuova ripartenza se l’Europa finalmente comprendesse che è necessario far ripartire i negoziati di adesione il prima possibile. Perché c’è una forza nel popolo albanese che ancora ti coinvolge pienamente e ti trascina a ripensarti come individuo nella storia, come cittadino nel mondo, come essere umano in viaggio. Questa energia io credo possa davvero servire all’Europa e all’Italia: il paese di fronte adesso è ancora più vicino.

L’Albania che verrà

L’augurio è che chi si troverà a guidare il paese dopo le elezioni abbia la forza di guardare un passo più in là dell’urgenza del momento. A pochi giorni dalle elezioni in Albania, voglio tornare sulle questioni balcaniche, perché ancora una volta mi pare quello lo scacchiere geopolitico sul quale l’Europa potrà giocare una partita decisiva. Dipenderà infatti dalla capacità di inclusione dell’Europa rispetto a quest’area, europea a tutti gli effetti, il futuro stesso dell’Unione e la sua capacità di fungere da hub fra oriente e occidente, e fra nord e sud del mondo. Intanto, colpisce la vittoria alle elezioni in Kosovo di Vjosa Osmani, che succede Hashim Thaçi, dimessosi dopo le accuse del Tribunale dell’Aia per crimini di guerra e crimini contro l’umanità, perché per la seconda volta, dopo Antifefe Jahjaga, in quest’area balcanica, considerata da sempre paese satellite dell’Albania, a vincere è una donna. Un esito dal forte valore simbolico: da una parte il riscatto rispetto a quel terribile e ancora troppo recente passato di stupri etnici che ha devastato la vita di migliaia di donne kosovare, dall’altra il riconoscimento che sono proprio le donne (e i giovani) la risorsa più importante per il futuro del paese. Questo chiaro segno di svolta non potrà non pesare, in qualche modo, anche sull’agenda del governo che uscirà dalle urne albanesi la prossima settimana. Perché continuo a pensare a quella storia che racconta Ismail Kadaré, della cittadina assediata dall’esercito turco, che resiste grazie a un crudele espediente: un cavallo lasciato senz’acqua per lunghi giorni e infine liberato svela ai cittadini una fonte nascosta d’acqua che consentirà loro di sopravvivere. Se penso a questa storia come a una metafora della condizione albanese, vedo i quarant’anni di regime hoxhaista come il giogo che ha reso il popolo albanese assetato quanto il cavallo di Kadaré: dopo lunghi anni di transizione si tratta dunque, ancora adesso, di scovare le fonti d’acqua nascoste nel paese. Con un’età media minore di cinque anni rispetto alla media europea, l’Albania che uscirà dalle urne fra due settimane dovrà fare i conti col fatto che sono proprio i giovani e le donne questa risorsa nascosta da cui potrà scaturire lo sviluppo economico dei prossimi anni: riconoscere la loro centralità, da molti punti di vista, significa peraltro riconoscere la necessità di quel cambio di paradigma, nell’esercizio dei poteri, che coincide esattamente con le priorità poste dell’EU per portare a termine l’acquis. Il governo che uscirà dalle urne ha, di fatto, questo obiettivo a portata di mano, ma potrà raggiungerlo soltanto se saprà dimostrare, sin da subito, di essersi sbarazzato degli ultimi cascami di quella sfiducia verso le libertà, eredità di ogni regime, che altro non è se non una residua sfiducia nel popolo e quindi nel paese stesso. Questa volta, dunque, la sfida fra Rama e Basha è davvero decisiva non solo perché avviene a ridosso di una elezione storica come quella in Kosovo, ma soprattutto perché, chi vincerà, dovrà rispondere a una precisa chiamata di portata epocale. Se infatti la pandemia rappresenta in qualche modo l’anno zero di una nuova èra, a chi si aggiudicherà il governo del Paese spetterà l’opportunità di scegliere da che parte della storia si debba guardare. Restando ancora nell’ambito descritto dalla metafora di Kadaré, il reperimento delle nuove risorse avverrà tanto prima quanto più il paese sarà lasciato libero di esprimere le sue potenzialità, proprio a partire dai giovani, che sono la fascia di popolazione più pronta e attrezzata culturalmente per cogliere le occasioni che si presenteranno nella spinta reattiva post-pandemica. Che questa sia la fonte nascosta del paese infatti non è una petizione di principio o un semplice esercizio di wishful thinking, ma una realtà suffragata da dati eloquenti legati al fenomeno migratorio: in Italia la comunità albanese è la terza per numero, dopo quella rumena e quella marocchina, ma la prima per numero di iscrizioni all’università. Di più: guardando i grafici risulta che oltre il 48% degli iscritti è donna. Secondo il rapporto del 2018 sull’integrazione dei migranti del governo italiano, infine, leggiamo che le donne albanesi nelle università italiane hanno conseguito, rispetto agli altri iscritti non italiani, i migliori risultati. Se dunque vogliamo trovare una morale alla storia di Kadaré, da questi dati risulta chiaro chi abbia più sete di conoscenza, di sviluppo e innovazione, e chi rappresenti quindi l’asset più importante su cui fondare la nuova Albania dell’era post-pandemica alle porte. A partire da questo, per esempio, si potrebbe cominciare col rafforzare i corridoi inter-universitari Albania-Italia già in essere, e far nascere dei veri e propri gemellaggi con le università italiane su settori strategici della ricerca e dell’innovazione: è senz’altro interesse dell’Italia velocizzare il processo di adesione dell’Albania all’Europa, ma lo sarà ancora di più se all’Italia verranno offerte occasioni di investire risorse in un paese che, anche solo per la sua collocazione geografica, è destinato ad avere un ruolo chiave sul fronte geopolitico dei prossimi anni.  Il compito che sta davanti al governo che uscirà dalle urne è, in definitiva, quello di ribaltare la prospettiva da cui si è guardato all’Europa, nel momento stesso in cui si faranno passi decisivi verso l’acquis: l’Albania non potrà più limitarsi ad essere destinataria di progetti che la coinvolgono passivamente o di aiuti umanitari volti a stabilizzarne il fronte interno nell’ottica della pax balcanica. I giovani e le donne dovranno essere messi in condizione di presentarsi come soggetti attivi che possano entrare davvero in relazione con l’Europa espansiva del recovery fund. Perché quella che viene sarà un’Europa che avrà tutto l’interesse a rafforzare i propri confini verso Oriente. Dopo la Brexit, del resto, per non cadere nell’ininfluenza geopolitica, un’Unione Europea amputata non avrà altra scelta se non quella di rafforzare la sua presenza continentale: il tempo e l’occasione sono dunque arrivati. L’augurio è che chi si troverà a guidare il paese dopo le elezioni abbia la forza di guardare un passo più in là dell’urgenza del momento, perché il futuro si costruisce già da ieri.

Elezioni in Albania, cosa ci possono insegnare le giovani democrazie

Manca meno di un mese alle elezioni in Albania, e, come ogni volta, noi expat cerchiamo di informarci, di comprendere le ragioni delle parti in lotta. Lo facciamo sapendo che il nostro sguardo ha, allo stesso tempo, il pregio e il difetto della distanza. Facendo un passo di lato, dall’altro lato dell’Adriatico nel mio caso, le cose si vedono nella loro oggettiva interezza, ma di certo si perdono dettagli fondamentali e passaggi essenziali. Torna in mente la celebre frase di Heisemberg, secondo la quale quando diciamo che “se conosciamo in modo preciso il presente, possiamo prevedere il futuro”, non è falsa la conclusione, bensì la premessa. Perché, dice Heisemberg, “in linea di principio noi non possiamo conoscere il presente in tutti i suoi dettagli”. Ci mancano dunque i dettagli, le sfumature, ma intanto, quando pensiamo alla bandiera dell’Albania, vediamo l’aquila a due teste, che per noi simboleggia un doppio sguardo: da una parte il passato, dall’altro il futuro. Ma più ancora, proprio in questo simbolo crediamo si possa ritrovare il coraggio di una identità multiforme: tra Occidente e Oriente sorge la forza di questa giovane nazione.  La sfida delle elezioni, certo, è di quelle già viste, ma questo non significa che sia meno interessante o che l’esito sia scontato. Come nell’ultima tornata del 2017, Lulzim Basha del Partito Democratico sfiderà Edi Rama, attuale Premier in carica del partito socialista. Da una parte abbiamo dunque Rama, il grande comunicatore, l’uomo che si espone in primo piano, che conosce perfettamente gli strumenti del consenso e i colpi di teatro (la battuta è implicita ma voluta, anche se forse comprensibile soltanto ai lettori albanesi). In Italia hanno tutti apprezzato moltissimo il fatto che sia volato in piena pandemia a portare la solidarietà del popolo albanese: una mossa saggia e strategica, eseguita con tempismo perfetto. Ma per gli albanesi Rama è soprattutto l’uomo della ricostruzione post terremoto: quello che ha bussato alle porte dell’Europa e ha saputo farsi aprire. Dall’altra abbiamo Basha, l’uomo cresciuto nelle istituzioni nazionali ed internazionali, un carattere assai più schivo, quasi reticente. A suo agio più negli uffici del Palazzo che non in mezzo alla gente, Basha sconta forse questa percepita distanza dall’uomo della strada. E tuttavia ha l’aria di chi si mette lì, studia e trova una soluzione: è a lui che dobbiamo la libera circolazione degli albanesi in area Schengen. Sullo sfondo della contesa, resta però per noi expat soprattutto l’Albania, il Paese che vorremmo ritrovare comunque vadano le elezioni. Una terra in cui abbiamo sofferto le atrocità della guerra civile, da cui siamo dovuti fuggire con niente in mano e il cuore pieno di dolore, una terra della quale, di anno in anno, guardiamo con orgoglio e timore il riscatto. Timore perché, sia chiaro, l’Albania è una democrazia ancora giovane, in cui i conti col passato sono stati fatti forse troppo in fretta e in cui certi fantasmi si aggirano ancora indisturbati.  Orgoglio perché, se la terra delle aquile qualche volo importante ha imparato a farlo, allora è proprio nello specchio di questa democrazia giovane, con un futuro di sviluppo ancora tutto da costruire, che i Paesi europei possono trovare ispirazione per rimettere in campo il primato di una politica che sappia fare la differenza. Gli asset economico strategici del Paese offrono possibilità importanti di crescita, in qualche caso persino oltre le aspettative. Se era già chiaro agli investitori internazionali, negli anni appena passati, che il turismo poteva rappresentare opportunità importanti, lo sarà a maggior ragione adesso che l’Europa si appresta, pur con tanta fatica, a lasciarsi alle spalle la crisi pandemica. Insieme a questo, chi si troverà al comando della nazione dovrà però comprendere a fondo che il turismo sostenibile, quello che porta vera ricchezza, è sempre più legato a un’offerta esperienziale più che al puro e semplice consumo di un luogo. In altri termini, in futuro non basteranno le sdraio sul litorale, per quanto meravigliose siano le coste albanesi. Si dovrà invece preservare e rendere oggetto di narrazione il “genius loci”, lo spirito del luogo. L’Albania dovrà insomma ritrovare l’orgoglio della propria multiforme cultura, intendendo questo termine nel senso più ampio possibile: dalla valorizzazione della tradizione agroalimentare alla ricerca di quella straordinaria complessità di ramificazioni che legano il popolo albanese al resto d’Europa. Proprio nell’ottica della tanto agognata adesione all’Unione europea, l’Albania ha l’opportunità, ora più che mai, di lavorare su quei “notevoli sforzi necessari” atti a migliorare le condizioni indicate dall’UE per l’acquis: dall’ambiente ai controlli finanziari, dalla giustizia alla sicurezza nel rispetto delle libertà civili, dai media ai diritti fondamentali. Allo stesso modo, gli investimenti nell’industria manifatturiera, in un’ottica di ripresa dei consumi su scala globale, potranno stimolare ancora la classica economia di delocalizzazione favorita dal costo del lavoro. Ma se questo è ciò che è lecito aspettarsi, resta ancora una miniera di opportunità da sondare, che, a mio modesto avviso, rimane l’asset strategico più importante da cui trarre un impulso che potrebbe rivelarsi davvero decisivo nei prossimi anni. Ed è appunto qui che la mia storia personale mi fornisce elementi per elaborare la visione che ho dell’Albania del futuro, per come vorrei che fosse. Perché sono, di fatto, figlia ed erede di due diaspore, sia come ebrea che come albanese. E se c’è qualcosa che deve insegnare a un popolo l’aver vissuto l’esperienza tragica della diaspora è che, alla fine, da un elemento di debolezza iniziale, si può ricavare una chiave di accesso privilegiato al mondo globalizzato. Mi riferisco alla ricchezza più grande di cui può godere un individuo e, per estensione, il popolo a cui appartiene: il capitale delle relazioni umane. Proprio quest’anno, che cade il trentennale di quel grande esodo che spinse il popolo albanese a scappare dalla propria terra, conviene a chi si contende il governo della nazione tenere a mente un semplice dato: sono circa 2 milioni gli albanesi che vivono oggi fuori dai confini del Paese, principalmente in Italia, Germania, Austria, Grecia, Inghilterra, Francia e Usa.  Tutti con una storia dolorosa alle spalle, la gran parte di loro (di noi) si è rimboccata le maniche e si è data da fare. Dove vivo io, in Italia, gli albanesi hanno aperto aziende edili, lavorato con maestria e coscienza, hanno mandato i figli a scuola, li hanno fatti laureare. Ermal Meta ha conquistato Sanremo, io ho aperto qualche start up di successo, Klaudio Ndoja gioca nella nazionale di basket. Potrei andare avanti per ore con esempi su esempi, ma quello che conta davvero è che ciascuno di noi expat rappresenta un piccolo patrimonio di relazioni internazionali su cui l’Albania dovrebbe poter contare. Certo, si parla sempre a titolo personale, ma in questo caso voglio arrogarmi il diritto a farlo in nome di tanti expat che immagino possano pensarla come me: siamo a disposizione, vogliamo dare una mano. Non tanto perché riteniamo di dover restituire qualcosa, sia chiaro. Piuttosto, perché, proprio in quanto albanesi, non vorremmo mai che altri figli di questa terra, che ancora sentiamo nostra, dovessero mai rivivere quello che toccò vivere a noi.

La vecchia Europa ci ricorda il futuro della nuova.

Il Covid-19 ci porta molto lontano, nell’Antica Grecia, la stessa che coniò la parola “Europa”, e che distingueva con essa il mondo civilizzato da quello che non lo era: la guerra del Peloponneso (430-404 a.C) fra Sparta ed Atene. Perché se è vero che historia magistra vitae allora dovremmo tentare di capire come l’illuminante Atene di allora gestì quella peste, che secondo il racconto del famoso storico Tucidide, era entrata nella città Stato attraverso il porto del Pireo, l’unica fonte di cibo e rifornimenti. La pandemia fece moltissimi morti in tutta la costa del Mediterraneo Orientale, presentandosi violenta a più riprese. Come allora Tucidide ricorda la retorica della propaganda sociale, politica, economica e culturale, che in tutta Ellade si faceva sull’importanza del rimanere uniti, anche oggi quella stessa distanza forzata aiuta a contenere il virus. Storicamente le pandemie sono la principale causa della diminuzione demografica nonché della mutazione degli assetti geopolitici sul piano mondiale. La peste di Atene colpì tutti e senza distinzioni sociali ed economiche; la gente si sentiva abbandonata, per cui tutto il sistema di valori conosciuto sino ad allora venne messo in discussione. Addirittura i religiosi più ferventi erano convinti che si trattasse di una prova degli dei, che favorissero come vincitrice Sparta; sembra quasi di vedere delle similitudini nelle capriole mediatiche di Donald Trump mentre tenta di dare la colpa alla Cina di Xi Jinping, senza però averne le prove, come l’America ci sta abituando sia prassi fare. C’è poi un dato particolare negli scritti di Tucidide, che è quello inerente alle conseguenze dell’epidemia sulla res publica. Lo storico ateniese evidenzia come in quel periodo si verificò la totale scomparsa dei costumi sociali: la malattia aveva infatti avuto gravi ripercussioni sull’ordine civile e religioso. I cittadini di Atene avevano smesso di avere rispetto della Legge e non ne temevano le conseguenze poiché si sentivano già sotto un giogo più grande che li avrebbe condannati a morte. Così le persone spendevano tutto il loro patrimonio a loro disposizione, e mentre molti perdevano, c’erano anche pochi individui chi investivano nella città, diventando molto ricchi. E questo sicuramente avverrà anche ai giorni nostri, per chi saprà trarne vantaggio. Un altro dato significativo che ci viene dalla Grecia antica, è quello relativo ai comportamenti disonorevoli: le persone avevano cessato le buone abitudini perché non erano più interessati a coltivare la loro buona reputazione, considerando che sarebbero morti in breve tempo. Un rischio che corrono anche le nostre democrazie moderne oggi e nell’immediato futuro.  Oggi il Pireo della vecchia e moderna Atene sono gli aeroporti di Milano, Parigi, Londra, New York, Tokyo, Singapore, Pechino, punti di snodo della nostra contemporaneità, tutti strettamente collegati fra loro, mentre l’odierna guerra del Peloponneso è quella tra il sistema tradizionale del concepire il lavoro e la longa manus del capitalismo. La nostra società è quindi obbligata a ripensare ai modelli del lavoro, di autoimpiego e di gestione delle risorse nell’era della odierna globalizzazione. Ripercorrendo i passi dello storico Tucidide possiamo annotare alcuni dati in merito ai comportamenti delle persone in vari ambiti, perché se le persone sono costrette a casa, alcuni settori dell’economia ne guadagneranno in termini di crescita, come per esempio il digital, mentre altri, per esempio l’industria e il turismo, ne usciranno profondamente lacerati. Così come in passato le pandemie hanno avuto delle ripercussioni socioeconomiche, oggi è più facile registrarne gli effetti, anche guardando i dati, molto più cospicui oggi di allora; perché se è vero che la politica del Bel Paese forse oggi non stia brillando nelle proprie scelte, la forza degli italiani si conferma nella consueta capacità di trasformare anche una tragedia come questa in una possibile quanto necessaria opportunità.  Il Covid-19 sta infatti modificando i nostri comportamenti, incidendo ad esempio su come le persone cercano le informazioni online. Secondo la ricerca sulle parole chiavi ricercate dagli utenti italiani sui motori di ricerca, seotesteronline.com, azienda italiana specializzata in analisi SEO, afferma che sono aumentate le ricerche nei settori del food delivery, ecommerce, medico così come in quello della telefonia mobile, mentre i settori dell’automotive e del travel ne sono usciti distrutti.  Il fatto che trascorriamo maggior tempo a casa ci ha portato anche ad un aumento delle conversazioni sui social, e questo dato lo conferma creationdose.com, startup italiana specializzata in Martech, verificando un incremento dei messaggi diretti su Instagram di oltre 71%, mentre le stories e i live sono aumentati oltre il 75%, con contenuti su sport in casa, cucina e momenti condivisi in famiglia. Mentre su TikTok l’aumento è stato di oltre 2.3 miliardi di visualizzazioni solo sull’hashtag #iorestoacasa, iniziativa social che ha visto gli italiani condividere la necessità di restare presso le proprie abitazioni in questa fase di crisi e quindi di lockdown.   Con la permanenza obbligata in casa abbiamo cambiato anche il modo di vivere il lavoro, e questo sta spingendo l’Italia verso un forzato processo di digital trasformation, che comunque il Paese necessitava da tempo: siamo infatti passati da 570 mila smart workers di ottobre 2019 a 3 milioni di marzo 2020 secondo coderblock.com, la startup italiana specializzata nel lavoro da remoto. Il fatto che non possiamo muoverci da casa ci ha condotti inoltre ad adottare nuovi abitudini nello shopping, e ha visto l’impennata dell’ecommerce come modalità agevole per fare acquisti. Secondo Netcomm, il consorzio italiano sull’ecommerce, il lockdown ha triplicato i nuovi consumatori online: sono infatti 2 milioni in più rispetto ai 700 mila del 2019. Mentre Nielsen, azienda globale di performance management, conferma il boom degli ordini online, con una crescita sul territorio nazionale di +82,3%. Anche i grandi brand stanno investendo sempre di più nell’ecommerce, lo confermano i dati di japal.it, specializzata in questo ambito, che da sola ha visto un aumento delle vendite di oltre il 155%.  Il valore di avere strumenti che ci permettono di comunicare i nostri messaggi e l’interattività con cui agiamo è una possibilità in più rispetto ai cives di Atene perché in questa storia siamo tutti coinvolti e insieme possiamo tentare di contribuire alla nascita di una nuova Era e verso un nuovo futuro, lasciandone delle tracce evidenti e durature, e non solo temporanee e strettamente legate a questa emergenza. E già successo nella Storia, e succederà anche adesso. Ma è altrettanto vero che, oggi più che mai, temi come la privacy e la libertà dovrebbero scuoterci, perché vanno ripensate le dinamiche del potere tra chi detiene il monopolio delle informazioni e gli Stati (ci stiamo rendendo conto tutti solo ora, e tardi con le app di contact tracking, di quanto tutto questi sia importante e di come impatta davvero nel nostro quotidiano). Questi temi possono essere affrontati solo in termini politici (e non solo quindi sotto il profilo sanitario o economico), ed è giunto il momento in cui i nostri governi (e probabilmente per primi i popoli europei) riorganizzino le loro idee rispetto allo status quo delle cose, perché le possibilità per uscire fuori da questa piaga, antica come il mondo, sono solo due: quella di essere sommersi da questa onda, oppure di cavalcarla, consegnando a noi tutti cittadini spazi aperti dove pensare e progettare le nostre vite e il nostro futuro, nella concretezza dei nostri diritti e doveri, e della nostra libertà. Come si dice oggi in Italia: distanti, ma uniti. Così oggi l’Europa deve guardare a quella che era la sua vera forma primordiale, quella incisa nelle parole di Altiero Spinelli in quel Manifesto di Ventotene, e che fa eco al motto dell’Unione Europea ancora oggi: unita, nella diversità. Sperando davvero che questa sciagura possa essere almeno l’occasione per unirci davvero; e per riunirci, nella nostra Europa.

Terremoto Albania: quanto è illegalità e quanto calamità naturale?

È trascorsa una settimana dalla prima scossa di terremoto che ha piegato la mia città, Durazzo, e tutta l’area circostante. Giorni terribili, abbiamo pianto 50 morti e ancora stentiamo a credere a questa disgrazia che colpisce sempre di notte. Così come avvenne a L’Aquila, Accumoli, Amatrice, Catania, Ischia, Norcia, Castelsantangelo sul Nera, Mormanno, Medolla Emilia Romagna ecc. Perché il male ti accoglie sempre così, quando sei nella parte più buia della vita. Non bussa, irrompe piombando la sua tragedia e violenza mortificando le nostre ragioni, le nostre certezze, tutti i piani. Durante questi giorni e ore ho ricevuto messaggi, mail, commenti di sostegno e vicinanza da parte dei miei colleghi e non, e che non smetterò mai di ringraziare abbastanza. Poi ho letto commenti dai toni più inappropriati, quelli dove mi suggerivano come avrei dovuto rispondere, come mi sarei dovuta vestire, piuttosto che commentare le parole che ho detto durante le mie interviste sulle reti nazionali in cui ho presenziato. Che sia chiaro, io sono abituata ad ogni genere di critica da sempre, e poi fa parte del mio lavoro, perché sono fermamente convinta che ogni crescita avviene scambiando opinioni diverse, perché ognuno è libero di esprimere la propria idea, persino di offendere, in fondo al netto delle azioni ognuno si veste con le parole che meglio lo/la rappresentano. Tuttavia, uno dei commenti più frequenti che ho letto sui miei account social e più in generale sui vari gruppi su Facebook era inerente al fatto che nelle mie interviste e articoli avrei “sparlato” dell’Albania, degli albanesi e che i panni sporchi si lavano in casa propria. Ecco, cari connazionali, ovunque voi siate nel mondo, quando nei miei articoli e video parlo di criminalità mi riferisco proprio a questo modo di fare e dire. Il vero marcio è intrinseco in questo pensiero, dunque nelle fondamenta del nostro Paese, nelle nostra ossa, le nostre case. Viviamo nell’era della globalizzazione, la “casa propria” è il non luogo. Noi piangiamo, ridiamo, scherziamo, piaciamo, offendiamo, ci arrabbiamo con le emoticons. Una faccina e la democrazia 2.0 ringrazia, gli algoritmi ci premiano, isolandoci in un mondo parallelo, una specie di second life dove, attraverso le bubble filters, si ha l’impressione di essere giusti, di essere migliori rispetto alla quotidianità che pretende di viverci piombandoci in quei pochi metri quadrati di libertà dove confina la nostra vita. Ecco, in questo spazio liquido così condiviso, quindi così reale, versiamo la nostra umanità, emoticon dopo emoticon. Ho sempre pensato che i rappresentanti politici, i nostri governanti, sono l’esegesi di ciò che siamo e rappresentiamo per noi stessi e dinanzi al mondo. Negli ultimi mesi ho ricevuto numerose segnalazioni da parte dei cittadini di Durazzo in merito a molte strutture che risulterebbero non regolari ma che qualcuno ha regolarizzato. Dove la moltitudine accetta come consuetudine l’omertà, quei pochi individui che si battono per la democrazia e per uno stato dalle regole più trasparenti diventano dei personaggi orwelliani, gli ultimi uomini della terra. Ecco io voglio parlare per questi ultimi che non prostituiranno mai la libertà per allinearsi a quel modo di fare ed esistere ereditato da un passato che ancora si ostina a presenziare come un fantasma pilotando così le coscienze di molti a discapito dei pochi. Il mio cuore si stringe forte ai familiari delle vittime, a tutti coloro che hanno perso le case, a coloro che stanno trascorrendo le notti nelle tende, ai bambini che in quelle macerie hanno perso il sorriso. Il mio cuore piange le vittime, le mie parole non potranno mai sollevare ciò che si è perso nel tempo ma so per certo che se tutti insieme scegliessimo di risvegliarci nella bellezza della verità, potremmo un giorno narrare ai nostri figli e nipoti che il vero fondamento della democrazia è la libertà di alzarci in piedi e testimoniare le ferite, perché il silenzio uccide ancor più di ogni mafia. Ma soprattutto che nessun gioco di potere vale la vita, le vite di tutti noi. Coloro che scelgono di stare in silenzio valorizzano la violenza degli omertosi e ignavi, che in base a come il potere, piccolo o grande che sia, li accarezzerà facendo chiudere le loro dentature acuminate, abbasseranno lo sguardo perché pensano che è così che va il mondo, così è sempre stato fatto, un cordone ombelicale duro a spezzare, una catena demoniaca che ha sprigionato la sua rabbia il 26 novembre 2019.

L’Albania tra turbocapitalismo e terremoti.

Sulla costa orientale dell’Europa, a sud dei Balcani, per la precisione nella città di Durazzo, c’è una lunghissima teoria di case, una appiccicata all’altra che si estende per decine di chilometri. Per chi l’ha visitata negli ultimi anni, la città che si allunga in verticale con arti informi, rimembra la selvaggia Rimini del dopoguerra. Interi villaggi e paesi che si uniscono al lembo della città di Durazzo, come un lenzuolo unico esposto su un grande balcone che si affaccia sull’Adriatico, mare nostrum. Nostro degli albanesi, nostro degli italiani. Durazzo venne fondata nel 627 a.C da colonizzatori corinzi e corciresi con il nome di Epidamno (Ἐπίδαμνος), ma furono i romani, successivamente alle guerre illiriche, a ribattezzarla in Dyrrhachion (Δυρράχιον), poiché, si narra, il vecchio nome fosse di mal auspicio in quanto evocava la parola “damnum” che significa perdita e svantaggio. Ma la città di Durazzo poggia le sue fondamenta su un territorio alluvionale dalla scogliera vulnerabile, ed è proprio questa la vera traduzione di Epidamno e/o Dyrrachion (δυσ-cattiva, ῥαχία – scogliera). Nel V secolo la città venne colpita da un violentissimo terremoto che causò importanti danni ma l’imperatore di Bisanzio Anastasio I, costruì un ippodromo e una possente cinta muraria, alta 12 metri, per proteggere la cittadina. Come riporta lo storico bizantino Giorgio Pachimere, nel 1273, la città venne colpita nuovamente da un feroce sisma, ma la muraglia, che nel tempo era stata ridotta a 6 metri, contenne i danni permettendo a Dyrrachion una rapida ripresa sotto l’aspetto economico e questo grazie anche al Regno di Carlo d’Angio’ che fece di Dyrrachion il più grande centro commerciale per la produzione e lo smistamento del sale. Ma fu il terremoto del 1926 che danneggiò la città in maniera significativa, tale da permettere successivamente una ricostruzione dal taglio più moderno, che è quella che conosciamo oggi. Il 26 novembre 2019 Durazzo sopravvive ad un ennesimo terremoto di magnitudo 6.5, che ha causato la morte di 15 cittadini e oltre 600 feriti. Ma le cifre sono inesatte, destinate a crescere nelle prossime ore e nei prossimi giorni. Dopo la seconda guerra mondiale, sotto il regime hoxhaista, venne realizzata l’autostrada che collega Durazzo a Tirana, ma dobbiamo arrivare agli anni 90, per l’esattezza nel 1998, perché l’Albania conosca il suo risveglio edilizio. In questi ultimi 20 anni i lavori svolti per la ricostruzione del Paese sono stati ingenti, un po’ come per l’Italia del dopoguerra. Neppure le piramidi finanziarie del 1996 sono riuscite a demotivare gli albanesi. Ma oggi, abbiamo capito bene anche noi il vero senso del capitalismo, anzi di questo turbocapitalismo, che in Albania ha edificato le sue radici su un fondale instabile. Lo sanno bene gli albanesi che il territorio che si affaccia sul Mar Adriatico si appoggia su una fragilità idro-geologica che nel corso dei secoli ha turbato la città a più riprese. Come avvengono gli appalti? Che ruolo ha il governo albanese in merito a questo scempio? Qual è la gestazione degli introiti economici che puntualmente volano su Tirana per poi disperdersi in un mare di carta, passando di mano in mano. Le domande sono tante e spinose, ma in Albania funziona così: se tu hai i soldi, paghi e chiedi il condono edilizio. Paghi e sei in regola, paghi e il territorio è edificabile. Una marea di carta che regolamenta il piano edilizio. Insomma, cose che neppure gli oligarchi del 433 a.C, che uccidendo i dissidenti di Dyrrachion e aiutando i corciresi, causarono la prima guerra della Storia antica, conosciuta meglio come la guerra del Peloponneso. Eppure questo territorio fangoso, qual è l’Albania, cerca aiuto, e non può ribellarsi alla dittatura burocratica, al clientelismo, all’ignoranza che imperversa, al silenzio dei pochi a favore dei molti. Avete capito bene, sono molti, perché funziona così questo capitalismo, ti lega a una ragione per cui tu singolo hai qualcosa da guadagnare quando invece è la comunità a perdere. Perdiamo il limite nell’autodefinirci un popolo, nella sua tradizione, nella sua cultura, nell’anima. L’Albania di queste ore non c’e l’ha più. Esseri alogòi che non possono permettersi di sottrarsi al giogo a cui si sono legati. Briciole di umanità verranno sparse in queste ore, ma domani è un altro giorno e tutto verrà dimenticato per una tragedia che sembrerà più grande, che è la tragedia che siamo noi.