nazionalismo

Lorenzo Marsili: Un’altra Storia è possibile. L’Utopia diventa realtà!

di Ivano Mugnaini Montalianamente, inizio dicendo ciò che questo libro non è e non vuole. Non è un libro ideologico, o meglio, non è un libro fazioso costruito su granitiche certezze che vengono fatte cadere una dopo l’altra sulla testa del lettore per spaventarlo e convincerlo a dire sì, è tutto vero. Non è una prosa poetica e non contiene favole ben scritte ma impalpabili, esteticamente impeccabili ma vuote come certe acconciature cotonate e laccate ad oltranza. Non è un libro che vuole farci ingurgitare pozioni magiche e panacee, non somiglia né ad una lunga predica né ad una di quelle televendite a metà strada tra l’Oroscopo del mago cialtronescamente improvvisato e l’elisir di lunga vita che fa campare fino a centoventisei anni e fa anche ricrescere i capelli. È un libro (e finalmente siamo al segno più, alla pars construens) che ci racconta una storia vera, documentata. Una storia di cui tutti noi siamo personaggi, siamo parte integrante della vicenda e dell’azione ed ogni gesto, ogni scelta, che lo vogliamo o meno, ha un peso sulla trama, la influenza, la orienta, la determina. Queste pagine ci dicono, anzi ci fanno vedere, tramite i racconti e i resoconti basati su fatti oggettivi, dati e statistiche, che mentre il presente si crogiola nella sabbia melmosa di minuscole beghe di potere per una sedia in più e mentre i politici si azzuffano, verbalmente e non solo, in misere sfide all’Ok Corral, il mondo, letteralmente, crolla. Fisicamente e metaforicamente. Si sfaldano i ghiacciai e franano i terreni, collassano i mercati e le finanze di intere nazioni, si dissolvono modi di vita, di convivenza, di solidarietà tra esseri umani. E loro litigano per un selfie o per un aggettivo scritto in un tweet.  Qualcuno potrebbe dire, lasciamoli nel loro brodo. Lasciamo che si azzannino tra di loro e sbraitino e sbavino, tanto alla fine escono di scena uno dopo l’altro. Atteggiamento psicologicamente comprensibile ma estremamente deleterio e con un micidiale effetto boomerang. È qui che entra in ballo il titolo del libro, La tua patria è il mondo intero. Ci è utile come punto di riferimento, è la nostra stella polare mentre scorriamo le pagine. Serve sia a ricordarci costantemente la nostra posizione sia a tracciare una rotta, la sola possibile. Se la nostra patria è il mondo intero, non possiamo lasciarli nel loro brodo. Non possiamo osservare il mondo come spettatori distratti o come turisti per caso. Perché non c’è un altro luogo dove andare, non c’è un continente diverso, ancora vergine, inesplorato. Siamo noi questo mondo, questo attimo che viviamo. E il nostro mondo e il nostro tempo sono il risultato di una lunga serie di azioni e reazioni che si sono susseguite nel corso dei secoli, sono ciò che è stato generato e plasmato dagli uomini che hanno osato dire e pensare che le cose non potevano restare come erano, e che loro, i potenti, non potevano essere lasciati a divorare e ad avvelenare un brodo che in realtà non è il loro. Non è facile estrapolare brani da questo libro. Non perché non ve ne siano di rilevanti, ma, piuttosto, per il problema contrario: ogni pagina ha un peso, una rilevanza su un discorso che si estende gradualmente, partendo da apparenti dettagli che in realtà assumono una funzione esplicativa (e anche una forza emozionale) che li colloca in primo piano e così via, in un alternarsi costante di riferimenti e notizie che arricchiscono il discorso senza mai appesantirlo, senza diventare orpelli o ornamenti. Dopo il titolo del libro, non ci troviamo di fronte ad un paragrafo bensì ad un’immagine: la foto del Giardino Zoologico di Berlino. Veniamo informati immediatamente dopo che il Giardino è stato “aperto al pubblico nel 1906. Il cancello d’ingresso unisce colonne ioniche e inferriate belle époque a motivi tradizionali e a una pianificazione cinese dei giardini. Cinque anni più tardi, nel 1911, la dinastia dei Qing viene deposta da una rivoluzione popolare. La nuova Repubblica cinese sancisce il tramonto di tremila anni di storia imperiale”. I due elementi che emergono da questo primo impatto con il libro sono essenzialmente due: l’apparato iconografico, espressione visiva della volontà di documentarsi e di documentare, e, sul piano del contenuto, la descrizione immediata, tramite un esempio concreto, del tema, del focus del volume: il cambiamento, la trasformazione, costante, universale, nel tempo e nello spazio. “Ci troviamo, tutti quanti – sostiene Marsili – nel Giardino Zoologico di Pechino. Chi in una gabbia più grande, chi in una più piccola, chi in una gabbia più comoda, chi in una più sfortunata. Ma tutti quanti alla mercé di una straordinaria trasformazione storica, economica, morale e culturale che non siamo più noi, nessuno di noi, a guidare e governare. È un mondo divenuto colonia di se stesso, incapace di scegliere in autonomia e costretto ad inseguire eventi che paiono emanare da un oramai inesistente centro imperiale”. Il libro è diviso in capitoli, ciascuno a sua volta suddiviso in paragrafi o sottosezioni, contraddistinte da un titolo, quasi sempre sintetico, essenziale, sia nella forma che nella sostanza. C’è la determinazione, il desiderio sincero, di rendere la comunicazione schietta, sincera. Se ogni interazione dialogica è una partita a scacchi, o un incontro di scherma o di lotta libera, tra un’opinione e un’idea contrapposta, tra una visione del mondo e quella contraria, orientata da e verso prospettive altre, qui si tende a rendere il gioco più leale possibile, vige la regola aurea del fair play.  Non è un thriller, questo libro. O meglio non ci vuole spaventare per il gusto di farlo, così, per mero divertimento e gusto dello spettacolo. Assomiglia, piuttosto, ad una docufiction, i cui personaggi sono gli eventi e in cui gli eventi sono le decisioni, spesso tragiche, prese da personaggi messi al potere da un regista incapace o in malafede, o da milioni di registi ignari, tragicamente disinformati: “Oramai sappiamo non solamente che i cambiamenti climatici sono reali – prosegue Marsili – ma che da questi dipendono l’organizzazione e la sopravvivenza stessa della comunità umana. È evidente come nessuno Stato nazionale sia in grado di affrontare e governare tale sfida. Ma c’è di più. È lo stesso sistema internazionale ad accelerare il cammino verso il disastro. Non solamente, come è ovvio, perché le strutture di governo basate su accordi fra Stati sovrani, ciascuno con i propri interessi di breve periodo e le proprie gelosie, appaiono sempre più incapaci di affrontare comunemente una sfida planetaria di questa portata. Ma perché proprio il sistema degli Stati nazionali produce una folle rincorsa alla ricchezza e al potere che rende le nostre società e il nostro concetto di sviluppo tragicamente dipendenti dalla distruzione del mondo”. La distruzione del mondo. È giusto riflettere con adeguata cura e lentezza su queste parole. Non possiamo e non dobbiamo lasciarle scivolare via frettolosamente come i troppi slogan da cui siamo bombardati quotidianamente. Il punto è questo: fermarsi a riflettere e combattere prima di ogni altra cosa contro la tendenza alla disinformazione. Comoda per chi la impone e la nutre, perché gli consente di lasciare le cose come stanno, conservando poltrone comode e lussuose, e comoda anche per chi la subisce, per chi la ingurgita come un pastone insapore che però riempie lo stomaco e consente di dedicarsi a cose più lievi, più effimere, pensieri usa e getta. La posizione di Marsili è chiara, ben definita, appassionatamente esposta e sentita dal profondo delle sue convinzioni. Ma, è giusto ripeterlo, non si ha mai l’impressione di addentrarsi in discorsi deliberatamente avvolti da una di quelle foschie artificiali e artificiose tipo set cinematografico anni Cinquanta. Marsili (ed è questo uno degli aspetti di maggior rilievo del libro), le nebbie, semmai, tende a diradarle, a dissolverle. Espone parole che spesso sono cose, dati di fatto, anche nel senso letterale del termine. Attinge a piene mani alla Storia, ai discorsi registrati e trascritti degli uomini di stato, dei leader, dei ministri, di chiunque si sia trovato, in vari secoli, ad avere in mano le leve del potere, della programmazione economica e sociale, delle scelte fondamentali per le nazioni, i popoli, e il pianeta. Quel “mondo intero” che torna, ineluttabile, davanti ai nostri occhi e sulle nostre spalle di emuli involontari di Atlante. Alcuni libri, saggi e romanzi ma non solo, descrivono il cataclisma, in atto o in potenza, ma lasciano che sia il lettore a identificare la causa o un possibile sbocco, una qualche soluzione. A seconda di chi legge verrà chiamato in causa il Fato (che gli antichi germanici consideravano non meno forte degli dei) oppure qualche forma di Provvidenza. Non è questo, per fortuna, che fa questo libro. L’autore si espone in prima persona, ci mette la faccia ed ha il coraggio non solo di evocare la parola Utopia ma di dichiarare che tale Utopia a ben vedere è una realtà ed è la sola strada praticabile, rebus sic stantibus. La grande scommessa che abbiamo di fronte non è, solamente, quella di modificare un sistema economico e politico ingiusto, produttore seriale di miseria e ineguaglianza. Non è, semplicemente, quella di cambiare alla radice un modello di sviluppo che espelle sempre più persone dal diritto ad una vita degna e che sta portando il nostro pianeta al collasso. Ma è tornare a correre alla velocità della luce. È riuscire a inserire la politica, e la democrazia, dietro il dispiegamento delle ali del futuro. Dove si trova la radice di questo drammatico scarto di velocità? Si trova nella contraddizione fra una storia oramai mondiale e una politica rimasta ancorata alla dimensione nazionale. Ricucire lo scarto significa superare idee, pratiche e abitudini che ci trasciniamo dietro da centinaia di anni. È questo il punto, il nocciolo del libro. Passare da una dimensione nazionale della politica e del pensiero ad una dimensione che vada oltre, che superi tali ristretti e ormai antistorici confini. A sostegno della sua tesi, nel punto culminante della sua esposizione, Marsili cita Ernest Bloch il quale in The Utopian Function of Art and Literature afferma che: “Ciò che si è perso […] è molto semplicemente la capacità di immaginare la totalità come qualcosa che potrebbe essere completamente differente […]. La mia tesi a riguardo è che ogni persona, nel suo profondo, che lo ammetta o meno, è cosciente che ciò potrebbe essere possibile o potrebbe essere differente. Non solamente che potrebbero vivere senza penuria e probabilmente senza ansia, ma che potrebbero anche vivere come uomini liberi. Ma al tempo stesso, l’apparato sociale si è indurito e ritorto contro le persone, e così, tutto ciò che appare ai loro occhi come una possibilità raggiungibile, come la possibilità evidente di una soddisfazione, si presenta a loro come radicalmente impossibile”.  Si inizia da questo assunto, da ciò che sembra, o che qualcuno vuole fare apparire, impossibile, per poi arrivare al coraggio del salto, dello scarto, della trasformazione. Nel contesto specifico, così come nel libro nella sua totalità, Marsili parte dal nodo fondamentale dell’ecologia per poi arrivare a considerazioni di respiro più ampio: “Superare gli ovvi limiti di un’azione esclusivamente nazionale a favore del clima significa in prima battuta costruire un movimento globale capace di cambiare il senso comune sulla crisi climatica. Per quanto importanti saranno le azioni che alcuni Paesi o l’Unione Europea nel suo complesso potranno prendere, sappiamo bene che i cambiamenti climatici non verranno risolti in un Paese, neppure nel più importante”. Da qui, questo libro costruito tessera per tessera come un mosaico, o come un libro giallo di Simenon, giunge non solo a darci la visione d’insieme, svelando o ribadendo il movente, il delitto e i colpevoli, ma anche a suggerire uno scenario diverso possibile, ed è questo l’elemento di novità, il valore aggiunto.  Viviamo un momento storico particolare, in cui le categorie della modernità, prima fra tutte quella dello Stato nazionale, si squagliano dinnanzi ai nostri occhi. È un momento di incertezza, di insicurezza e di rabbia, come lo è ogni momento in cui sembrano mancare una direzione, un appiglio e un punto fermo. Ma è anche un momento di straordinaria opportunità. Il momento in cui …

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Tirana, Albania.

Il patriottismo è l’ultimo rifugio di un farabutto

di Irisa Bezhani Samuel Johnson aveva ragione nel pensare che il patriottismo fosse l’ultimo rifugio di un farabutto. Dire di essere patriottici in questo momento storico, equivale a dire di essere nazionalisti. Prova a dire a qualcuno che sei patriottico, e quello subito ti guarderà con occhio diverso, cercherà di cogliere tutti quei dettagli, che prima della tua affermazione aveva ignorato, che dimostrano quale spregevole persona tu sia e poi deciderà se classificarvi come un nemico populista. In realtà la mia è un’innocua esternazione. Patriottico per me significa ben altro da quanto uno possa pensare; in un mondo dove il famigerato populismo prende sempre più piede, dove le tendenze sovraniste e isolazioniste si fanno sempre più forti a discapito delle inclinazioni più favorevoli alla globalizzazione e al multiculturalismo, dire di essere patriottici automaticamente ti inquadra nella prima categoria, e di conseguenza in quella dei “cattivi”. Allora forse bisognerebbe chiarire meglio cosa uno intende per patriottismo, o cosa io intendo per patriottismo. In un Paese come l’Albania, dove la dittatura comunista per quasi mezzo secolo ha creato una società totalmente asservita, piegata dal peso dell’ideologia e della propaganda, il sentimento patriottico ha chiaramente un legame col passato, nel quale lo Stato era Dio. Ma questo sentimento di appartenenza, inteso comunemente con la parola patriottismo, non è, per quello che intendo io, quello malato del regime di Enver Hoxha, ma uno più romantico; una visione della propria patria slegata da complessi di superiorità o da sentimenti negativi verso chi non è uguale a te, anche perché alla fine siamo tutti stranieri per qualcuno; anzi, io trovo che sentirsi sia patriottici che sostenere il multiculturalismo non sia qualcosa di ossimorico. Ovviamente uno può chiaramente obiettare dicendo che non si sceglie il posto dove si nasce, così come non si sceglie in quale famiglia venire al mondo. Sono d’accordo. Nascere in questo mondo è un caso, ti becchi quello che ti capita. Ma allo stesso tempo c’è quel sentimento di appartenenza, di familiarità che ti lega al luogo in cui cresci. Puoi amarlo, o puoi cercare di distanziartene il più possibile, sono scelte entrambe comprensibili. Come infatti scriveva Fosco Maraini nel suo “Segreto Tibet”, citando un vecchio canto himalayano “La patria è soltanto un campo di tende in un deserto di sassi.” I confini sono soltanto linee convenzionali tracciate per separare la terra che in fondo è una. Io sono patriottica, io amo il mio Paese, l’Albania, e poiché lo amo voglio che stia bene, che sia un posto bello in cui vivere. La mia relazione d’amore con l’Albania ha subìto diverse fasi. Quando da bambina sono venuta in Italia, la terra delle aquile mi sembrava come un pagina del passato di cui dimenticarsi. Ero proiettata sul presente e sulla mia vita da italiana cresciuta da genitori albanesi. Ma più avanti ho iniziato ad avere quel senso di nostalgia per l’infanzia, per le estati passate al mare, per l’odore delle strade, ed anche quello più sgradevole della spazzatura. Quando si dice che amare significa anche accettare i difetti dell’altro, allora il mio rapporto con l’Albania è un rapporto d’amore anche per questo. In Albania quasi tutti sono patriottici. Potrai vedere mille bandiere svolazzare tra le grate dei balconi, sentire canzoni che esaltano la nostra terra e le nostre usanze. Bisogna però anche dire che la cultura albanese è, soprattutto in alcune zone del paese, molto arretrata e poco aperta. Siamo un popolo che è fortemente legato all’onore, alla famiglia, un popolo che ancora deve fare i conti con una società patriarcale, che vede la donna utile solo al matrimonio. Ci sono mille difficoltà in Albania, ma proprio per questo mi sento in dovere di fare qualcosa. Sono molti gli albanesi della diaspora che dopo un periodo di tempo passato all’estero tornano in patria e mettono così a disposizione le loro competenze che hanno imparato altrove. Anche per questo ammiro l’Albania, siamo un popolo migrante, un popolo che vive ai quattro angoli del globo nonostante il nostro sia un piccolo Paese di appena tre milioni di abitanti. Non dobbiamo però farci soffocare da un orgoglio malsano, un orgoglio che rende ciechi alle nostre zone d’ombra. Il senso critico è fondamentale se davvero amiamo il nostro Paese. Io sono orgogliosa di essere albanese, perché il profumo di quella terra piena di contraddizioni mi affascina e mi fa sentire a casa. Sono legata al Paese, nonostante ci sia l’Adriatico a separarci, ed è proprio per questo che ho voglia di cambiarlo, e di migliorarlo. La mia generazione di albanesi, nella quale ripongo molta fiducia, sarà il futuro del dell’Albania. Siamo la generazione che non ha vissuto la dittatura, e per questo è meno schiacciata dal passato opprimente, siamo la generazione figlia di immigrati, la generazione dei sognatori che ha l’urgenza di creare un’Albania diversa, per tutti.

PIL Paura dell’Integrazione Liberista

Ecco ci risiamo. Io non sono la persona più adatta per parlare di politiche d’integrazione monetaria ma cercherò di andare per ordine per comprendere questa nebulosa situazione che ci avvolge. Mi chiedo quanto di credibile c’è in quello che il M5S sostiene caldamente riguardo il “Decreto Banca d’Italia“. Nel gran caos organizzato del Movimento sull’affare Imu – Bankitalia – Boldrini – Di Battista – Bignardi – Sofri – Augias – Fazio, nell’horror vacui della civiltà telematica si è persa ancora una volta di vista la vera questione: cosa rappresenta davvero il decreto IMU – Bankitalia? Cosa dice? Partiamo dalle questioni tecniche e di regolamento: potremo pensare che è una pessima scelta, in perfetta linea con i governi precedenti, quella di unificare due o più questioni in un decreto unico. La scelta di arrivare all’ultimo giorno e usare meccanismi quantomeno irrituali per arrivare a votazione non è di certo una scelta di qualità ma così è andata. Ma cosa dice il decreto Bankitalia in soldoni? Il decreto ricapitalizza il capitale sociale della Banca D’Italia portandolo da 156 mila euro a 7.5 miliardi. Perché? Il primo motivo è abbastanza semplice: dopo la crisi, gli istituti di credito italiani si sono trovati sull’orlo del fallimento. Quando è accaduto negli Stati Uniti e altrove, i governi centrali hanno evitato il disastro rifinanziando le banche, anche perché queste detenevano e detengono grossi capitali di titoli pubblici. Con la Banca d’Italia si è fatta la stessa cosa. Per certezza dell’informazione leggiamo l’articolo 39 dello statuto della Banca d’Italia: “Gli Utili netti vengono per il resto distribuiti come segue. Il 20% degli utili netti conseguiti deve essere accantonato al fondo di riserva ordinaria. Col residuo, su proposta del Consiglio superiore, possono essere costituiti eventuali fondi speciali e riserve straordinarie mediante utilizzo di un importo non superiore al 20% degli utili netti complessivi. La restante somma è devoluta allo Stato”. Com’era composta la compagine azionaria dell’istituto fino a oggi? Intesa Sanpaolo ne possedeva il 27,3%, Unicredit il 19,1%, Generali il 3,3% e così via. Il decreto mira a ridurre le quote massime di partecipazione al 3%. Perciò tutti quelli che ne possiedono in eccedenza dovranno vendere le quote. La preoccupazione sta nel fatto che la stessa Bankitalia debba acquistare in un secondo momento queste quote in eccedenza utilizzando i soldi dei contribuenti, trasferendo così denaro verso gli istituti più importanti, ovvero Intesa Sanpaolo e Unicredit. Il problema è che il decreto intanto riequilibra posizioni che erano al limite dell’incostituzionalità: quando hai il trenta percento di una banca sei vicino alla posizione di controllo: che mostro giuridico è quella banca che controlla economicamente la banca di controllo per antonomasia: Bankitalia? Il capitale di Bankitalia era intatto dagli anni trenta, non è mai stata ricapitalizzata, e questo l’ha messa in posizione di netta difficoltà nei confronti delle sue consorelle comunitarie. Si tratta in sostanza di riallineare le quote con gli altri partner europei, così come si tratterà in futuro di allineare parecchie altre politiche, sulla fiscalità, sul costo del lavoro, su altri grandi, grandissimi temi. Un altro nodo da sciogliere, che secondo Grillo costituisce una questione fondamentale, è che con la conversione in legge di questo decreto “regalerebbe” la Banca d’Italia alla grande finanza internazionale, impedendo al popolo italiano di conquistare la sovranità monetaria, e che in vista di un ipotetico tracollo dell’eurozona potrebbe essere un disastro. Ma ora cerchiamo di comprendere meglio e di stanare le ragioni che sono dietro questa forte polemica. Ci sono forse dietro eminenze grige che manovrano il Movimento? La manovalanza al lavoro sulla Boldrini l’abbiamo vista: adesso vorreste per favore spiegarci qual è la politica monetaria e comunitaria del Movimento 5 Stelle? Siete favorevoli o contrari all’integrazione europea? State pensando di risolvere i problemi italiani (come droga, immigrazione e criminalità) come nazione o come federazione di nazioni? Pensate che il criterio della svalutazione sia ancora un meccanismo valido nel villaggio globale in cui ci troviamo e non piuttosto (come l’Argentina) una spirale esiziale che porta dritti al fallimento? Siete in grado, in una parola, di indicare la strada verso una integrazione europea meno liberista? O sapete solo cedere a spinte nazionaliste e vagamente destrorse di immaginaria “sovranità monetaria”? Vorremmo avere una risposta limpida in merito alla questione. Vi aspetto in macchina. di Anita Likmeta su The Huffington Post