Enver Hoxha

La dittatura, un ballo in maschera

Compagno Hoxha, Ti scrivo perché è di questi giorni un dibattito che ti ha richiamato da quell’oblio nel quale la Storia sembrava averti relegato. Tuttavia lasciami dire subito che persino l’inizio di questa lettera è, per me, piuttosto problematico: ti chiamo “compagno” per un riflesso condizionato che mi deriva dall’infanzia, ma è certo che Tu non sei mio compagno, né io voglio esserlo per te. Meglio: diciamo che, per quanto mi riguarda, avendo avuto ogni valido motivo per disilludermi per sempre della bontà di qualunque ricetta politico-sociale ispirata ai dettami del leninismo, so già che se qualcuno pretende che tu lo chiami “compagno”, è perché, nonostante i migliori propositi, ha già congegnato per te una sofisticata macchina statale in grado di tenerti in vita umiliandoti un po’ ogni giorno. Soprattutto, compagno Hoxha, quello che ancora oggi mi infastidisce del sistema che rappresentavi era l’ipocrita credenza di aver raddrizzato il legno storto dell’umanità una volta per tutte, di aver creato una società di uguali che, in realtà, erano uguali solo sulle carte della burocrazia. Vi erano infatti i ricchi e i potenti, esattamente come nell’Occidente debosciato che tanto ti terrorizzava, e i contadini che si spezzavano la schiena nei campi per mantenerli tutti. Solo che, di ricchi e potenti, ce ne erano meno, ed erano più assoggettati al sistema di potere che rappresentavi, più pronti a chinare il capo per mantenere i loro privilegi. Ad esempio, l’aristocrazia ottomana, che di aristocratico aveva poco ma che tale si sentiva, mandava i figli a studiare all’estero per poi farli tornare in Patria a ingrassare le file dell’apparato (la maggior parte di loro, ha poi trovato il modo, dopo una rapida abiura, di riciclarsi nel mondo nuovo). Noi figlie di contadini del distretto di Durazzo, invece, andavamo a prendere l’acqua alla diga col somarello, scalze, alle sei di mattina. Credo sia per questo che noi figlie di contadini del distretto di Durazzo, non sentiamo affatto la tua mancanza, compagno Hoxha. Ed è sempre per questo, immagino, che siamo anche disposte a sopportare con più pazienza le storture del sistema liberale, le mille aberrazioni dell’Occidente, contentandoci di provare a raddrizzare un po’ quel legno storto di giorno in giorno, consapevoli che si tratta di un lavoro che non avrà mai fine. E anche se non siamo esperte di Filosofia politica, di macroeconomia o di sistemi complessi, noi figlie di contadini nullatenenti di Durazzo siamo semplicemente contente di non andare più in giro col somarello alle sei di mattina, nella neve, per prendere l’acqua alla diga. Soprattutto, siamo felici di non aggirarci per le strade di polvere di una campagna disseminata di centinaia di migliaia di Bunker che tu, compagno Hoxha, avevi eretto per farci capire che eravamo soli e in guerra contro un mondo al quale di noi, in realtà, non importava assolutamente nulla. Quelle centinaia di migliaia di bunker, compagno Hoxha, erano la reificazione della paura che avevi del popolo del quale dicevi di essere il supremo difensore. Erano il pervasivo monumento in cemento armato ai demoni della cattiva coscienza, tua e dei tuoi sodali. Vedi, Compagno Hoxha, sono venticinque anni che vivo lontana dalla mia Patria, in esilio in Italia.  Sono venticinque anni che mi cerco nelle parole degli altri perché in Albania, le parole, ce le aveva sequestrate tutte la Sigurimi. Ho sempre vissuto con il pensiero costante che all’imbrunire le silhouettes dei nostri fantasmi, quelli che non abbiamo mai scacciato, possano tornare, vestite di nuovo, di rosso o di bruno, animate ancora una volta di quelle migliori intenzioni a cui fanno finta di credere e di cui è invece lastricata la strada per l’inferno dal quale sono scappata venticinque anni fa. Certo è però che, se ti scrivo, è perché la Storia sembra adesso riproporsi come farsa (sì, Compagno, sto citando Marx): se penso ai tuoi piani quinquennali per l’energia, che realizzavano il sogno autarchico dell’autosufficienza, non posso non constatare che è quello che temiamo di dover vivere adesso per non aver realizzato in tempo un vero Green New Deal, per non aver diversificato le fonti di approvvigionamento, per aver confuso l’ecologia col rifiuto tanto velleitario quanto ipocrita della modernità in nome di ogni sorta di nostalgia romantica. Così alla fine ho imparato che non c’era alcun sol dell’avvenire nella tua Albania, compagno Hoxha, e sono dovuta scappare. Qui invece ho imparato che non esiste il sogno americano, e non esiste qui perché dubito che sia mai davvero esistito anche in America. Qui ho imparato che il capitalismo italiano è piuttosto familista e relazionale, ed è difficilissimo farsi ascoltare se anche tu non sei figlia di una qualche aristocrazia ottomana (o di quella che Carlo Emilio Gadda chiamava “la migliore società Assiro Babilonese”). Vivendo in esilio, ho però imparato che la mia libertà, come donna e essere umano, vale tutta la pena di una democrazia imperfetta come questa. Diciamolo meglio: non è certo il migliore dei mondi possibili questo. È soltanto il migliore fra quelli che mi è stato dato conoscere.

Albania durante gli anni '70.

Albania 1970: le donne e il comunismo

di Ismete Selmanaj Mi chiamo Ismete Selmanaj, sono una cittadina italo-albanese. Sono nata a Durazzo, e come tanti miei connazionali sono emigrata in Italia nell’ormai lontano 1992, subito dopo la caduta del regime comunista di Enver Hoxha. Messina è la città che mi diede ospitalità in quegli anni bui, nella città siciliana sono nati e cresciuti i miei tre figli. Sono trascorsi più di 25 anni da quei fatti terribili che videro protagonista il mio Paese, il mio popolo, e solo oggi riesco a focalizzare in maniera nitida quel passato di cui sono stata testimone. Il partito sceglieva per me, per noi, per tutti noi. Ognuno di noi aveva un destino prestabilito, un destino che lo Stato sceglieva, e che noi tutti dovevamo compiere per il bene della collettività. Ho sempre amato la letteratura, e quando frequentavo il ginnasio in Albania ho scritto poesie e racconti riuscendo a vincere anche concorsi letterari. Ho smesso la mia passione per intraprendere gli studi universitari che il partito scelse per me. Durante il regime comunista nessuno dei giovani aveva la possibilità di compiere una scelta libera. Il partito sceglieva per me, per noi, per tutti noi. Ognuno di noi aveva un destino prestabilito, un destino che lo Stato sceglieva, e che noi tutti dovevamo compiere per il bene della collettività. Lo Stato decideva di quanti ingegneri, fisici, matematici, chimici, biologi, architetti, scienziati, economisti, pittori, e giornalisti avesse bisogno. Era chiaro a tutti che il regime focalizzava la sua attenzione sulle materie tecniche, mentre quelle umanistiche erano quasi del tutto ignorate. Gli scrittori che non si allineavano alle volontà del Partito venivano perseguitati, esclusi, denigrati, abbandonati. Lo Stato dava molta rilevanza al numero degli scrittori presenti sul territorio, quelli che obbedivano, gli scrittori del regime, venivano idolatrati, premiati affinché la loro opera fosse un encomio al regime stesso. Gli scrittori, che oggi definiremmo borderline piuttosto che non si allineavano alle volontà del Partito, venivano perseguitati, esclusi, denigrati, abbandonati in una specie di oblio. Questi scrittori venivano addirittura minacciati, oppressi dal regime molti di loro si suicidavano poiché era l’unico modo per manifestare il loro dissenso. In tutto questo quasi nessuno menziona le condizioni della donna albanese, del suo ruolo nella società, e io di questo voglio parlare. Mi chiamo Ismete Selmanaj e sono l’autrice di “Verginità Rapite”, e della storia di Mira, la protagonista del romanzo, che vi voglio raccontare.  

Tirana, Albania.

Il patriottismo è l’ultimo rifugio di un farabutto

di Irisa Bezhani Samuel Johnson aveva ragione nel pensare che il patriottismo fosse l’ultimo rifugio di un farabutto. Dire di essere patriottici in questo momento storico, equivale a dire di essere nazionalisti. Prova a dire a qualcuno che sei patriottico, e quello subito ti guarderà con occhio diverso, cercherà di cogliere tutti quei dettagli, che prima della tua affermazione aveva ignorato, che dimostrano quale spregevole persona tu sia e poi deciderà se classificarvi come un nemico populista. In realtà la mia è un’innocua esternazione. Patriottico per me significa ben altro da quanto uno possa pensare; in un mondo dove il famigerato populismo prende sempre più piede, dove le tendenze sovraniste e isolazioniste si fanno sempre più forti a discapito delle inclinazioni più favorevoli alla globalizzazione e al multiculturalismo, dire di essere patriottici automaticamente ti inquadra nella prima categoria, e di conseguenza in quella dei “cattivi”. Allora forse bisognerebbe chiarire meglio cosa uno intende per patriottismo, o cosa io intendo per patriottismo. In un Paese come l’Albania, dove la dittatura comunista per quasi mezzo secolo ha creato una società totalmente asservita, piegata dal peso dell’ideologia e della propaganda, il sentimento patriottico ha chiaramente un legame col passato, nel quale lo Stato era Dio. Ma questo sentimento di appartenenza, inteso comunemente con la parola patriottismo, non è, per quello che intendo io, quello malato del regime di Enver Hoxha, ma uno più romantico; una visione della propria patria slegata da complessi di superiorità o da sentimenti negativi verso chi non è uguale a te, anche perché alla fine siamo tutti stranieri per qualcuno; anzi, io trovo che sentirsi sia patriottici che sostenere il multiculturalismo non sia qualcosa di ossimorico. Ovviamente uno può chiaramente obiettare dicendo che non si sceglie il posto dove si nasce, così come non si sceglie in quale famiglia venire al mondo. Sono d’accordo. Nascere in questo mondo è un caso, ti becchi quello che ti capita. Ma allo stesso tempo c’è quel sentimento di appartenenza, di familiarità che ti lega al luogo in cui cresci. Puoi amarlo, o puoi cercare di distanziartene il più possibile, sono scelte entrambe comprensibili. Come infatti scriveva Fosco Maraini nel suo “Segreto Tibet”, citando un vecchio canto himalayano “La patria è soltanto un campo di tende in un deserto di sassi.” I confini sono soltanto linee convenzionali tracciate per separare la terra che in fondo è una. Io sono patriottica, io amo il mio Paese, l’Albania, e poiché lo amo voglio che stia bene, che sia un posto bello in cui vivere. La mia relazione d’amore con l’Albania ha subìto diverse fasi. Quando da bambina sono venuta in Italia, la terra delle aquile mi sembrava come un pagina del passato di cui dimenticarsi. Ero proiettata sul presente e sulla mia vita da italiana cresciuta da genitori albanesi. Ma più avanti ho iniziato ad avere quel senso di nostalgia per l’infanzia, per le estati passate al mare, per l’odore delle strade, ed anche quello più sgradevole della spazzatura. Quando si dice che amare significa anche accettare i difetti dell’altro, allora il mio rapporto con l’Albania è un rapporto d’amore anche per questo. In Albania quasi tutti sono patriottici. Potrai vedere mille bandiere svolazzare tra le grate dei balconi, sentire canzoni che esaltano la nostra terra e le nostre usanze. Bisogna però anche dire che la cultura albanese è, soprattutto in alcune zone del paese, molto arretrata e poco aperta. Siamo un popolo che è fortemente legato all’onore, alla famiglia, un popolo che ancora deve fare i conti con una società patriarcale, che vede la donna utile solo al matrimonio. Ci sono mille difficoltà in Albania, ma proprio per questo mi sento in dovere di fare qualcosa. Sono molti gli albanesi della diaspora che dopo un periodo di tempo passato all’estero tornano in patria e mettono così a disposizione le loro competenze che hanno imparato altrove. Anche per questo ammiro l’Albania, siamo un popolo migrante, un popolo che vive ai quattro angoli del globo nonostante il nostro sia un piccolo Paese di appena tre milioni di abitanti. Non dobbiamo però farci soffocare da un orgoglio malsano, un orgoglio che rende ciechi alle nostre zone d’ombra. Il senso critico è fondamentale se davvero amiamo il nostro Paese. Io sono orgogliosa di essere albanese, perché il profumo di quella terra piena di contraddizioni mi affascina e mi fa sentire a casa. Sono legata al Paese, nonostante ci sia l’Adriatico a separarci, ed è proprio per questo che ho voglia di cambiarlo, e di migliorarlo. La mia generazione di albanesi, nella quale ripongo molta fiducia, sarà il futuro del dell’Albania. Siamo la generazione che non ha vissuto la dittatura, e per questo è meno schiacciata dal passato opprimente, siamo la generazione figlia di immigrati, la generazione dei sognatori che ha l’urgenza di creare un’Albania diversa, per tutti.

Stavri Bezhani

Figlia mia, la dittatura dei comunisti non sa chiedere scusa

di Irisa Bezhani È cosa universalmente nota che nelle famiglie albanesi si parli di comunismo e di Enver Hoxha, il dittatore che ha tenuto l’Albania per 45 anni nel più assoluto isolazionismo, portando il paese ad una miseria con la quale ancora oggi, in un modo o nell’altro, bisogna fare i conti. Ed è per questo che io e mio padre molte volte finiamo per parlare del comunismo, dell’Albania della dittatura, quella che mio padre ha vissuto in prima persona e che quindi è in grado di raccontarmi. Sentirlo parlare della sua vita, lui che ora ha 54 anni, mi aiuta a capire che clima si respirava a quei tempi, quando io ancora non ero nata. Ho quindi deciso di fargli qualche domanda sulla dittatura comunista, e di raccogliere la sua personale testimonianza che potete leggere di seguito. Quand’è stato il momento esatto in cui hai capito che vivevi in una dittatura? I dubbi sono sorti quando sentivo le storie che mi raccontava mia madre, anche se comunque a quell’età non potevo veramente rendermi conto della situazione. Che storie ti raccontava?  Raccontava di quando si sono rotti i rapporti con la Cina. Era il 1976, io avevo 13 anni. Mia madre aveva molta paura ma nei miei confronti cercava di mostrarsi forte, mi rassicurava, dato che ero un bambino sensibile. Mi diceva che eravamo un popolo forte, che il partito era forte; insomma, mi faceva la morale. Avevo un po’ di paura ma, come ho detto prima, non riuscivo a capire veramente. È stato al terzo anno di università, nel 1984, che ho davvero capito che qualcosa non andava. In primo luogo vedevo che c’era molta repressione: tutti avevano paura di tutti, nessuno esprimeva le proprie opinioni per paura che altri sentissero e andassero a riferire ai professori o a esponenti del partito. In secondo luogo vedevo che alcuni professori facenti parte del partito erano completi idioti. Non tutti i professori erano così, ce n’erano tanti di ben preparati, ma di quelli che facevano parte del partito, quelli che insegnavano per lo più storia del partito, marxismo-leninismo ed economia politica, erano completamente ignoranti, in tutti i sensi. Ed erano questi stessi a dettare legge nell’istituto. In terzo luogo, quando andavo a trovare mio zio che lavorava in fabbrica (nel kombinat, più propriamente un insieme di fabbriche) vedevo che molte persone si registravano e tornavano poi a casa. Dato che avevo studiato economia con risultati ottimi, mio zio mi raccontava che continuavano ad alzare il tasso di produttività; per esempio, se un operaio faceva 16 pezzi e guadagnava 1000 lekë, la prossima volta la fabbrica alzava il tasso a 20 per far guadagnare poi sempre lo stesso salario. Facevano quindi in modo che l’operaio rimanesse sempre allo stesso punto. La produttività aumentava, anche con l’aiuto delle macchine, ma la paga rimaneva la stessa di prima. Io in questo vedevo una grande contraddizione. E la più grande contraddizione erano quelli che non lavoravano e prendevano comunque la loro paga. Un’altra cosa che mi pareva difettosa era che in alcuni quartieri nella città in cui studiavo, alcune persone ascoltavano la radio di Zagabria e la musica slava e venivano sorvegliati e perseguitati dalla sicurezza e dalla polizia e odiati dalla gente. Loro alla fin fine erano persone come le altre, ascoltavano solo della musica. Insomma, capivo che qualcosa non andava, che quel sistema non aveva vita lunga, ma su cosa sarebbe successo in futuro non avevo la più pallida idea; si sarebbe fatta una guerra, ci sarebbe stata una rivoluzione? Questo io non l’avrei capito nemmeno più tardi. Vedevo anche che l’economia della campagna diminuiva sempre di più a causa del processo di collettivizzazione del 1981 che doveva in teoria arricchirci ma che in pratica ci rese ancora più poveri. Qual è stato invece l’aspetto più positivo della dittatura, se ce n’è stato uno? La parte positiva era che non c’era droga. Un’altra cosa che mi piaceva, nonostante il sistema fosse dittatoriale, era che fino ai 18 anni non era permesso fumare e se lo facevi l’opinione ti condannava. Non solo le ragazze non dovevano fumare ma neanche i ragazzi. Fino ai 18-20 anni soltanto forse il 5 per cento dei ragazzi fumava, le ragazze men che meno, per loro era impossibile. Nemmeno l’alcol era permesso. Un’altra cosa positiva era che quel sistema ha fatto un grande sforzo per portare avanti un programma di educazione, anche se questo non andava fino in fondo ed era fortemente influenzato dal partito. Il regime aveva dato molto valore all’educazione, nonostante questa fosse imbevuta di ideologia. Tutti andavano a scuola e questo processo ha aiutato a ridurre il tasso di analfabetismo del paese. E l’aspetto più negativo? Durante un conflitto per, esempio, mettiamo che io nell’età che ho adesso fossi negli anni 80, potevo uccidere una persona e la condanna non la soffrivo solo io ma tutta la mia famiglia. Se io andavo in prigione, per esempio, tu e la mamma venivate deportate ed isolate in un posto sperduto, dovevate presentarvi ogni giorno alla polizia locale, dovevate lavorare nei campi, i lavori più pesanti, vi veniva sottratto il diritto all’educazione. Quindi dici che l’aspetto più negativo era che i famigliari di un condannato dovevano anche loro ingiustamente soffrire di una colpa che non era la loro? Sì, se uccidevo qualcuno dovevo andare in prigione io, non la mia famiglia. Accadeva solo in casi di omicidio oppure anche per altri crimini? L’omicidio è l’esempio più semplice. Se qualcuno voleva fuggire e oltrepassare il confine tutta la famiglia veniva internata. C’era poi la persecuzione politica, le infrastrutture erano poco sviluppate, la gente non poteva muoversi liberamente. Mi ricordo che una volta mi dicevi che la cosa peggiore che la dittatura ha fatto è stato instillare il dubbio e il sospetto all’interno delle stesse famiglie. Sì, esatto, anche fra moglie e marito. Quali conseguenze ha avuto la dittatura nella vita delle persone? In quel periodo c’era una tale concentrazione di ideologia all’interno del sistema scolastico, a partire dalle elementari fino all’università, che appesantiva il programma. Tutto era ricondotto a queste materie: storia del partito, marxismo-leninismo, economia del partito. E la fedeltà al partito veniva valutata dai professori in base a quanto eri bravo in queste materie. Quindi gli studenti bravi, quelli che studiavano tanto, impiegavano un sacco del loro tempo per studiare quelle materie, perché alla fine ne avrebbero ricavato un guadagno. Potevi ricevere valutazioni negative anche se in matematica e fisica eri eccellente. L’appesantimento dovuto a queste materie, che allora si dicevano “sociali”, ma che in realtà erano pura ideologia, faceva in modo che persino chi usciva dalle università non fosse veramente padrone della materia per cui aveva studiato. Perché avevano perso tempo con quelle altre materie. Noi poi non conoscevamo per nulla il concetto di proprietà. Ogni cosa apparteneva allo Stato e lo Stato lo organizzava. I contadini nelle campagne non avevano terra, eccetto per un piccolo orticello di pochi metri quadri, e tutto il resto del terreno era della cooperativa, era in comune. Noi l’idea della proprietà non ce l’avevamo. E la conseguenza di questo è che quando il sistema è cambiato noi non sapevamo cosa fare, nessuno aveva messo da parte qualche risparmio. Anzi, la maggior parte dei contadini, che al tempo erano il 70 per cento della popolazione, è ritornata a vecchi metodi di produzione della terra. La cosa quindi più negativa è che il sistema ci ha lasciati impreparati una volta che la dittatura era finita. Anche solo negli anni novanta le costruzioni erano ispirate al modello russo, fatte senza isolamento termico, senza alcun tipo di cosa, solo cemento e mattoni e null’altro. E per quanto riguarda te personalmente, che conseguenze ti ha lasciato il regime? Io avevo il desiderio di continuare gli studi come economista in campo agricolo o industriale, oppure come ingegnere, ma non mi potevano far fare quello che volevo. Era lo Stato a decidere dove saresti andato. Dato che mi avevano messo a fare l’insegnante di matematica e fisica, io questo lavoro alla fine lo facevo anche controvoglia. Altra conseguenza nella mia generazione era che noi vedavamo il mondo in bianco e nero, in due colori, amici e nemici. Ancora oggi ci sono conseguenze di questa cosa in Albania. Vedi per esempio il Partito Democratico, dove si sono raggruppati tutti quelli che non volevano Enver Hoxha, secondo il modo di pensare che abbiamo. Noi vediamo le cose in bianco e nero, non rispettiamo l’opinione altrui, vogliamo tutti avere la stessa opinione. Questa è la cosa più negativa, l’io. Io devo comandare, io so, io faccio, si farà come dico io perché solo io so. Non ci sono opinioni contrarie, non c’è dialogo. E questo conflitto c’era anche nelle famiglie. Noi famiglie non sappiamo dialogare. Non conosciamo la tolleranza. Altra cosa, non conosciamo la parola “scusa”. La mia generazione non conosce la parola “scusa”. Tu pensa, io ho cambiato quattro volte mestiere nella mia vita, prima economista, poi insegnante, commerciante ed infine muratore. Al liceo mi sono impegnato in economia e sono stato uno dei più bravi allievi usciti dalla scuola di Berat. E lo Stato, invece di prepararmi come economista, mi ha fatto fare poi l’insegnante. Era un ç’organizim i organizuar (una disorganizzazione pianificata), come si dice qua in Albania. Non far specializzare una persona come me, che eccelleva in quella materia, era una disgrazia di quel regime. Quando il sistema è cambiato ho iniziato a fare il commerciante, qua in Italia poi ho fatto il muratore. Insomma, poi le conseguenze secondarie e terziarie sono molte. Ma la più importante era questa, l’assenza di dialogo in famiglia, che c’è ancora oggi e fin quando ci sarà la mia generazione questa cosa non sparirà.

Gëzim Hajdari

Gëzim Hajdari: storia del dissidente fra Albania e Italia

Gëzim Hajdari, ci racconti un po’ di lei, delle sue origini, della sua famiglia.  Sono nato nel 1957, in Darsìa. (Lushnje), in Albania, in una famiglia di ex-proprietari terrieri e commercianti, i cui beni sono stati confiscati durante la dittatura comunista di Enver Hoxha. Negli anni ’30 la mia famiglia possedeva due negozi nel pieno centro della città di Lushnje, una macchina, centinaia di ettari di terreni, boschi e bestiame. Mio padre a sedici anni si unì alla Resistenza partigiana. Dopo la guerra studiò a Tirana come geometra-ragioniere. Ha lavorato per alcuni anni presso l’ufficio del catasto di Lushnje, città dove è nata anche mia madre. Nur è una donna semplice e generosa come la madre terra. È cresciuta con le suore italiane, che avevano il convento vicino a casa sua. I suoi genitori lavoravano come agricoltori. Sono molto legato a Nur, che è sempre presente nella mia opera. Quando mio nonno, Velì Hajdari venne dichiarato kulak, i dirigenti del Partito comunista decisero di licenziare mio padre. La casa di mio nonno veniva frequentata dai dervish, membri della confraternita mistica dei bektashi, di cui faceva parte anche la mia famiglia. Per il resto della sua vita mio padre ha lavorato come pastore di buoi della cooperativa comunista ricevendo a fine mese dallo Stato i soldi che bastavano solo per comprare il pane quotidiano. Ogni mattina, quando andava nei campi, nel sacco, insieme al desinare, Nur gli metteva un romanzo da leggere. Era un grande lettore, amava i classici russi, francesi e inglesi. Nelle notti invernali ci raccontava le saghe che aveva letto durante la giornata. Attorno al caminetto, in silenzio, noi bambini ascoltavamo rapiti. Spesso, ci commuovevamo al suo raccontare. Alla luce pallida della candela ci lacrimavano gli occhi. Il racconto più struggente fu la storia di Anna Karenina. Una volta mia madre gli disse, mentre asciugava il volto, «Basta Rizà con questi romanzi, i figli si commuovono». Ma egli non smise mai di raccontare ciò che leggeva di giorno mentre pascolava i buoi. Ogni sera ci sedevamo attorno al caminetto, aspettando con impazienza di ascoltare una nuova saga. Il resto della mia vita appartiene alle lotte per la libertà e per la democrazia del mio Paese, denunce contro i crimini della dittatura comunista di Hoxha e contro gli abusi e le speculazioni dei nuovi regimi mascherati, disillusioni, minacce di morte, fughe, esili, condanne al silenzio da parte della mafia politica e culturale di Tirana; più di dodici anni di mestieri diversi come manovale per sopravvivere, sia in Patria che in Occidente, studi infiniti, viaggi in Africa, in Asia e nel sud del mondo testimoniando diverse e dimenticate realtà, spesso rischiando anche la vita. Lei ha iniziato giovanissimo a comporre poesia, come è nata questa passione? Ho iniziato a scrivere al primo anno delle medie, all’età di undici-dodici anni. La persona che mi ha fatto innamorare della la poesia è stato mio nonno paterno e poi mio padre, il quale recitava a noi bambini, prima di dormire, i canti epici dedicati ai guerrieri leggendari quali «Mujo», «Halil», «Gjergj Elez Alia» e  «Aikuna piange il figlio Omero». Mentre della la lirica popolare mi fece innamorare lo zio di mia madre Selìm. Quando frequentavo le medie nella città di Lushnje, spesso dormivo dai miei nonni materni. Questo accadeva quando faceva brutto tempo e non potevo tornare nel villaggio. Allora preferivo trascorrere la notte presso i miei nonni anziani. Mio nonno era molto affezionato a me, diceva a mia madre che assomigliavo a lui. Suo fratello Selìm aveva fatto il nizam, così venivano chiamati in turco i soldati albanesi che combattevano per conto della Sublime Porta di Istanbul, durante il dominio degli Ottomani nei Balcani. Egli aveva combattuto in Iran e Iraq per diversi anni. Non si sposò, visse il resto della sua vita con i ricordi degli anni del nizam. Ogni persona che incontrava gli raccontava la sua vita da soldato nei deserti lontani. I suoi racconti mi affascinavano molto. Spesso Selìm, dopo avermi raccontato dei lunghi viaggi per i deserti, degli addestramenti faticosi, delle battaglie feroci con i nemici dell’impero Ottomano, della morte dei suoi commilitoni, iniziava a cantare con una bellissima voce dei canti che raccontavano di tutto questo. Ho portato sempre con me l’amore per i canti dei nizam. Finché un giorno decisi di tradurre questo patrimonio inestimabile del popolo albanese in italiano. Il volume «I canti dei nizam / Këngët e nizamit» è stato pubblicato nel 2012 da Besa Editrice.           Quali sono stati i primi autori che ha letto e quali quelli che hanno lasciato un’impronta su di lei?  Le opere degli autori che ho letto mentre frequentavo le medie e i primi anni del Ginnasio sono: «Le Quartine» di Omar Khayam; «Il Gulistan» di Saadi Shiraz; «Anna Karenina» di Tolstoj, i racconti di Čechov; le liriche di Puskin, Sergej Esenin ed Éduard Bagrickij; «Il Demone» di Lermontov; «Foglie d’erba» di Walt Whitman; «I quartieri del mondo» di Jannis Ritsos; «Decameron» di Boccacio; «Il De rerum natura» di Lucrezio; «L’inferno» di Alighieri; «La Saga dei Forsyte» di Galsworthy; i racconti dello scrittore indiano Krishan Chander; «Il rosso e il nero» di Stendhal e le liriche di Heinrich Heine. Questi grandi autori, tradotti magistralmente in albanese, hanno segnato per sempre il mio destino di poeta. Come ha vissuto la relazione con la sua passione durante gli anni del regime? Gli anni del regime di Enver Hoxha albanese rimarranno sempre un mistero per me, ma anche per gli albanesi. Nessuno di noi sapeva quello che accadeva nel cuore del potere comunista, per non parlare poi dei campi di internamento e delle prigioni. Nulla trapelava al di fuori delle mura dei recinti della dittatura del proletariato. E forse nulla si saprà dato che l’altra metà della verità storica si nasconde negli archivi segreti, ormai ‘ripuliti’, dai regimi post comunisti di Tirana. Quindi un poeta come me viveva tra passione per la poesia e il terrore. Quando si inaspriva la lotta di classe, la mia famiglia veniva etichettata come nemica del partito comunista, invece quando la lotta di classe viveva un periodo di ‘pausa’ riuscivamo a vivere. Sono testimone vivente di molti arresti: “In nome del popolo siete in arresto!” da parte del Sigurim, la polizia politica del regime. Dopo ogni cittadino arrestato, la gente sussurrava: “Chissà a chi toccherà domani!”. Si poteva finire dietro le sbarre anche per una ‘parola’, per una ‘metafora’ oppure per un ‘sogno’. Io avevo come compagno di banco nel Ginnasio Jozef Radi, figlio dell’intellettuale Lazer Radi, perseguitato politico, il quale viveva nel campo di internamento di Savër, Lushnje. Davanti al mio Ginnasio di tanto in tanto, passavano i carri militari carichi di uomini, donne e bambini deportati. Venivano da tutte le parti del Paese, per passare il resto della loro vita nei lager della mia città. Mentre furgoni con i finestrini bloccati dalle sbarre, portavano i prigionieri politici. Sono state le letture dei classici che mi hanno ‘salvato’ e, allo stesso tempo, temprato la mia consapevolezza di poeta nei tempi bui della storia albanese. Mentre il paesaggio brullo e mistico della mia provincia collinosa di Darsia mi dava un po’ di conforto negli anni della mia gioventù. Quando avvenne la scelta di abbandonare l’Albania? Quali furono le ragioni che la spinsero a tale scelta? Nell’inverno del 1991, sono stato tra i fondatori del Partito Democratico e del Partito Repubblicano della città di Lushnje, partiti d’opposizione, e fui eletto segretario provinciale per i repubblicani nella suddetta città. Sono cofondatore del settimanale di opposizione Ora e Fjalës. Più tardi, nelle elezioni politiche del 1992, mi sono presentato come candidato al parlamento nelle liste del PRA, ma non venni eletto. Nel corso della mia intensa attività di esponente politico e di giornalista d’opposizione, ho denunciato pubblicamente e ripetutamente i crimini, gli abusi, la corruzione economica e culturale, nonché le speculazioni della vecchia nomenclatura di Hoxha e della più recente fase post-comunista. Anche per queste ragioni, a seguito di ripetute minacce subite, sono stato costretto, nell’aprile del 1992, a fuggire dal mio Paese. Del resto, capì che il cosiddetto cambiamento democratico albanese non era altro che un gioco sporco deciso già a tavolino. La vecchia nomenclatura comunista di Enver Hoxha, con l’aiuto dei ‘poteri oscuri’ dall’oltre Oceano, si sono impossessati di nuovo del potere politico, economico e culturale del Paese delle aquile. I cosiddetti ex-perseguitati politici durante il comunismo, invece di fondare un loro partito, per aprire la strada ad un cambiamento radicale dell’amministrazione, della società e dello Stato,  preferirono dividere il potere e le ruberie con i loro boia. È così che è stato ucciso definitivamente il sogno della libertà, della vera democrazia e della sovranità dell’Albania. Come sono stati i primi anni da emigrante? I primi anni in Italia sono stati molto duri. Avevo trentacinque anni e dovevo iniziare da zero. In tasca non avevo nessun centesimo, prima di partire da Durazzo avevo in tasca i soldi del biglietto solo di andata. Avevo perso tutto. Sconfitto. Per sopravvivere ho dovuto lavorare come pulitore di stalle, zappatore, manovale, aiuto tipografo. E nel frattempo frequentavo un’altra facoltà in Lettere Moderne alla Sapienza di Roma pagando tutte le tasse universitarie, oltre l’affitto di casa e da mangiare. Era l’inizio degli anni ’90. L’Albania a quel tempo si identificava con le prostitute, con gli assassini, i ladri, stupratori. Un poeta come me dove essere tre volte più bravo dei suoi colleghi italiani e quelli che provenivano da altri Paesi. Le domande provocatorie nei miei confronti in quanto uomo di cultura e cittadino albanese erano all’ordine del giorno. Inoltre dovevo scrivere sia in albanese che in italiano dato che non avevo lettori albanesi. Le prime raccolte poetiche le ho pubblicate di tasca mia. Non conoscevo nessun editore italiano. Ci voleva denaro e tempo per andare a contattare degli editori nelle grandi città. Io lavoravo dalla mattina e rientravo a casa la sera e non potevo fare nulla. È il caso di raccontare un fatto triste che mi è accaduto durante i primi mesi in Italia. A quel tempo facevo dei lavori saltuari come manovale, i datori di lavoro a volte mi pagavano, a volte no. Nei primi mesi trovai rifugio presso alcuni miei connazionali. La casa dove loro risiedevano era stata offerta dal Comune, quindi non pagavano affitto. Questi signori all’inizio mi hanno ospitato, poi un giorno mi cacciarono di casa. Li ho pregati di stare ancora qualche settimana affinché trovassi un lavoro che mi poteva permettere di affittare una stanza, ma nulla da fare. Mi ricordo che andavo in giro per la città bussando casa per casa chiedendo lavoro, ma appena le persone sentivano la parola ‘albanese’, chiudevano la porta dicendomi: “Vada via, siete dei ladri e criminali!”. Forse avevano ragione, nei primi anni ’90 gli albanesi occupavano le prime pagine della cronaca nera sui giornali e dei media italiani. Finché un giorno ho trovato lavoro come manovale presso una piccola ditta edile. Finalmente sono riuscito a trovare alloggio in un rudere disabitato da mezzo secolo dove l’affitto era basso. Perché sceglieste di vivere in Italia? Ho scelto l’Italia perché i nostri popoli hanno condiviso lo stesso destino durante la storia. L’Italia è stata sempre la grande porta che ha collegato l’Albania con il resto dell’Europa. E poi la lingua e la cultura italiana mi è stata sempre molto familiare. Non dobbiamo dimenticare che la letteratura albanese è nata in latino. Quali erano allora i rapporti che aveva con la classe intellettuale italiana, come fu l’accoglienza? I primi anni per me sono stati anni di fatica enorme, sofferenza e grande angoscia esistenziale. Non c’era tempo per fare “l’intellettuale“. L’intellettuale in Italia e all’estero lo facevano i poeti e scrittori del realismo socialista di Tirana, che insieme ai loro colleghi perseguitati fino a ieri durante il regime comunista, venivano nominati addetti culturali, ambasciatori, direttori della Fondazione Soros, oppure venivano ospitati nelle residenze di scrittura ovunque per Europa. Quei pochi poeti come me che denunciavano pubblicamente gli abusi, la corruzione e i traffici tra mafia e governanti, venivano etichettati come nemici dell’Albania.  Per me si trattava di lottare giorno e notte per …

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