guerra civile

Alex Majoli © : Magnum Photos

Albania: i giorni dell’odio

Sono trascorsi più di venticinque anni da quando ci furono le prime e libere elezioni in Albania che videro la vittoria di Sali Berisha. Correva l’anno 1992, le città, i paesini e le campagne albanesi erano finalmente libere dal regime comunista di Enver Hoxha. “Siamo liberi” urlavano. “Evviva gli americani” aggiungeva qualcun altro. Le prime navi cominciavano ad abbandonare le coste del Paese in direzione dell’Italia. La mia famiglia era salpata sulla prima di esse, alla volta di Bari. Il mio villaggio si svuotò nel giro di pochi mesi. Nessuno ci riportava notizie, eravamo sconnessi completamente dal resto del mondo. Per fare una telefonata dovevamo camminare a piedi, o a galoppo di un mulo, e fare migliaia di chilometri per raggiungere Maminas, l’unica città che aveva un servizio telefonico pubblico. Le nostre giornate trascorrevano lente, inesorabili. C’era un gran silenzio per le strade. Se non fosse per il fatto che ogni famiglia aveva le armi, di fondo, si poteva dire che non era cambiato nulla rispetto ai giorni della dittatura rossa. Eppure qualcosa stava cambiando, noi che abitavamo nei villaggi eravamo completamente all’oscuro dei fatti che accadevano a Tirana. Trascorrevano settimane prima che una notizia ci raggiungesse. Nel frattempo le scuole riaprirono, io iniziavo la seconda elementare. Ricordo con lucidità il giorno in cui il Primo Ministro Sali Berisha venne a farci visita a Rrubjekë. Il suo arrivo aveva radunato tutti i paesani che lo ascoltavano con attenzione e interesse. Tutti, fummo colpiti dalle parole di Berisha perché non capivamo a quali terreni si riferisse, i contadini erano stati abbandonati a se stessi. Di colpo eravamo passati da un’economia di tipo pianificato alla privatizzazione dei terreni agricoli. Non c’era ordine, giorni, settimane, mesi e anni che trascorrevano nella frustrazione e incertezza, eravamo in balia degli eventi. Così, quando le piramidi finanziarie comparvero come la soluzione a tutti i nostri problemi ci abbandonammo con leggerezza, investendo tutti i risparmi, addirittura c’è chi vendette le proprie case e il proprio bestiame nella speranza di guadagnarci qualcosa. E quando la bolla delle piramidi scoppiò, il popolo era stato già denudato. Non avevamo più nulla. Eravamo soli. Eravamo arrabbiati. Eravamo abbandonati. I civili impugnarono i fucili e si versarono nelle piazze. Si sparava ovunque. Ricordo che la nostra vicina di casa venne colpita da un colpo, e morì tra le urla dei familiari. Per i vicoli vedevo adulti che insegnavano ai bambini a sparare. Quella guerra ci persegue tutti, come in un brutto incubo. Fece uscire il peggio di ognuno di noi. Eravamo piccoli, separati gli uni dagli altri. La dittatura che avevamo vissuto per mezzo secolo ci aveva resi deboli, ci aveva piegato e così rispondemmo con la debolezza, fu questo il nostro peccato.

Albania

Myrteza Minxhaj: prima che la Storia si dimentichi di noi

Succede che, sfogliando migliaia di mail e messaggi che mi arrivano ogni giorno, capita di leggere le parole di un uomo che ha una storia speciale. Myrteza Minxhaj è uno dei protagonisti di quello sbarco biblico che avvenne nel 1991 nel porto di Brindisi. Oggi racconto la sua storia. Myrteza, raccontaci chi sei. Sono nato il 22 maggio del lontano 1953, nel mese di Ramadan ed è per questo che mi hanno dato questo nome, affinché io, orfano, potessi ricordare. La mia città natale, Delvina, è posizionato a sud dell’Albania, nella Çameria. Com’è stata la sua infanzia lì? Non sono rimasto per molto nella mia città natale, dopo alcuni anni ci siamo spostati andando sempre di più verso ovest, come nel paese di Sasaj, dove sono cresciuto e formato. I dieci anni trascorsi in questa parte dell’Albania mi risultano oggi come ricordi lontani; ogni volta che ho la possibilità di fare ritorno incontro vecchi amici di scuola. Mi sembra di vedere un vecchio film. Quando vi siete allontanati dall’Albania. Quale il ricordo? C’è un motto albanese che recita “L’Albania si rivolta ogni cento anni”, così come accadde con il comando italiano a Valona un secolo fa. La stessa  incomprensione ci ha portati all’anarchia totale nel 1991, ma questa volta gli albanesi non avevano di fronte il corpo italiano ma il nostro governo in assoluto immobilismo, piegati dal regime dittatoriale che avevamo appena superato. Abbiamo provato e vissuto tutte le difficoltà del momento, abbiamo aspettato a lungo, fino al giorno in cui ci è apparso possibile accarezzare il sogno di ricominciare una possibile vita altrove. Per me, come credo per molti, non ci sarebbe stato nessuna guerra civile, neppure la morte mi avrebbe fermato. Nel 1991 facevo il meccanico sulla nave Kallmi, per cui ero favorito qualora avessi optato nella scelta di espatriare. Il 5 marzo ricordo che c’era grande clamore, ricordo tutte le urla delle persone che erano parcheggiati fuori dall’area portuale.  La mattina seguente, il 6 marzo 1991, rientrammo nel porto per il cambio del turno. Io, con altri colleghi, ci stavamo spostando nell’area trattamento minerali quando vidi alcuni ragazzi del mio palazzo che mi chiamavano per chiedermi se li potevo aiutare a farli passare per poi salire sulla nave. Assieme ai miei colleghi facemmo entrare il gruppo dentro la nave che a breve sarebbe partita. I ragazzi del mio condominio mi guardavano da lontano e uno di loro ricordo che mi chiese “Myrteza, perché non sali? Dai, parti con noi”. Appena udii le parole che mi dissero, il respiro mi si ruppe nel petto, l’angoscia mi avvinghiò lo stomaco. La testa mi poneva mille domande. Di mia moglie, mia figlia, che ne sarebbe stato? La decisione era una certezza in me. Non avrei mai scelto di  sacrificare mettendo a rischio le loro vite. Perché un maschio, in fondo, fa quel può. E con questi pochi pensieri in tasca salii su quella nave prendendo parte a quello sbarco di dimensioni bibliche per cui l’Albania come gli albanesi verranno ricordati, ancora per molto tempo. Cosa si ricorda di quelle ore in viaggio? Sono trascorsi 26 anni, eppure una scena mi sovviene spesso alla mente; ricordo una coppia di Scutari che si avvicinarono a me chiedendomi se li potevo far salire a bordo e che potevano pagarmi con 40.000 lek. Quei soldi erano arrotolati e legati da uno spago. Mi spiegarono che erano a Durazzo perché pensavano di acquistare in città un televisore perché nel loro paese non era possibile fare un acquisto del genere. Comunicai a loro che il viaggio era gratuito e che non mi dovevano nulla. Ma l’uomo insistette raggelandomi nelle sue parole: “Prendi questi  soldi fratello, goditeli come potrai. L’unica cosa che vogliamo è salire a bordo e partire. Sono 60 anni che viviamo in una prigione a cielo aperto: i miei nonni, i miei genitori e adesso la mia famiglia. Voglio partire per piangere anche quel poco che troverò.” A sentir le sue parole subito mi vennero in mente i versi del poeta Migjeni che alla domanda “Per il cadavere del bambino chi dobbiamo ringraziare?” egli rispondeva “Spedite il corpo morente dell’infante al deputato, al ministro o a qualcun altro”. E lo sbarco? Il 7 marzo 1991 raggiungemmo il porto di Brindisi nelle prime ore del mattino, erano le cinque. Il viaggio, ringraziando il buon Dio, fu buono. All’arrivo al porto di Brindisi ricordo il grande calore con il quale fummo ricevuti. Gli italiani si sono mostrati un popolo amico, un popolo meraviglioso, pieno di umanità. Per molti di noi, quel giorno segnava l’inizio di una nuova vita. Molti di noi erano coscienti che nella perdita c’era la possibilità di una vittoria: una vita possibile, dignitosa. Molti di noi, almeno oggi, non vogliono più ricordarsi, talvolta non vogliono accettare di essere parte di quel mosaico che nei peggiori incubi ancora urla per essere raccontato. Come ha vissuto i primi anni da immigrato? Cosa posso dirle, cara giovane ragazza, i primi anni sono stati difficili. Il pensiero costante era sempre quello di riuscire a inserirsi nel tessuto sociale italiano, un’impresa molto ardua. Come la lingua, il primo ostacolo da superare perché ci impediva ogni sorta di possibile di comunicazione con gli italiani. Lei è uno storico, è stato pubblicato in Albania, quali lavori ha dovuto svolgere nei primi anni in Italia? Come si manteneva? Ho sempre amato la storia, la letteratura, le arti in generale. In Albania, da giovane, mi sono specializzato in meccanica e in agraria. A Durazzo, ho lavorato nel reparto dell’area portuale ed è qui che ho sviluppato la mia passione per i testi storici e la letteratura. In Italia ho fatto qualsiasi genere di lavoro per mantenere me e la mia famiglia. Poi nel tempo ho avuto la possibilità di lavorare sui miei saggi che hanno trovato l’interesse di case editrici albanesi. Il mio primo saggio storico “Vitelia gadishulli ne perendim” è stato pubblicato e tradotto anche in italiano grazie al giornalista Hasan Alia.  Perché avete scelto l’Italia per vivere? La risposta è semplice: io vivevo in Albania di fronte al mare e sapevo che dall’altra parte dell’Adriatico c’era l’Italia, un Paese a cui l’Albania è legato per tanti motivi storici. Di conseguenza vivere in Italia è stata una scelta abbastanza naturale. È chiaro che l’Albania è al centro dei suoi studi. Assolutamente. L’Albania è il centro dei miei studi e delle mie ricerche storiche, archeologiche, geografiche e linguistiche. Ha mai pensato di far ritorno e vivere in Albania? Una cosa è certa: noi partimmo nella speranza di trovare quella famosa “busta d’oro” e ad oggi posso dirti che ognuno ha le sue ragioni per rimanere come per ritornare. Quali sono i lati positivi e negativi del Paese delle aquile? Prima di tutto l’Albania possiede è ricca nella flora e nella fauna. Clima mediterraneo, minerali di prima qualità da nord a sud, ricco di falde acquifere e infine di energie dal gas al petrolio. Come spiega la forte immigrazione che sta avvenendo nei Paesi europei, specialmente quelli del Sud come l’Albania piuttosto l’Italia? Penso che il problema coinvolge tutta la popolazione mondiale che sempre di più emigreranno verso i Paesi del nord Europa che si presentano più ospitali e favoriscono la possibilità di una vita dignitosa. Pensa che l’Albania è pronta ad entrare nell’Unione Europea? Il ritardo di questo processo non può mettere in dubbio l’ingresso dell’Albania nell’Unione Europea. I problemi causati dai conflitti nell’area balcanica a causa delle tensioni fra i vari Paesi non possono rappresentare un freno per le politiche interne in Albania. Bisogna continuare a migliorare i parametri al fine di raggiungere gli obiettivi necessari per entrare nell”UE, anche perché se dovessimo fermarci ai dissidi dovremmo mettere in discussione le quattro aree di cui l’Albania è stata espropriata e di cui non ha mai avuto risposte dalla comunità internazionale e che forse mai avrà. Insomma non possiamo fermarci a queste questioni, almeno non adesso. In che rapporti è con l’Albania e con gli albanesi? Ho vissuto per 37 anni in Albania, lì mi sono formato come individuo, mi sono sposato e ho messo su famiglia. Ho fratelli, sorelle, cugini e amici. Ho un rapporto speciale con i miei connazionali. Nonostante le difficoltà vissute durante il regime dittatoriale piuttosto gli anni dell’anarchia io non parlerò mai male del mio Paese e tanto meno degli albanesi che stanno cercando di mettersi alle spalle una storia difficile da digerire. Cosa la colpisce maggiormente quando rientra in Albania? Ciò che mi impressiona di più è la crescita esponenziale che vedo ogni volta che ritorno in Albania. La mia città, Durazzo, è in continua crescita sia verticalmente che orizzontalmente. C’è un grande progresso e questo lo trovo molto positivo. Di cosa vi state occupando attualmente? Da circa 15 anni mi occupo di ricerche sulla storia dell’Albania. I miei interessi vertono in quest’area così sensibile perché dell’Albania, a parte i barconi, si conosce poco. Io, nel mio piccolo, cerco di fare qualcosa, di lasciare un mio contributo per tracciare una linea del percorso che, noi come popolo, abbiamo attraversato: dagli Illiri, ai bizantini, ai veneziani, agli ottomani, all’Indipendenza del 1912, al regno con Zogu, all’era fascista, alla dittatura di Enver Hoxha fino al 1991, che mi ha visto tra i protagonisti dello sbarco biblico di cui il mondo è a conoscenza. Come dicevo qualche domanda fa, sono stato già pubblicato con il mio saggio storico “Vitelia gadishulli ne perendim”, adesso sta per essere pubblicato in Albania un saggio storico dell’autore italiano Giuseppe Catapano di cui ho curato la traduzione in lingua albanese assieme a mia figlia. Adesso sto lavorando al mio secondo libro “Lashtesia e gjuhes shqipe” ossia l’eredità della lingua albanese. Io ho un lavoro e una famiglia a cui devo pensare per cui mi è difficile conciliare la mia passione con tutto il resto, ma lo faccio con amore e con dignità nella convinzione di lasciare ai posteri che verranno qualcosa di prezioso, in fondo un libro è sempre uno specchio dove vedersi e chissà forse riconoscersi. Come vede il futuro dell’Albania? Mi viene in mente ciò che lessi tra le pagine del libro di Nostradamus, il quale diceva “Attenti agli albanesi, perché essi non hanno ancora detto l’ultima parola nella Storia”, piuttosto un altro testo che recitava “Gli albanesi hanno sofferto molto, e questo li ha resi lenti nel processo dello sviluppo, ma nella prima metà del 21 secolo apparterrà a loro, i quali conosceranno una crescita  e sviluppo senza precedenti”. Ecco, che uno ci creda o meno, piuttosto metta in discussione certi autori oppure parole, io voglio pensare ma soprattutto sperare che l’Albania e gli albanesi possano far parte di quell’Europa dei popoli che tutti un giorno sogniamo di diventare.

Digerire (parte II) Rinascere nel viaggio. Nel dolore

Parliamo delle donne. Voi li vedete questi migranti, questi esseri umani che il mondo arabo sta vomitando sulle coste italiane, al confine francese, la materia che sta generando un problema diplomatico tra Italia e Germania, tra Italia e Francia, tra Italia e Unione Europea. Dai luoghi delle rivolte, della guerra civile e delle dittature la maggior parte degli immigrati che partono sono uomini, anche se negli ultimi anni questo fattore è venuto sempre meno. Allora io mi chiedo e vi chiedo: dove sono le donne? Restano nelle zone di guerre, restano indietro per affrontare da sole quello che resta delle rivoluzioni, delle rivolte, a ricostruire dopo la morte, a rinascere, aspettando magari un giorno il ritorno dei loro uomini. Alle donne il compito di rifondare la società, di farla uscire dallo stato semi tribale o dittatoriale e agli uomini quello di cercare fortuna nei paesi cosiddetti avanzati. Nei cosiddetti paesi civili una ragazza come me non può prendere un autobus da sola, né alle quattro del mattino, né a mezzogiorno e men che meno alle nove di sera. Nei paesi cosiddetti civili una ragazza come me non può e non deve vivere una vita da single senza che questa diventi un vero e proprio inferno. Questi paesi sono civili come una guerra, civile. Questo perché ci si è dimenticati della donna. La donna è diventata ormai oggetto del pubblico piacere, la possibilità dell’essere forti in quanto esiste un sesso debole, l’attrazione degli occhi. La percezione della realtà oggigiorno è un grido d’allarme che riguarda l’incapacità atavica di affrancarsi da determinati preconcetti culturali. Ho sempre avuto la sensazione che una donna che viene da realtà di sofferenza, da un paese in smobilitazione, che ha subito atrocità di ogni tipo, è una donna che può essere facilmente succube, che si può addomesticare magari anche soltanto con la commiserazione. Se poi una donna, compiace il desiderio di certi uomini, può essere vista inconsapevolmente, in certi casi, come un trofeo di caccia in una società ancora a trazione “testosteronica”. In tutto questo c’è un “ma” dovuto all’intelligenza che una donna può avere e questo può spiazzare e rendere furioso il misericordioso ominide di turno. Le donne che partono devono affrontare nel viaggio una triplice lotta per affermarsi: come straniere, come donne e come persone lucide ed intelligenti. Molti paesi d’Europa cosiddetta “democratica” hanno grandi problemi ad accettare l’integrazione e l’emancipazione perché lo straniero fa paura, è destabilizzante; se poi ha anche idee proprie e autonome diventa una minaccia. Il vulnus umano sono gli occhi, una ferita aperta. Il dolore delle donne sta proprio in quel modo di non essere mai considerate in quanto esseri uguali con gli stessi diritti e doveri. Vivit sub pectore vulnus cioè la ferita sanguina nell’intimo del cuore, come diceva Virgilio nell’Eneide in riferimento a Didone, e per molte donne è proprio così. In molti paesi la donna viene rappresentata come essere immobile attaccata alla realtà delle cose, attaccata alla tradizione da preservare. Ci sono molti miti che potremmo citare a partire da Penelope che doveva restare nella zona della dimensione reale della vita, in attesa del ritorno del suo uomo. La donna immobile legittima la mobilità dell’uomo. La visione immobilista sulle donne trova le sue origini nel mito ma è anche un fatto storico poiché il viaggio viene associato soltanto alla virilità dell’uomo e questo genera un carattere antitetico alla femminilità. Le ragioni di questa discriminazione vanno ricercate anche nella letteratura ufficiale dei primi del Novecento quando le figure di riscatto della nazione non potevano essere femminili e tanto meno, qualora lo fossero state, le avrebbero elogiate. La mia personale storia è sicuramente collocabile in quella di figlia di una donna, quale mia madre, che ha compiuto la difficile scelta di espatriare in cerca di un futuro migliore, in cerca di possibilità ma soprattutto in cerca di una possibile realtà dove fondare le proprie radici e ricostituire la propria identità e riprendere in moto ciò che a certe donne come mia madre è stato negato o non è stato possibile. L’emigrazione femminile dovrebbe essere un argomento da riprendere, a prescindere dall’entità numerica di chi parte e di chi resta, e merita un approfondimento dal punto di vista storico proprio per la sua specificità e peculiarità. Il mio breve racconto non ha la presunzione di essere un articolo che tratta il viaggio delle donne come un trattato antropologico sulle donne ma una semplice riflessione che mi induce ad addentrarmi in quanto io stessa sono stata e sono tuttora soggetto di e nella storia. Il viaggio, sia quello delle donne che partono o di quelle che rimangono e sia quello degli uomini, rappresenta la possibilità che una forza generatrice capace di mutare, trasformare, raffinare e innalzare gli spiriti porta al cambiamento. Questo viaggio si compie attraverso la consapevolezza del dolore da superare. Il dolore in qualche maniera rappresenta già la fonte di emancipazione umana. Quell’antico obbligo al dolore, in quanto si compie una scelta attiva e talvolta o spesso passiva, è una viva ed essenziale componente psicologica e biologica e non è contaminato dall’illusione ottimistica dell’idealismo e del positivismo in modo deciso e radicale ma è capace di interpretare l’inquietudine profonda che la società occidentale vede come minaccia a causa del crollo dei valori tradizionali, messi in crisi dall’attivismo spregiudicato e dallo spirito di sopraffazione dei mercati e dunque del capitalismo. Il dolore è un atto di iniziazione, non è mai fine a se stesso. Nel dolore non vi sono casualità ma soltanto possibilità. Arrivare “attraverso” il dolore per ottenere la possibilità. Infine il dolore è cosa unicamente di Dio, appartiene soltanto a Lui in quanto Egli è la felicità infinita e soltanto nel Signore Gesù si trova la conclusione dell’angoscia misteriosa del dolore. É così che il viaggio si identifica profondamente nella vera e unica visione cristiana che nel dolore trova la sua fonte di liberazione, cioè un’azione libera. Il viaggio nel nostro tempo è di tutti noi, di piccola o grande distanza, per cui il dolore è tutt’uno con tutti noi, tutt’uno con Dio, anzi lì è Dio stesso. Il viaggio, in quanto non vive nell’accezione da protagonista o spettatore ma quello di strumento, ci porta a spogliarci delle nostre debolezze e dalle falsità e illusioni e in esso il nostro spirito si emancipa alla Verità. Il dolore e il viaggio sono essenza delle “uoma” cioè delle donne. Fa parte della loro rinascita, è capacità di discernimento, vive in coloro alle quali è toccato nuovamente riconoscersi e che sanno e sapranno sempre trascinarsi avanti. Più della consapevolezza del peccato, più del farsi “attraversare” dal viaggio e dal dolore più del “qui non finisce mai…” e più del silenzio dell’essere in orrore una donna che rinasce è un atto, un dono, della splendida creazione. di Anita Likmeta su The Huffington Post

Digerire

Mi chiamo Anita Likmeta, sono arrivata in Italia 16 anni fa. Sono l’esempio perfetto di quello che accade oggi nel mondo. Io sono una immigrata proprio come quegli egiziani, libici, somali, etiopi che stanno ammassati in centri che sembrano dei veri e propri campi di concentramento. Io sono una delle migliaia di persone, non rifugiati politici, non profughi di guerra, non immigrati clandestini, ma persone che anni fa hanno attraversato il mare su un barcone, sperando di trovare in Europa qualcosa di meglio rispetto allo scenario di morte che lasciavo. Io vengo dall’Albania. A casa mia c’era la guerra civile, e voi per fortuna non lo sapete, non lo sapete più cosa è una guerra civile. Non sapete più cosa vuol dire quando ci si ammazza tra fratelli, tra cugini, tra vicini di casa, tra un paese e l’altro. Si spara a vista, a qualunque cosa si muova, si entra nelle case, si fanno i rastrellamenti, si stuprano le donne. Così iniziava il mio breve racconto che parlava del mio viaggio pubblicato dal giornale “Il Fatto Quotidiano” il 13 ottobre 2013. Dal giorno in cui pubblicarono questo articolo sono accaduti molti avvenimenti, addirittura anche la televisione mi ha cercata, la mia storia ha fatto un giro incredibile e per me è stato del tutto inaspettato. Ricordo il giorno in cui negli studi di Sky Tg24 mi ospitarono, ricordo i volti dei ministri della Lega, ricordo i loro sguardi nella sala d’attesa. In quel momento alla mia mente sovvenne una frase che il ministro inglese Winston Churchill sosteneva: “I Balcani producono più storia rispetto a quanto ne riescono a digerire”. Ecco la parola digerire mi porta a riflettere molto. Io non ho mai digerito quel modo di guardarmi di talune persone. Non ho mai compreso il motivo per cui negli occhi di chi scrutavo si leggesse una certa predisposizione alla pena, cioè non parlo della ‘pietas umana’ in quanto solidarietà e commossa partecipazione che si può provare nei confronti del dolore degli altri, ma forse più pena come una sanzione giuridica comminata a conseguenza della violazione di un precetto di diritto. È importante per certe persone far comprendere la realtà delle cose. Emanciparsi dalla propria realtà culturale e sociale non è abbastanza, ma ancora di più non è abbastanza se si tratta di una donna. Talvolta mi chiedono “di dove sei?” e io “…vengo dall’Albania” e capisco subito da quel rigurgito l’impertinente pregiudizio. Potrei andare oltre e raccontarvi tanti piccoli episodi di svariata natura e della bassa moralità di talune persone influenti che mi hanno cercato o di chi con sfacciataggine si è proposto ma non ho voglia di fare la sbruffoncella da quattro soldi, non ne ho il tempo. L’oscurantismo, la misoginia nera della vecchia Europa cattolica, chiusa, medievale e assolutista talvolta non ha nulla da invidiare alla peggiore pratica del fondamentalismo islamico. di Anita Likmeta su The Huffington Post

La mia vita cambiò su quel barcone per Bari

Mi chiamo Anita Likmeta, sono arrivata in Italia 16 anni fa. Sono l’esempio perfetto di quello che accade oggi nel mondo. Io sono una immigrata proprio come quegli egiziani, libici, somali, etiopi che stanno ammassati in centri che sembrano dei veri e propri campi di concentramento. Io sono una delle migliaia di persone, non rifugiati politici, non profughi di guerra, non immigrati clandestini, ma persone che anni fa hanno attraversato il mare su un barcone, sperando di trovare in Europa qualcosa di meglio rispetto allo scenario di morte che lasciavo. Io vengo dall’Albania. A casa mia c’era la guerra civile, e voi per fortuna non lo sapete, non lo sapete più cosa è una guerra civile. Non sapete più cosa vuol dire quando ci si ammazza tra fratelli, tra cugini, tra vicini di casa, tra un paese e I’altro. Si spara a vista, a qualunque cosa si muova, si entra nelle case, si fanno i rastrellamenti, si stuprano le donne. Ricordo lucidamente il giorno che precedeva la partenza. Un pomeriggio pieno di nuvole di fine maggio. Non comprendevo la dimensione delle cose. L’idea di partire per I’Italia sembrava un sogno. Nessuno dalle mie parti amava I’Italia. L’Albania è stata invasa dai fascisti, i quali non avevano certo portato la civiltà, né il diritto, né I’arte. Guardavo le mani di mia nonna piene di crepe e ruvide e il suo odore che assomigliava ai legni bagnati dalla pioggia d’inverno. L’ANNUSAVO per fotografare nel mio cuore quell’istante, quel momento che non passava mai, fermo, indeciso, tiepido. Ci alzammo e rientrammo a casa. Udii la voce di mio nonno: “Dov è Nini?”; trattenevo le lacrime, volevo essere più forte delle mie emozioni. Respirai profondamente. Entrai nella stanza dove lui sedeva in un angolo a fumare le solite sigarette. In mezzo alla stanza c’era una stufa a legna e sui lati di essa dei barattoli di vetro con olio di ricino e un filo che si accendeva per illuminare l’ambiente. Un grido, il mio,“Nonnino io me ne vado, vado ora” e mi dipinsi il volto di una espressione felice che volevo gli rimanesse per sempre di me. Lui si alzò nonostante i suoi acciacchi, i suoi occhi erano tristi. Mi mise una mano sul volto e mi disse “E dove vai?”, e io “vado in Italia nonno” e lui “brava, diventa una brava bambina italiana”. La nonna mi prese per mano e mi portò fuori dalla stanza, ma i miei occhi rimasero fissi su di lui e mi ripetevo che sarei ritornata. Fuori ad aspettarmi c’era mio zio con la carrozza trainata dal cavallo che mi avrebbe portato fino alla prossima città e lì avremmo preso I’autobus per arrivare a Durazzo. Partimmo. Vedevo da lontano la casa dei nonni rimpicciolirsi a ogni metro che facevo. A un certo punto tutti i miei amici che si erano nascosti nella collinetta uscirono urlando il mio nome e inseguendo la carrozza tutti insieme. “Ciao Nini, ciao. Anche noi verremmo. Ci vediamo presto.” Urlavamo, piangevamo, ridevamo contemporaneamente. DURAZZO. Dinanzi a me c’erano molti piccoli imbarcaderi, appoggiati vicino al porto che non era più controllato dalle forze dell’ordine. Anarchia totale. Gente che tentava di salire e veniva buttata giù, gente in coda, gente che pagava, gente che tentava di mettere un bagaglio più voluminoso e gli veniva scaricato direttamente in mare, disperati vestiti nei modi più strani, soldi che passavano da una mano all’altra, spintoni, bambini attaccati alle madri che urlavano. Si parte e io rimango seduta a poppa per guardare il mio paese scomparire lentamente. Arrivammo a Bari. Io, mia madre, mio fratello e sorella abbracciati. Ci controllarono come se avessimo i pidocchi. Un amico di famiglia ci portò a Pescara. Sono passati degli anni e io sono cresciuta, ho studiato, ho frequentato I’Accademia d’Arte Drammatica “Corrado Pani”, ho successivamente conseguito la laurea nella facoltà di Lettere e Filosofia, ho lavorato con dignità. La libertà racchiude in sé la possibilità di essere felici. E la possibilità di essere felici non è altro che la possibilità di scegliere: un vestito, la fede, un partito politico e, attenzione, un luogo dove vivere serenamente, lavorare e mettere su famiglia. E’ il cardine del diritto dell’uomo, della convivenza con i suoi simili, il cardine della nostra vita per il quale molti prima di noi hanno lottato e perso la vita, per il quale oggi ancora si lotta e si muore. di Anita Likmeta su Il Fatto Quotidiano