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“Mario, come here!”. Vieni fra noi, prima che sia troppo tardi

Il G20 è stato un successo insomma, tutti per uno e Draghi per tutti. Ma sì, siamo stanchi. Rilassiamoci un po’, mentre le signore fanno shopping in Via Condotti. La dolce vita, la grande bellezza! Tanto pericoli non ce ne sono: abbiamo ottomila macchine di scorta, servizi segreti, legioni di poliziotti e tiratori scelti. E voi siete tutti lì a chiedervi cosa ne è stato di questo G20. A saperlo… È una di quelle domande inutili che ormai si ostina a fare solo il Vaticano, con la solita incomprensibile preoccupazione per gli ultimi della terra. Noi di fatto abbiamo lavorato, ci siamo impegnati a salvare questo mondo ripiegato su se stesso. Sono la Cina e la Russia che non ci hanno messo la faccia. Noi invece abbiamo recitato la nostra parte, ciascuno con la sua maschera: chi per il clima, chi per la pesca, chi per i dazi. E poi lo abbiamo chiamato “bene comune”. È stato un successo insomma, tutti per uno e Mario per tutti. Che aria tirerà sui nostri continenti nei prossimi mesi? Certamente non spariranno le guerre, i femminicidi, la fame, la pandemia, le deforestazioni, le inondazioni, le mancanze dei diritti civili e di lavoro. E non basteranno la monetine gettate nella fontana a rimettere in sesto il debito degli ultimi. Ma è stato proprio mentre la limo si allontanava, che abbiamo sentito una voce levarsi dalla folla che seguiva il corteo: “Mario, come here!” Perché lo sapete: amiamo l’Italia, la sua strepitosa cucina. Amiamo Roma, il cinema italiano dell’età d’oro. Anita nella fontana, Mastroianni, il grande Fellini. “Mario, come here!”. Sì, vieni qui Mario, scendi fra noi, prima che sia davvero troppo tardi.

Ex Jugoslavia, 1989. Ph. Steve McCurry.

I Balcani negli interessi delle vacche grasse

di Gëzim Qadraku Sono trascorsi ormai più di venti anni da quando la Jugoslavia iniziò a sbriciolarsi a causa di una delle più brutali guerre dell’ultimo secolo, tutte le realtà che la componevano avevano intrapreso la strada verso l’indipendenza. Nonostante la suddivisione della ex-Jugo in sette Stati, quando si parla di Balcani, si fa ancora riferimento – soprattutto – a quel blocco che costituiva la Repubblica Federale Socialista di Jugoslavia. Quel blocco era governato da Josip Broz Tito, l’uomo capace nel miracolo interno di mantenere insieme popoli di lingue, etnie e religioni diverse, ma anche in ambito internazionale, mantenendo una posizione “neutrale” tra quelle che erano le due superpotenze mondiali dell’epoca: Stati Uniti d’America e Unione Sovietica. Fu Tito infatti, insieme a  Nehru, Sukarno, e el-Nasser a prendere l’iniziativa per formare il movimento dei Paesi non allineati. Un impegno il loro, che aveva come scopo la protezione degli Stati che non volevano schierarsi o essere influenzati dai due giganti mondiali. Nonostante le condizioni della regione balcanica siano completamente cambiate in questi anni, i Paesi che la compongono sembrano poter ambire a giocare un ruolo importante in termini di politica internazionale. Nell’ultimo periodo infatti, parlando di Balcani, l’argomento principale al quale si fa riferimento è l’entrata nell’Unione Europea di tutti gli stati della penisola. Eppure all’inizio del suo mandato, Jean Claude Juncker, Presidente della Commissione europea, la pensava in maniera molto diversa rispetto agli ultimi tempi, nei quali ha addirittura previsto una possibile data, quella del 2025, come anno nel quale l’UE potrebbe allargarsi a 33 membri. Ad avere inciso sul cambiamento di veduta della situazione sono stati fattori esterni che non erano stati previsti da Bruxelles. Mentre l’Unione Europea non prendeva in considerazione i Balcani, questi diventavano il principale corridoio di entrata per l’immenso flusso di migranti provenienti dal Medio Oriente, dando così vita alla crisi migratoria che ha messo in difficoltà le istituzioni europee, a cavallo di un altro episodio piuttosto scomodo: la Brexit. Infine, come pericolo maggiore per gli obiettivi di Bruxelles nella regione, sono arrivati gli investimenti e l’interesse di tre attori internazionali non indifferenti: Russia, Turchia e Cina. Ognuno dei tre ha nella zona un proprio modo di agire e specifici progetti. È utile quindi analizzare singolarmente ogni Paese. Partendo dalla Russia, che nell’area balcanica ha sin dai tempi della guerra giocato un ruolo cruciale, per poi proseguire nel post-conflitto come supporto principale della Serbia, soprattutto nella delicata questione Kosovo, essendo insieme alla Cina, uno dei due Paesi del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite a non aver ancora riconosciuto il Kosovo come Stato indipendente. Mosca inoltre gioca un ruolo cruciale nei Balcani dal punto di vista dei rifornimenti, per il grande flusso energetico che mette a disposizione. Vi è inoltre un legame di tipo identitario con alcuni popoli della penisola, i quali si sentono molto vicini alla Russia, come serbi, macedoni e bulgari, che ne condividono la religione. Restando sul tema del legame identitario, a beneficiare di questa comunanza è la Turchia, la quale porta avanti la dottrina del “neo-ottomanesimo”, cercando di espandere la propria influenza soprattutto nei Paesi come Bosnia e Kosovo, grazie proprio alla condivisione della religione islamica. Due Paesi nei quali l’intenzione di Ankara è quella di investire in maniera massiccia. Inoltre, negli ultimi tempi, il governo turco ha intensificato i contatti e i rapporti commerciali con Belgrado, la capitale serba che dovrebbe essere collegata a Sarajevo, grazie ad un’autostrada o una superstrada. Ad occuparsene sarà proprio la Turchia, che potrebbe in questo modo giocare un ruolo decisivo da intermediario nel miglioramento e nel riavvicinamento dei rapporti tra serbi e bosniaci musulmani. Ma se questo della strada è ancora un progetto teorico, tra Belgrado e Ankara gli accordi commerciali vanno a gonfie vele, con un volume che avrebbe sfiorato il miliardo di dollari nel 2016, secondo i dati OEC. I maggiori settori che legano i due Paesi al momento sono quello metallurgico, tessile e alimentare. Per quanto riguarda il Kosovo invece, la Turchia è, insieme alla Svizzera, il Paese straniero che più ha investito nel giovane Paese balcanico. È di opera turca l’autostrada che collega Prishtina all’Albania. Ma Ankara non si limita ad investire nello sviluppo infrastrutturale, bensì anche nel campo culturale, nel quale si è impegnata a ristrutturare diverse opere ottomane presenti sul territorio kosovaro, chiedendo inoltre di rivedere nei testi scolastici la descrizione dell’impero ottomano. Parallelamente alla politica voluta da Erdogan a Prishtina, c’è stata negli ultimi anni l’apertura di diversi istituti scolastici privati sul territorio, ad opera delle fondazioni vicine a Gülen, nemico numero uno di Erdogan, il quale continua a chiedere la chiusura di queste scuole, le quali sono state nel frattempo fatte costruire anche in Albania, Bosnia e Macedonia. Istituti che nel tempo sono diventati sempre più aperti al mondo internazionale, dove le èlite decidono di mandare i propri figli, come per esempio il presidente del Kosovo Thaçi. L’ultimo dei tre protagonisti è la Cina, l’unico Paese a non avere alcun legame identitario con la zona. Particolare di poco conto, in quanto i cinesi sembrano interessati esclusivamente a fare business. La destinazione principale delle loro attenzioni fino a questo  momento è stata la Serbia, dove il denaro di Pechino non è arrivato in forma di investimenti, ma di prestiti. La presenza degli asiatici viene vista come un fatto positivo sia per lo sviluppo, sia per avere un maggiore consenso sulla causa Kosovo. A giocare un ruolo determinante è la posizione geografica della penisola, che permette di fare da collegamento a quella che sarà la nuova via della seta. I cinesi sono interessati ad esportare il più possibile in Europa e per farlo, hanno bisogno dei migliori collegamenti. Ma le volontà della Cina non si fermano qui, in quanto sempre in Serbia, hanno già acquistato diverse aziende e programmano l’apertura di centri di produzione di beni cinesi. Politica questa, che potrebbe portare diversi vantaggi per Belgrado. C’è da considerare anche il rovescio della medaglia, perché se questo interesse ad investire nel territorio è una buona notizia, d’altra parte, le azioni cinesi sono caratterizzate da poca trasparenza, dall’assenza di appalti pubblici e del mancato rispetto degli standard richiesti dall’UE. Terreno fertile che permette al problema principale che affligge i Balcani di ampliarsi, ovvero la corruzione. Concentrandosi ora invece su quella data, il 2025, evidenziato da Juncker come possibile anno della svolta, viene da chiedersi quanto possa essere fattibile e plausibile un’entrata di tutti e sette gli Stati balcanici nell’UE. I problemi sono diversi e non di poco conto, per citarne alcuni, in Paesi come Albania, Bosnia e Kosovo, la popolazione pensa ancora a come lasciare la propria terra per cercare un futuro migliore in Europa. Il numero di richiedenti asilo albanesi nell’ultimo anno è diminuito, ma 22mila richieste sono ancora una cifra importante. In Bosnia invece, pare che nessuno voglia vedere il problema dello svuotamento del Paese, nell’ultimo anno sarebbero state 150mila le persone ad essersene andate. D’altro canto c’è invece la corruzione, immenso grattacapo per tutti i paesi. Poi vi sono le questioni politiche, come per esempio il miglioramento dei rapporti tra Prishtina e Belgrado, punto fermo richiesto da Bruxelles. Mentre l’Albania deve assolutamente trasformare in realtà la tanto attesa riforma della giustizia. Infine la Macedonia deve risolvere la questione che riguarda il suo nome, con la vicina Grecia. Da questa situazione di forte interesse per la zona balcanica potrebbero trarne beneficio gli investimenti che i tre attori esterni sarebbero pronti ad emettere, cifre importanti che l’Unione Europea al momento non è in grado di permettersi. Questa intrusione esterna sta allo stesso tempo allarmando Bruxelles, che vuole subito ricorre ai ripari per ritornare ad essere il protagonista principale nella penisola balcanica. I governi, dalla loro parte, dovrebbero impegnarsi nel risolvere i problemi interni e permettere alla popolazione di poter vivere stabilmente nella loro terra madre. Successivamente, con quella che potrebbe essere l’integrazione europea e gli investimenti turchi, cinesi e russi, i Balcani potrebbero seriamente rifiorire e diventare importanti in tutti i campi.

La fuga dal Kashmir di Adnan per salvarsi la vita

Per salvarsi, ha attraversato la Libia, la Siria, la Turchia approdando in Italia dopo aver pagato 20 mila dollari ai mercanti di esseri umani. Ora – cameriere in un ristorante cinese del Milanese – è un uomo felice anche se una laurea in Fisica e Matematica autorizzavano ambizioni diverse. Adnan d’altra parte è consapevole che restare nel suo amato Paese – il Kashmir – significava andare incontro a morte sicura. Figlio di un insegnante e di una casalinga, Adnan militava nella Alleanza Nazionale per la liberazione del Kashmir. Il movimento è stato fondato da suo zio che, nel 2012, è stato assassinato: “Per capire il motivo – dice lui – converrebbe chiedere lumi ai servizi segreti del Pakistan. Nel Kashmir, possono candidarsi alle elezioni soltanto partiti politici che firmano un manifesto di fedeltà al governo pakistano”. I motivi che portarono Adnan ad arruolarsi nel movimento e a combattere sono chiari. Prima di tutto il Kashmir è un formidabile produttore di energia elettrica e fornisce tutto il Pakistan, mentre il 40% dei suoi villaggi sono privi di luce. Non c’è rete ferroviaria, nel Paese. Le scuole di base cadono a pezzi. Nelle università pakistane il numero chiuso vale solo per i cittadini del Kashmir. Su cento studenti di Ingegneria Medica, ad esempio, soltanto cinque sono del Kashmir. Successivamente alla morte dello zio, Adnan ha organizzato con altri militanti varie manifestazioni. È stato arrestato per tre volte fino a quando – sempre nel 2012 – è stato rapito da uomini incappucciati, imprigionato, interrogato per quindici giorni, picchiato, umiliato e gettato quasi esanime in un bosco. Salvo per miracolo, Adnan si è trovato di fronte a un bivio. Se il cuore gli diceva di continuare a combattere, la mente e soprattutto il padre gli hanno imposto un viaggio della salvezza verso la Gran Bretagna. Costo 20 mila dollari. Alla fine, i trafficanti di esseri umani hanno deciso – senza interpellarlo – di depositarlo in Italia dove gli è stato riconosciuto lo status di rifugiato politico. E di nuovo Adnan – mentre serve involtini di primavera in un ristorante cinese – si trova ad un bivio. Oggi che può viaggiare liberamente nei 28 Paesi dell’Unione Europea, sogna una vita migliore (anche perché la Cina è un altro storico nemico del suo popolo). Vorrebbe insegnare Fisica o lavorare nell’industria atomica, avendo tutte le competenze per farlo. Queste le ipotesi razionali. Ma il cuore di nuovo lo spingerebbe verso la militanza politica in favore del Kashmir. Il suo parere sull’immigrazione? Finché ci saranno nazioni in rovina, ci saranno uomini e donne e bambini costretti alla fuga. E posti più fortunati come l’Europa sono la mèta della loro disperazione. Solo se le grandi potenze mondiali si impegneranno per chiudere i focolai di crisi dei Paesi in disfacimento, si potrà arginare l’onda degli immigrati.