Comunismo

Verginità Rapite, di Ismete Selmanaj, Bonfirraro Editore

Verginità rapite: storia di Mira

Il romanzo “Verginità Rapite”, adottato come testo di studio alla Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Palermo, oltre ad essere inserito come testo di lettura nelle decine di Istituti e scuole di Sicilia nell’ambito di un progetto del MIUR “Libriamoci, letture ad alta voce”, nonché finalista del Premio Letterario Giornalistico Piersanti Mattarella 2017. La storia racconta di una ragazza albanese, Mira, che diventerà molto presto donna. Mira trascorre l’adolescenza nell’Albania comunista tra la fine degli anni ’70 e l’inizio degli anni ’80. A seguito di una violenza da parte del segretario del Partito della scuola rimane incinta, ed è costretta ad allontanarsi dalla sua famiglia per non disonorarla. Queste situazioni le cambieranno radicalmente la vita ma non le impediranno, una volta diventata una donna, di perseguire i suoi progetti per costruirsi un futuro migliore. Quando molti anni dopo, ex compagno Estref, l’aguzzino di Mira, afferma che: “Mira è una donna che mette le ali alle donne”, questo è il più grande riscatto di Mira e di tutte le altre donne abusate e maltrattate. Questo è il momento del grande cambiamento; l’aguzzino che ha paura della sua vittima, la quale ha preso consapevolezza di non essere debole, fragile e sola, ma forte, vincente e coraggiosa.  […] In quel momento, Mira pensò che sarebbe stato meglio essere morta piuttosto che sentire una cosa simile. Non aveva ancora compiuto sedici anni ed era incinta. Anche se non si fosse suicidata sarebbe morta per mano di suo padre. Mira sapeva che l’avrebbe fatto. Ma, assieme a lei, sarebbe morto anche il bambino. In quegli anni l’omicidio per onore, che non era ammesso dalla legge, conferiva il diritto ai maschi disonorati della famiglia della ragazza di ripristinare l’onore immediatamente. Secondo un codice non scritto, l’onore della famiglia dipendeva dalla verginità o dalla castità della donna. Quando la perdita della verginità era evidente a causa di una gravidanza, uno dei maschi della famiglia poteva anche uccidere la ragazza. Vi erano stati casi simili e lo Stato si era limitato a punizioni minime. In tal maniera, questo gesto, veniva quasi legalizzato. L’onore veniva così subito riacquistato, mentre gli uccisori venivano visti come uomini veri che difendevano l’onore della famiglia. Le leggi scritte, di volta in volta, subiscono modifiche, mentre quelle non scritte non muoiono facilmente. Mira non pensava più a sé, ma al bambino. Avrebbe fatto il possibile per salvare quella creatura innocente. L’istinto più atavico e naturale del mondo le suggeriva di difendere anche con la propria vita la creatura che aveva dentro di sé. L’istinto della madre rappresenta ciò che ha condotto e che ancora conduce la vita da milioni e milioni di anni. I ricordi di Mira di quel giorno sono come avvolti dalla nebbia; prima l’arrivo a casa, l’entrata in stanza, il padre che si toglie la cintura dei pantaloni. Senza dire alcuna parola, aveva cominciato a colpirla. Mira, istintivamente, pensava solo a proteggere il suo ventre, il luogo ove stava suo figlio. Il padre la colpiva con quanta forza poteva. «Meglio che tu sia morta, che piena di vergogna! Ci hai rovinati, maledetta svergognata, eri così vogliosa di un uomo, ma adesso ti farò conoscere io il vero uomo» e continuava a colpirla. Mira pensò che la fine fosse vicina. La madre si avvicinò impaurita al marito. «La stai uccidendo, basta!» e si parò davanti a Mira. «Non hai ancora capito? Ammazzerò lei e quel bastardo che le ha fatto questo. Questa è una vergogna che non posso accettare. Preferisco marcire in carcere, ma solo dopo aver riottenuto il mio onore. Se vuoi rimanere lì, fa’ pure, ma vi giuro sugli ideali del Partito che vi ucciderò entrambe» e prese a colpire Mira e la madre che la stava proteggendo. L’istinto materno trionfò anche in quell’ambiente lugubre, in quella mentalità arretrata in seno ad un’ideologia folle. Mira, nel sentire il padre giurare sugli ideali del Partito, ebbe un colpo. “No, non è giusto”, pensò tra sé, “io e il mio bambino moriremo e il pervertito che mi ha procurato tutto ciò rimarrà vivo, mentre mio padre continua a urlare lodi al suo Partito”. Con uno sforzo notevole riuscì ad alzarsi in piedi. Il padre, quando la vide sollevarsi senza alcuna lacrima e con occhi rivolti verso di lui, ebbe un fremito alla mano. La osservò inebetito e forse solo in quel momento realizzò che veramente stava uccidendo la sua piccola Mira, la sua dolce Mira. «È il tuo Partito ad avermi fatto questo!» gli disse Mira con decisione. Sia la madre che il padre non capirono nulla. La madre parlò per prima, approfittando dell’esitazione del marito. Ella sapeva bene che il marito avrebbe dato anche la propria vita per il Partito. «Cosa vuoi dire con questo?» chiese a Mira; quindi mormorò al marito di sedersi. Mira pensò a come dirlo, ma in quel momento non aveva alcunché da perdere, doveva condurre la discussione alla sua fine. «Sono stata stuprata e violentata dal compagno Estref» dichiarò infine. Mira ebbe molte difficoltà ad interpretare le facce dei suoi genitori. Nei loro sguardi si potevano leggere sfiducia, stupore, odio e compassione. «Non può essere vero!» disse il padre per primo. Mira si aspettava quella risposta. La sua dedizione al Partito, ai suoi membri e soprattutto al Primo Segretario del Comitato di Partito nel distretto era piena e sincera. Non poteva aspettarsi una tale ricompensa. «Lo posso giurare… è accaduto nel suo ufficio, non sto mentendo» continuò Mira implorante. «Perché non l’hai detto subito?» proseguì il padre. «Avevo molta paura» disse Mira cominciando a tremare. «Paura? – intervenne la madre. – Paura di noi?». Per Mira era una domanda molto difficile e facile nello stesso tempo. La verità facile era che aveva paura dei suoi genitori, della loro possibile reazione per quello che le era successo, ma anche dei pettegolezzi delle persone. Alla gente non importava molto il fatto accaduto, ma il vergognoso risultato conseguito da una giovane ragazza. La verità difficile era un’altra. «Avevo paura del compagno Estref. Mi ha detto che, se l’avessi raccontato, si sarebbe vendicato». «E come si sarebbe vendicato?» domandò il padre. «Mi disse che si sarebbe vendicato così come aveva fatto con Nikoleta e la sua famiglia» rispose Mira e raccontò loro cosa Estref le aveva detto. Il padre ascoltava e, sebbene una parte di lui non volesse crederci, sapeva che tutto ciò che Mira aveva detto loro era vero. Ricordava piuttosto bene la storia di Nikoleta e della sua famiglia. Allora, quando aveva saputo che erano stati arrestati per agitazione e propaganda, era rimasto stupefatto, ma non aveva pensato che in quella storia Estref avesse avuto un ruolo. Si alzò in piedi e cominciò a camminare nella stanza come un leone in gabbia. «Ammazzerò quella bestia! ‒ esplose infine il padre con voce intrisa di odio – Così non farà più male a nessuno». «Sei impazzito? – urlò la moglie – Torna in te! Vuoi ammazzare il Primo Segretario del Comitato di Partito nel distretto. E tu poi dove finirai? Verrai condannato a morte!». «Non mi interessa che mi condannino a morte. Dopo quello che è accaduto, io sono già morto» mormorò il padre con disperazione. «Ma a noi non ci pensi? Finiremo tutti internati e nelle carceri!» e nel pronunciare quelle parole, la madre di Mira cominciò a piangere. Il padre di Mira sapeva che sarebbe andata a finire in quel modo. Se avesse fatto quello che aveva in mente, lo Stato-Partito l’avrebbe punito con la morte, senza nemmeno dargli la possibilità di certificare quello che era accaduto a Mira. La sua famiglia chissà dove sarebbe finita… Si sarebbe sentito una nullità poiché non sarebbe nemmeno riuscito a difendere la dignità di sua figlia pur sapendo chi l’avesse violentata. Per la prima volta vide come la dittatura del proletariato, che tanto aveva lodato e supportato, gli si stava rivoltando contro senza pietà alcuna. Questo era il mostruoso sistema che il regime aveva innalzato per tenere il popolo sottomesso. Prima o poi, anche coloro che avevano dato il loro contributo senza eguali per costruirlo, sarebbero stati annientati e schiacciati. Mira non aveva mai visto suo padre piangere. Lo vide quel giorno, ma si comportò come se non fosse successo. Il compagno Estref, in fondo, li aveva violentati tutti.

Albania durante gli anni '70.

Albania 1970: le donne e il comunismo

di Ismete Selmanaj Mi chiamo Ismete Selmanaj, sono una cittadina italo-albanese. Sono nata a Durazzo, e come tanti miei connazionali sono emigrata in Italia nell’ormai lontano 1992, subito dopo la caduta del regime comunista di Enver Hoxha. Messina è la città che mi diede ospitalità in quegli anni bui, nella città siciliana sono nati e cresciuti i miei tre figli. Sono trascorsi più di 25 anni da quei fatti terribili che videro protagonista il mio Paese, il mio popolo, e solo oggi riesco a focalizzare in maniera nitida quel passato di cui sono stata testimone. Il partito sceglieva per me, per noi, per tutti noi. Ognuno di noi aveva un destino prestabilito, un destino che lo Stato sceglieva, e che noi tutti dovevamo compiere per il bene della collettività. Ho sempre amato la letteratura, e quando frequentavo il ginnasio in Albania ho scritto poesie e racconti riuscendo a vincere anche concorsi letterari. Ho smesso la mia passione per intraprendere gli studi universitari che il partito scelse per me. Durante il regime comunista nessuno dei giovani aveva la possibilità di compiere una scelta libera. Il partito sceglieva per me, per noi, per tutti noi. Ognuno di noi aveva un destino prestabilito, un destino che lo Stato sceglieva, e che noi tutti dovevamo compiere per il bene della collettività. Lo Stato decideva di quanti ingegneri, fisici, matematici, chimici, biologi, architetti, scienziati, economisti, pittori, e giornalisti avesse bisogno. Era chiaro a tutti che il regime focalizzava la sua attenzione sulle materie tecniche, mentre quelle umanistiche erano quasi del tutto ignorate. Gli scrittori che non si allineavano alle volontà del Partito venivano perseguitati, esclusi, denigrati, abbandonati. Lo Stato dava molta rilevanza al numero degli scrittori presenti sul territorio, quelli che obbedivano, gli scrittori del regime, venivano idolatrati, premiati affinché la loro opera fosse un encomio al regime stesso. Gli scrittori, che oggi definiremmo borderline piuttosto che non si allineavano alle volontà del Partito, venivano perseguitati, esclusi, denigrati, abbandonati in una specie di oblio. Questi scrittori venivano addirittura minacciati, oppressi dal regime molti di loro si suicidavano poiché era l’unico modo per manifestare il loro dissenso. In tutto questo quasi nessuno menziona le condizioni della donna albanese, del suo ruolo nella società, e io di questo voglio parlare. Mi chiamo Ismete Selmanaj e sono l’autrice di “Verginità Rapite”, e della storia di Mira, la protagonista del romanzo, che vi voglio raccontare.  

Stavri Bezhani

Figlia mia, la dittatura dei comunisti non sa chiedere scusa

di Irisa Bezhani È cosa universalmente nota che nelle famiglie albanesi si parli di comunismo e di Enver Hoxha, il dittatore che ha tenuto l’Albania per 45 anni nel più assoluto isolazionismo, portando il paese ad una miseria con la quale ancora oggi, in un modo o nell’altro, bisogna fare i conti. Ed è per questo che io e mio padre molte volte finiamo per parlare del comunismo, dell’Albania della dittatura, quella che mio padre ha vissuto in prima persona e che quindi è in grado di raccontarmi. Sentirlo parlare della sua vita, lui che ora ha 54 anni, mi aiuta a capire che clima si respirava a quei tempi, quando io ancora non ero nata. Ho quindi deciso di fargli qualche domanda sulla dittatura comunista, e di raccogliere la sua personale testimonianza che potete leggere di seguito. Quand’è stato il momento esatto in cui hai capito che vivevi in una dittatura? I dubbi sono sorti quando sentivo le storie che mi raccontava mia madre, anche se comunque a quell’età non potevo veramente rendermi conto della situazione. Che storie ti raccontava?  Raccontava di quando si sono rotti i rapporti con la Cina. Era il 1976, io avevo 13 anni. Mia madre aveva molta paura ma nei miei confronti cercava di mostrarsi forte, mi rassicurava, dato che ero un bambino sensibile. Mi diceva che eravamo un popolo forte, che il partito era forte; insomma, mi faceva la morale. Avevo un po’ di paura ma, come ho detto prima, non riuscivo a capire veramente. È stato al terzo anno di università, nel 1984, che ho davvero capito che qualcosa non andava. In primo luogo vedevo che c’era molta repressione: tutti avevano paura di tutti, nessuno esprimeva le proprie opinioni per paura che altri sentissero e andassero a riferire ai professori o a esponenti del partito. In secondo luogo vedevo che alcuni professori facenti parte del partito erano completi idioti. Non tutti i professori erano così, ce n’erano tanti di ben preparati, ma di quelli che facevano parte del partito, quelli che insegnavano per lo più storia del partito, marxismo-leninismo ed economia politica, erano completamente ignoranti, in tutti i sensi. Ed erano questi stessi a dettare legge nell’istituto. In terzo luogo, quando andavo a trovare mio zio che lavorava in fabbrica (nel kombinat, più propriamente un insieme di fabbriche) vedevo che molte persone si registravano e tornavano poi a casa. Dato che avevo studiato economia con risultati ottimi, mio zio mi raccontava che continuavano ad alzare il tasso di produttività; per esempio, se un operaio faceva 16 pezzi e guadagnava 1000 lekë, la prossima volta la fabbrica alzava il tasso a 20 per far guadagnare poi sempre lo stesso salario. Facevano quindi in modo che l’operaio rimanesse sempre allo stesso punto. La produttività aumentava, anche con l’aiuto delle macchine, ma la paga rimaneva la stessa di prima. Io in questo vedevo una grande contraddizione. E la più grande contraddizione erano quelli che non lavoravano e prendevano comunque la loro paga. Un’altra cosa che mi pareva difettosa era che in alcuni quartieri nella città in cui studiavo, alcune persone ascoltavano la radio di Zagabria e la musica slava e venivano sorvegliati e perseguitati dalla sicurezza e dalla polizia e odiati dalla gente. Loro alla fin fine erano persone come le altre, ascoltavano solo della musica. Insomma, capivo che qualcosa non andava, che quel sistema non aveva vita lunga, ma su cosa sarebbe successo in futuro non avevo la più pallida idea; si sarebbe fatta una guerra, ci sarebbe stata una rivoluzione? Questo io non l’avrei capito nemmeno più tardi. Vedevo anche che l’economia della campagna diminuiva sempre di più a causa del processo di collettivizzazione del 1981 che doveva in teoria arricchirci ma che in pratica ci rese ancora più poveri. Qual è stato invece l’aspetto più positivo della dittatura, se ce n’è stato uno? La parte positiva era che non c’era droga. Un’altra cosa che mi piaceva, nonostante il sistema fosse dittatoriale, era che fino ai 18 anni non era permesso fumare e se lo facevi l’opinione ti condannava. Non solo le ragazze non dovevano fumare ma neanche i ragazzi. Fino ai 18-20 anni soltanto forse il 5 per cento dei ragazzi fumava, le ragazze men che meno, per loro era impossibile. Nemmeno l’alcol era permesso. Un’altra cosa positiva era che quel sistema ha fatto un grande sforzo per portare avanti un programma di educazione, anche se questo non andava fino in fondo ed era fortemente influenzato dal partito. Il regime aveva dato molto valore all’educazione, nonostante questa fosse imbevuta di ideologia. Tutti andavano a scuola e questo processo ha aiutato a ridurre il tasso di analfabetismo del paese. E l’aspetto più negativo? Durante un conflitto per, esempio, mettiamo che io nell’età che ho adesso fossi negli anni 80, potevo uccidere una persona e la condanna non la soffrivo solo io ma tutta la mia famiglia. Se io andavo in prigione, per esempio, tu e la mamma venivate deportate ed isolate in un posto sperduto, dovevate presentarvi ogni giorno alla polizia locale, dovevate lavorare nei campi, i lavori più pesanti, vi veniva sottratto il diritto all’educazione. Quindi dici che l’aspetto più negativo era che i famigliari di un condannato dovevano anche loro ingiustamente soffrire di una colpa che non era la loro? Sì, se uccidevo qualcuno dovevo andare in prigione io, non la mia famiglia. Accadeva solo in casi di omicidio oppure anche per altri crimini? L’omicidio è l’esempio più semplice. Se qualcuno voleva fuggire e oltrepassare il confine tutta la famiglia veniva internata. C’era poi la persecuzione politica, le infrastrutture erano poco sviluppate, la gente non poteva muoversi liberamente. Mi ricordo che una volta mi dicevi che la cosa peggiore che la dittatura ha fatto è stato instillare il dubbio e il sospetto all’interno delle stesse famiglie. Sì, esatto, anche fra moglie e marito. Quali conseguenze ha avuto la dittatura nella vita delle persone? In quel periodo c’era una tale concentrazione di ideologia all’interno del sistema scolastico, a partire dalle elementari fino all’università, che appesantiva il programma. Tutto era ricondotto a queste materie: storia del partito, marxismo-leninismo, economia del partito. E la fedeltà al partito veniva valutata dai professori in base a quanto eri bravo in queste materie. Quindi gli studenti bravi, quelli che studiavano tanto, impiegavano un sacco del loro tempo per studiare quelle materie, perché alla fine ne avrebbero ricavato un guadagno. Potevi ricevere valutazioni negative anche se in matematica e fisica eri eccellente. L’appesantimento dovuto a queste materie, che allora si dicevano “sociali”, ma che in realtà erano pura ideologia, faceva in modo che persino chi usciva dalle università non fosse veramente padrone della materia per cui aveva studiato. Perché avevano perso tempo con quelle altre materie. Noi poi non conoscevamo per nulla il concetto di proprietà. Ogni cosa apparteneva allo Stato e lo Stato lo organizzava. I contadini nelle campagne non avevano terra, eccetto per un piccolo orticello di pochi metri quadri, e tutto il resto del terreno era della cooperativa, era in comune. Noi l’idea della proprietà non ce l’avevamo. E la conseguenza di questo è che quando il sistema è cambiato noi non sapevamo cosa fare, nessuno aveva messo da parte qualche risparmio. Anzi, la maggior parte dei contadini, che al tempo erano il 70 per cento della popolazione, è ritornata a vecchi metodi di produzione della terra. La cosa quindi più negativa è che il sistema ci ha lasciati impreparati una volta che la dittatura era finita. Anche solo negli anni novanta le costruzioni erano ispirate al modello russo, fatte senza isolamento termico, senza alcun tipo di cosa, solo cemento e mattoni e null’altro. E per quanto riguarda te personalmente, che conseguenze ti ha lasciato il regime? Io avevo il desiderio di continuare gli studi come economista in campo agricolo o industriale, oppure come ingegnere, ma non mi potevano far fare quello che volevo. Era lo Stato a decidere dove saresti andato. Dato che mi avevano messo a fare l’insegnante di matematica e fisica, io questo lavoro alla fine lo facevo anche controvoglia. Altra conseguenza nella mia generazione era che noi vedavamo il mondo in bianco e nero, in due colori, amici e nemici. Ancora oggi ci sono conseguenze di questa cosa in Albania. Vedi per esempio il Partito Democratico, dove si sono raggruppati tutti quelli che non volevano Enver Hoxha, secondo il modo di pensare che abbiamo. Noi vediamo le cose in bianco e nero, non rispettiamo l’opinione altrui, vogliamo tutti avere la stessa opinione. Questa è la cosa più negativa, l’io. Io devo comandare, io so, io faccio, si farà come dico io perché solo io so. Non ci sono opinioni contrarie, non c’è dialogo. E questo conflitto c’era anche nelle famiglie. Noi famiglie non sappiamo dialogare. Non conosciamo la tolleranza. Altra cosa, non conosciamo la parola “scusa”. La mia generazione non conosce la parola “scusa”. Tu pensa, io ho cambiato quattro volte mestiere nella mia vita, prima economista, poi insegnante, commerciante ed infine muratore. Al liceo mi sono impegnato in economia e sono stato uno dei più bravi allievi usciti dalla scuola di Berat. E lo Stato, invece di prepararmi come economista, mi ha fatto fare poi l’insegnante. Era un ç’organizim i organizuar (una disorganizzazione pianificata), come si dice qua in Albania. Non far specializzare una persona come me, che eccelleva in quella materia, era una disgrazia di quel regime. Quando il sistema è cambiato ho iniziato a fare il commerciante, qua in Italia poi ho fatto il muratore. Insomma, poi le conseguenze secondarie e terziarie sono molte. Ma la più importante era questa, l’assenza di dialogo in famiglia, che c’è ancora oggi e fin quando ci sarà la mia generazione questa cosa non sparirà.

Gëzim Hajdari: il poeta migrante

Scriveva la poetessa indiana Sujata Bhatt: “Va’ lungo le strade di Baroda,/ va’ ad Ahmedabad,/ va’ a respirare la polvere/ finché non soffochi e stai male/ di una febbre che nessun dottore ha mai sentito./ Non me lo chiedere / perché non ti dirò niente/ sulla fame e sul dolore./ (…)/”. Questa poesia che narra il viaggio di chi parte e il ghibli, un vento secco e caldo che ti avvolge, che soffia dal deserto. Il vento che accompagna la migranza errante. Di chi sei? Di nessuna parte. Dove vai? Ovunque mi porti il vento del destino. Noi, che di un popolo abbiamo perso le sembianze, contaminati dal viaggio, condividiamo lo stesso dolore, la stessa erranza impalpabile. Oggi scrivo di un uomo, un poeta, un mio connazionale ma soprattutto un amico prezioso che ho avuto modo di incontrare nel mio viaggio personale: Gëzim Hajdari, considerato uno dei maggiori poeti viventi contemporanei. Nato nei pressi di Lushnje, nell’Albania meridionale, vive esule in Italia dal 1993 e risiede a Frosinone. I motivi che portarono Hajdari ad immigrare non furono legati, come nella maggior parte dei casi accade, alla guerra o al bisogno di costruirsi un futuro altrove, i motivi che spinsero il poeta a lasciare l’Albania furono legati alla violenza e alla censura che venne mossa ai danni della sua persona e della sua opera. Di fatto ancora oggi i suoi scritti non vengono pubblicati in Albania. Ho conosciuto il poeta Hajdari ad una presentazione di un volume di poesie di un poeta italiano, a sua volta anch’egli immigrante in Francia, e il dibattito fu interessante proprio perché si parlava della dualità nel scrivere in lingua d’origine e quella acquisita nel paese altrove. La contaminazione, il bilinguismo come svolta e come liberazione definitiva in quanto ci si misura con il mondo esterno al proprio ma questo senza dimenticare come diceva Dante “il parlare materno”. In una intervista pubblicata su un mensile culturale del giornale “Bota Shqiptare” il poeta dichiarò che “Farsi chiamare poeta migrante è un onore, un privilegio, perché significa non metterti sullo stesso piano di Baricco, per esempio. Tutti i grandi poeti sono stati dei migranti… perché liberandosi della nazionalità raggiungevano altre dimensioni, valori universali, altrimenti sarebbero rimasti provinciali”. L’attività poetica di Hajdari cominciò in giovane età, quando ancora frequentava il liceo. Il suo primo libro fu una raccolta dal titolo “Antologia della pioggia” pubblicata prima della caduta del regime quando ancora i problemi politici erano molto forti e c’era una grandissima mancanza di libertà d’espressione. La raccolta che doveva essere pubblicata nel 1985 doveva cantare la gloria del partito, il suo ruolo fondamentale nella società, il socialismo, e invece la raccolta simboleggiava l’antologia delle lacrime che non aveva nulla a che fare con l’idea del partito comunista e del socialismo in Albania. Hajdari arrivò in Italia nel 1993 a causa delle minacce di morte esposte alla sua persone in quanto egli fu uno dei primi esponenti del partito repubblicano e candidato al Parlamento nel 1992. Il poeta non celava la sua opposizione ai fatti inaccettabili che accadevano nel fronte dell’opposizione e sul giornale “Republika” denunciò i crimini della politica e gli abusi del regime post-comunista albanese. Secondo Hajdari, l’Albania non è mai riuscita a cambiare radicalmente. Secondo il poeta tuttora il paese vive di una classe politica che fino a ieri ha condannato, impiccato e imprigionato gli oppositori politici per cui non si differenzia tanto rispetto a quella che c’era quando egli abbandonò il paese ed è per questo che egli sostiene che l’utopia del socialismo reale oggi porta il nome di “democrazia”. La delusione del poeta sta specialmente nel vedere una intera giovane generazione che non viene più fuori, che è stata contaminata nella sua accezione peggiore. Nella sua poesia, che non è italiana, ma un intreccio di culture egli cerca di portare alla luce quell’Albania che in pochissimi conoscono, un’Albania che egli vive nel corpo, nel suo intelletto, nella parola di Hajdari. Non si tratta di nazionalismo perché egli non si definisce tale in quanto sarebbe insensato visto il suo viaggio e le scelte che lo hanno condotto ad emigrare, Hajdari si colloca in coloro che compiendo il viaggio diventano inequivocabilmente portatori di una cultura che non è più solo albanese ma patrimonio del mondo. Il poeta migrante, che rispettando i confini e la patria, si è superato oltrepassando i limiti, i suoi, le famose colonne di Ercole, l’universo del mondo conosciuto, dove plasmare un’identità tollerante e pacifica è un bisogno primordiale per salvaguardare il rispetto di ogni essere umano. La cultura albanese offre al mondo una idea pseudo-mitica del realismo socialista in quanto simbolo della letteratura moderna. Al poeta Hajdari non va a genio che molti scrittori albanesi vengano definiti dal mondo occidentale come grandi difensori dei diritti umani poiché è alla luce dei fatti che “quei grandi” scrittori erano gente i quali composero i poemi più maestosi sulla lotta di classe. Gli artisti di Enver Hoxha che non hanno mosso un dito contro quei 146 intellettuali condannati dal regime. Questo è un fatto storicizzato e nel bene e nel male quegli artisti, dal valore non assoluto ma nello stesso tempo assoluti in quanto strumenti per la Storia stessa, sono i suoi antagonisti. Il rancore è del poeta migrante nei confronti di un’Albania che non presta attenzione ed è per questo incurante nei confronti della sua stessa cultura prodotta al di fuori dei confini. Dove sei finita Albania? Rimembri nei ricordi di coloro che non ti hanno mai vista partorire, sei morta quando vendendo la tua primogenitura ci hai portati ad emigrare come miserabili cercando la pietas nel mondo, seduti agli angoli di alti portoni di ferro, con la faccia che osservava la terra straniera e il numero della ricevuta di ritorno. I nostri permessi che ci sono stati consentiti da un determinato sistema che ci ha assunti perché li dove abbandonammo, la nostra terra, potevamo sognare soltanto quelle parole che il vate Leopardi scrisse “fantasmi di sembianze eccellentissime e sopraumane, ai quali, (Giove) permise in grandissima parte il governo e la potestà delle genti: e furono chiamati Giustizia, Virtù, Gloria, Amor patrio e con altri sì fatti nomi” e questo ci struggeva gli spiriti. Così il poeta migrante Gezim Hajdari conserva nel cuore quell’Albania, quella radice umana, che non lo abbandona mai, ma che si trasforma dentro egli in benzina capace di attirare e smuovere l’attenzione di giovani che, come me, cercano quella onestà intellettuale per cui vale la pena partire e vale la pena lottare. Il poeta migrante è colui il quale si muove, si trasforma, può essere l’albanese, l’italiano, il francese etc e il loro valore è insito nelle loro ossa, fondamento costituente per quel patrimonio che si vuole lasciare ai prossimi. Un patrimonio puro nonostante la sua contaminazione e che non può essere acquisito senza la necessità primordiale di creare valori. Un patrimonio che parla dei popoli differenti tra di loro ma che necessitano di essere uniti nel dialogo tra chi è già cives occidentale e l’altro che è lo straniero in quanto quest’ultimo ha scelto di migrare per la ragione più profonda; quella appunto di farsi capire. Gli altri siamo noi; noi giovani della prima e seconda generazione di quegli emigranti che erano i nostri genitori, noi che con sforzo sovrumano cerchiamo di garantirci una sopravvivenza materiale in questa realtà storica così precaria sotto ogni profilo, noi che cerchiamo di ricostituirci di una cultura e di una identità che sono fondamenti al nostro sistema spirituale il quale urla potentemente dentro le nostre viscere la necessità di raccontarsi. Noi che abbiamo oltrepassato la leggenda diventando noi stessi iper leggenda, e come fate invisibili e in perfetto silenzio stiamo seduti ad una tavola rotonda sull’orlo della via o in mezzo al sentiero. A te, poeta che mi riconosci in questo universo, ti accolgo abbracciandoti nella tua preghiera. – Baciami e abbi pietà di questo corpo martoriato che emana gioia e spavento […] baciami e prega per queste braccia superstiti nella dittatura e ferite nella libertà per queste mani cresciute sotto la nudità della pioggia, per queste labbra che tremano sotto il cielo oscuro dell’Occidente per questo Verbo diventato amore e sacrificio, […] benedici questo sguardo sepolto dal Tempo […] accarezza le mie pietre. Più degli dei, più dei miti, più dei tiranni, più del viaggio nel dolore noi soffriamo di una malattia che si chiama peccato, si chiama empietà, che si chiama mancanza nel raggiungere l’obiettivo, che si chiama tradimento. Il tradimento, il nemico più grande di ogni letteratura.