Siria

Il Governo degli Stati Uniti d’America ha abbandonato i siriani: il caso Ziadeh

Radwan Ziadeh è un dissidente siriano di 41 anni e vive con la sua famiglia in un sobborgo di Washington. Avversario politico del presidente Bashar al-Assad in Siria, Ziadeh è un emigrato politico che vive da dieci anni negli Stati Uniti dove ha ottenuto la borsa di studio presso la GeorgeTown e la Harvard University, e infine dall’Istituto degli Stati Uniti per la pace. Ma l’amministrazione Trump ha inciso sul suo percorso di vita e il signor Ziadeh, circa un mese fa, ha ricevuto in casa una lettera di dodici pagine che riportava la definitiva sospensione del suo asilo politico. Il caso del siriano Ziadeh merita la giusta attenzione perché sottolinea il netto divario che c’è tra la legge americana sull’immigrazione e la sua politica estera. Dopo l’11 settembre 2001 le disposizioni contro il terrorismo sono state rafforzate e negli ultimi tre anni tutti i gruppi di opposizione armati nel mondo sono stati vagliati dal governo statunitense come organizzazioni terroristiche. Chiunque appoggiasse queste “organizzazioni non classificate” , sia finanziariamente che diplomaticamente, veniva squalificato dalla possibilità di ricevere i permessi di soggiorno o di perdere, come nel caso di Ziadeh, l’asilo politico. Ziadeh è un uomo che è sempre stato in prima linea, facendosi il portavoce sulla situazione siriana, ha scritto libri e ha testimoniato al Palazzo del Congresso fino a qualche mese fa, prima dell’amministrazione Trump. La famiglia Ziadeh non riesce a dare una spiegazione logica a tale provvedimento nei loro confronti, i figli di Ziadeh sono nati negli Stati Uniti e ora tutti si trovano spaesati e non sanno più di ciò che sarà delle loro vite. La situazione di Ziadeh è compromessa e riorganizzare una nuova vita è un percorso arduo e spinoso visto le relazioni politiche internazionali, e dove l’opzione di rientrare in patria è inaccettabile considerando le condizioni di guerra in cui imperversa il suo Paese, e visto che su Ziadeh c’è un mandato di cattura in atto dal Daesh che lo ritiene un traditore e una spia degli americani e questo perché Ziadeh ha tenuto nel corso degli anni 2012 e 2013 delle conferenze per discutere e trovare una possibile transazione democratica in Siria. Queste conferenze si sono tenute a Istanbul, in Turchia, dove un gruppo si è autoproclamato comandanti della confederazione chiamandosi Libero Esercito Siriano , mentre l’altro gruppo si sono definiti come i leader politici affiliati alla Fratellanza Mussulmana Siriana. Il governo americano conosceva molto bene entrambi i gruppi e il Dipartimento di Stato americano si è prodigato sostenendoli nella loro lotta, fornendo loro stipendi e armi, in particolare ai membri della Fratellanza mussulmana, i quali hanno giocato un ruolo fondamentale nel Consiglio Nazionale Siriano. L’ex ambasciatore americano in Siria, Robert S. Ford, in risposta a ciò che sta accadendo alla famiglia Ziadeh ha sottolineato in una mail inviata al governo americano che nessuno dei membri dei due gruppi a cui il signor Ziadeh aveva invitato a collaborare potevano essere considerati organizzazioni terroristiche e che la Fratellanza Mussulmana non ha alcuna “connessione amministrativa” con gli altri gruppi dei Fratelli Mussulmani Siriani sparsi nel mondo e soprattutto che Hillary Clinton, John Kerry e l’ex ambasciatore Ford si sono incontrati con la delegazione dell’opposizione che includeva anche i membri della Fratellanza mussulmana siriana. Nella lettera inviata al signor Ziadeh il governo americano ha giustificato la scelta del mancato rinnovo dell’asilo politico scrivendo che il fatto che entrambi i gruppi, sia il Libero Esercito Siriano che la Fratellanza Mussulmana Siriana hanno utilizzato le armi con l’intento di mettere in pericolo la sicurezza dei funzionari del governo siriano, per cui entrambi i gruppi sono stati inclusi tra le organizzazioni terroristiche. Il signor Ziadeh, tramite il suo avvocato Steven H. Schulman, si appella al governo americano e in merito alla decisione presa dall’amministrazione Trump sostiene che farsi portavoce ed invitare i membri dei gruppi di opposizione a riunirsi in una conferenza per discutere del futuro politico della Siria non può essere considerato allo stesso modo di aiutarli materialmente promuovendo le loro agende e che “fornire sostegno materiale ai gruppi” può significare qualsiasi cosa. Il presidente del Refugees International ed ex funzionario dell’amministrazione Obama, Eric Schwartz, definisce la disposizione della legge sull’immigrazione come “un prodotto del periodo post 11 settembre”, periodo in cui nasceva il reparto che si occupava delle organizzazioni terroristiche non designate, pertanto l’agenzia dell’immigrazione ha dichiarato che il signor Ziadeh è un perseguitato politico per cui in  linea con la richiesta dell’asilo politico, mentre secondo il governo americano il sostegno di Ziadeh al Libero Esercito Siriano e alla Fratellanza Mussulmana Siriana è motivo per negare la sua richiesta. “Il governo degli Stati Uniti d’America ha abbandonato i siriani” dice un sterminato signor Ziadeh, il quale sostiene che la scelta del governo americano è un messaggio più grande del rifiuto.

La fuga dal Kashmir di Adnan per salvarsi la vita

Per salvarsi, ha attraversato la Libia, la Siria, la Turchia approdando in Italia dopo aver pagato 20 mila dollari ai mercanti di esseri umani. Ora – cameriere in un ristorante cinese del Milanese – è un uomo felice anche se una laurea in Fisica e Matematica autorizzavano ambizioni diverse. Adnan d’altra parte è consapevole che restare nel suo amato Paese – il Kashmir – significava andare incontro a morte sicura. Figlio di un insegnante e di una casalinga, Adnan militava nella Alleanza Nazionale per la liberazione del Kashmir. Il movimento è stato fondato da suo zio che, nel 2012, è stato assassinato: “Per capire il motivo – dice lui – converrebbe chiedere lumi ai servizi segreti del Pakistan. Nel Kashmir, possono candidarsi alle elezioni soltanto partiti politici che firmano un manifesto di fedeltà al governo pakistano”. I motivi che portarono Adnan ad arruolarsi nel movimento e a combattere sono chiari. Prima di tutto il Kashmir è un formidabile produttore di energia elettrica e fornisce tutto il Pakistan, mentre il 40% dei suoi villaggi sono privi di luce. Non c’è rete ferroviaria, nel Paese. Le scuole di base cadono a pezzi. Nelle università pakistane il numero chiuso vale solo per i cittadini del Kashmir. Su cento studenti di Ingegneria Medica, ad esempio, soltanto cinque sono del Kashmir. Successivamente alla morte dello zio, Adnan ha organizzato con altri militanti varie manifestazioni. È stato arrestato per tre volte fino a quando – sempre nel 2012 – è stato rapito da uomini incappucciati, imprigionato, interrogato per quindici giorni, picchiato, umiliato e gettato quasi esanime in un bosco. Salvo per miracolo, Adnan si è trovato di fronte a un bivio. Se il cuore gli diceva di continuare a combattere, la mente e soprattutto il padre gli hanno imposto un viaggio della salvezza verso la Gran Bretagna. Costo 20 mila dollari. Alla fine, i trafficanti di esseri umani hanno deciso – senza interpellarlo – di depositarlo in Italia dove gli è stato riconosciuto lo status di rifugiato politico. E di nuovo Adnan – mentre serve involtini di primavera in un ristorante cinese – si trova ad un bivio. Oggi che può viaggiare liberamente nei 28 Paesi dell’Unione Europea, sogna una vita migliore (anche perché la Cina è un altro storico nemico del suo popolo). Vorrebbe insegnare Fisica o lavorare nell’industria atomica, avendo tutte le competenze per farlo. Queste le ipotesi razionali. Ma il cuore di nuovo lo spingerebbe verso la militanza politica in favore del Kashmir. Il suo parere sull’immigrazione? Finché ci saranno nazioni in rovina, ci saranno uomini e donne e bambini costretti alla fuga. E posti più fortunati come l’Europa sono la mèta della loro disperazione. Solo se le grandi potenze mondiali si impegneranno per chiudere i focolai di crisi dei Paesi in disfacimento, si potrà arginare l’onda degli immigrati.

Attraverso gli occhi di Ali, il migrante che ha perso tutto

Mi chiamo Ali al-Saho. Sono un uomo che poco più di due settimane fa ha perso la moglie e i sette figli nel Mar Mediterraneo. Vengo dalla Siria. Io, mia moglie, e i miei sette figli partimmo su un barcone da Çeşme in Turchia alla volta dell’isola greca Helios. Ricordo lucidamente che faceva molto freddo quel giorno. Guardavo gli occhi di mia moglie che mi sorrideva mentre si prendeva cura del nostro ultimo figlio di venti mesi. Quanti pensieri prima della partenza. Partire per l’Europa significava per me e mia moglie una possibilità per le nostre vite, i nostri figli. In Siria si continua a massacrare e a distruggere e il futuro non promette nulla, eppure me lo dicevo quando ero lì, me lo ripetevo quasi tutti i giorni “Non partire via mare Ali. Per quanto sia difficile prova a rimanere in Siria”. Alla partenza mi dissero che il viaggio sarebbe stato breve, che sarebbe durato soltanto 15 minuti. Ho pagato ai contrabbandieri la cifra di 4.600 euro. Ci siamo imbarcati, tutti noi. Magari potrebbe sembrare una cifra esigua per qualcuno ma per me è stato un prezzo molto alto, altissimo perché in quel breve viaggio ho perso tutta la mia famiglia. In questi giorni ho riconosciuto i corpi di quattro dei miei figli, gli altri risultano scomparsi. Vivo queste ore completamente angosciato. Nessuno mi restituirà la mia famiglia. I contrabbandieri non si faranno avanti per restituirmi i soldi. Ho perso due volte. In questi giorni ci sono giornalisti che mi cercano, vogliono che rilasci dichiarazioni su quello che provo o del motivo della mia partenza. Mi sento preso in giro. Fra me e questi giornalisti che mi guardano con gli occhi pieni di pietas si è creato un rapporto sociale umano mediato dalle immagini, le foto che puntualmente mostro di me e della mia famiglia assieme quando eravamo sorridenti in Siria, che oggettivano al mondo una visione. So che avete festeggiato il Natale, faccio i miei auguri a chi lo sa festeggiare tutti i giorni. Sicuramente tra una pietanza e l’altra avete parlato anche di quelli come me. Chissà come realmente ci vedete. Chissà quante illusioni avete consumato! Chissà quante immagini le trasmissioni e giornali hanno e continuano ad esporre. Penso che in qualche aspetto la mia vita non è così distaccata dalla vostra. Ciascun aspetto delle nostra vita si fonde in un corso comune, dove l’unità della vita stessa non può più essere ristabilita. Ho fatto richiesta di asilo politico in Europa, voglio andarmene da qui. Non posso tornare indietro. Non me lo posso permettere. Troppo dolore. Eppure a chi me lo chiede in Siria dico di non partire, che forse non ne vale la pena rischiare così tanto. So che a breve i giornalisti e la televisione avranno ampiamente consumato la mia storia e non ci sarà più nulla da dire. Mi sento morire all’idea di sopravvivere alla mia famiglia e mi fa impazzire che nessuno ascolti il mio urlo. Mi aggrappo su un precipizio. Non voglio cadere giù, non voglio essere ingoiato da Scilla e Cariddi. Ho bisogno di aiuto. Ho bisogno di vivere. Ho bisogno che vi esponiate a darmi una mano. Non abbandonatemi qui. Non sono un terrorista. Io sono terrorizzato! (Lettera immaginaria scritta da Anita Likmeta)

Aylan, terrorismo e funerale dell’immagine

Ore 17:15 la fregata Zeffiro, impegnata nell’operazione Bandiere Bianche nome in codice della nota operazione di blocco navale per limitare gli sbarchi delle cosiddette carrette del mare provenienti dalle coste albanesi, identifica la Katër i Radës, una nave carica di 142 profughi, ma progettata per 9 membri d’equipaggio, in fuga dall’Albania in preda all’anarchia più totale. La nave è stata speronata nel canale d’Otranto dalla corvetta Sibilla della Marina Militare Italiana che ha contrastato ogni tentativo di approdo sulle coste italiane. La Katër i Radës, concepita come motosilurante in Unione Sovietica negli anni cinquanta e trasformata in pattugliatore costiero negli anni settanta, è stata rubata al porto di Saranda da gruppi criminali che gestivano il traffico, la tratta dei clandestini. La partenza è avvenuta a Valona il 28 marzo 1997. La Zeffiro ingiunse alla Katër i Radës di invertire la rotta ma la nave albanese decise di avanzare. Alle ore 18:45 avvenne l’urto, alle ore 19:03 minuti la nave affondò. 81 morti. 27 corpi mai ritrovati nel Mar Adriatico. 34 superstiti. Il naufragio del 1997 dell’eponima motovedetta albanese ci riporta ai giorni nostri e come vediamo nulla è cambiato, ieri come oggi. Ho scritto fiumi di parole sul tema immigrazione, emigrazione ed integrazione e ritornarci mi muove un dolore immenso inenarrabile. Voglio raccontarvi, oggi, una storia che mi ha colpito e soprattutto cambiato dentro. È la storia di un padre, un pater familias, e dei suoi tre figli maschi. Un padre, uomo di fede e ubbidiente, il quale viveva in un villaggio caduto nella più disgraziata rovina spirituale, umana, morale e intellettuale, ricevette un giorno un messaggio da un vigile condottiero il quale gli intimò di scappare via perché a breve quella popolazione non avrebbe potuto neppure piangere un lutto in quanto tutti sarebbero stati uccisi, sterminati. Il vigile condottiero disse all’uomo che c’era una via d’uscita e che doveva assolutamente seguire ogni suo consiglio. Il primo fu quello di costruire una nave abbastanza capiente da ospitare tutto ciò che giusto e buono c’era già nel villaggio, il creato. Il pater familias ubbidì. La salvezza sarebbe arrivata attraverso una nave, navigando il mare. La nave, con l’aiuto del vigile condottiero, fu presto costruita e salpò giusto in tempo. Accade l’impossibile: l’uomo constatò che il messaggero aveva ragione. Tutto venne sterminato. Un immenso mare in tempesta. Tutto si muove. Davanti alla famiglia in viaggio e al padre: il vuoto. Momenti di frastuono per le silenziose anime in preghiera. Ecco una colomba che stringe nel suo becco un ramo d’ulivo: un manifesto di gloria. Ad attendere la famiglia rifugiata e le salve beltà del creato non c’erano gli elicotteri e né i poliziotti, in bianche tute aliene per la paura dei virus, che stilano con timbri alla mano i superstiti. La famiglia trovò subito riparo. Nei giorni successivi il padre, grande uomo di fede, ebbe un collasso spirituale e si rifugiò nella solitudine e nel vino prodotto dal vigneto di questa nuova meravigliosa promessa terra. Ubriaco svenne in un sonno profondo e rimase lì fin quando uno dei tre figli maschi, Cam, lo raggiunse per riportarlo a casa. All’arrivo nel luogo dove si trovava il padre, Cam vide una figura accasciata a terra e nuda. Il giovane cadde in balia di un sentimento di violo a danno del corpo paterno dormiente e incosciente. Attonito dalla sua azione Cam, successivamente, corse a chiamare i fratelli ai quali raccontò, deridendo nel frattempo la nudità del padre, l’accaduto. Gli altri due fratelli, Sam e Yafet, subito accorsero il padre preoccupati per le sue condizioni. Arrivati vicino al luogo indicato da Cam i due fratelli, i quali avevano portato con loro una coperta, decisero di camminare all’indietro per tutelare gli occhi, quindi il vulnus ossia la ferita umana, propri e quelli del padre. Soltanto dopo averlo difeso appoggiando la coperta sul corpo, nel frattempo avevano gli occhi chiusi e il volto verso l’orizzonte, si rivolsero con riverenza, come ad un padre si deve, chiedendogli cosa fosse accaduto. Il padre, Noah, prese coscienza e si rese conto della grazia con cui Sam e Yafet avevano agito e condannò invece, nell’immediato, l’agire di Cam, l’altro figlio, il quale lo aveva scoperto nella sua nudità e quindi egli stesso aprioristicamente aveva mosso un giudizio di condanna, in primis alla sua di coscienza (la coscienza di Cam), al padre nel momento in cui ha fatto un rapporto deridente e dissimulatore dell’accaduto ai fratelli. O popolo immondo, l’altro figlio siamo noi. La coscienza di Cam è la nostra sillepsi. Ammettendo che l’immoralità, come la moralità, non sia indipendente da una situazione storica di un’epoca e di uno Stato e ammettendo che essa può dipendere sia dalle circostanze che dai punti di vista, per quanto esistano delle costanti che definiscano in maniera abbastanza chiara quale sia la condotta immorale, è chiaro che questo concetto ha subito mutazioni nel tempo. Per esempio per il feudatario, nel Medioevo, l’immoralità consisteva nel tradire il signore di cui era vassallo (fellonia), oggi questo concetto si è trasformato, per esempio, nel concetto di tradimento della propria Patria oppure legato al tradimento di un proprio impegno personale. Il nostro impegno personale è difendere il più alto valore che all’uomo è stato e viene concesso immeritatamente: la Vita. La vita accorda ma lo Stato canadese ha deciso di non accordare il permesso ad un padre, Abdullah al-Kurdi, del piccolo Aylan annegato a soli 3 anni in mare assieme al suo fratello Galib di 5 anni e la madre Rehan che di anni ne aveva 35. Il signor al-Kurdi è rientrato a Kobane per seppellire la sua famiglia e dopo aver ricevuto la notizia postuma che il Canada promuoveva l’offerta di asilo e quindi permanenza nel suolo americano l’uomo ha puntualmente rifiutato pieno nella sua dignità poiché certi uomini come il signor Abdullah la dignità non l’hanno mai ceduta e in fondo quale senso avrebbe partire verso un luogo che non ha difeso la vita, un luogo, l’America, dove finalmente si manifesta chiaramente a tutti la caduta: il fallimento del sogno americano. Ma che c’entra la storia del padre e dei suoi tre figli? Che c’entra la coscienza di Cam? Ebbene in questi giorni tutti i giornali più autorevoli del mondo, riportano l’immagine del corpo di un bambino accasciato sulla spiaggia sottolineando l’empietà che la società dello spettacolo ha riservato al piccolo Aylan non coprendolo, non difendendolo ma esponendolo come merce alla coscienza pubblica, la coscienza di Cam, del villaggio mondiale e quindi a quello stato di conosciuta unità in cui dovrebbe essere presente, ma è totalmente assente, la mente. Nella cultura omerica la riflessione interiore è per l’uomo conversazione dell’io con il θυμός (thūmós – mente), o del θυμός con l’io. Il θυμός (thūmós) è quindi la “mente”, la “coscienza” dell’uomo che si interroga, ma anche lo spirito vitale e la sede delle emozioni. Per i greci di Omero, il θυμός (thūmós – mente) è lo “spirito”, il respiro che si identifica con la coscienza, variabile e dinamica: va e viene, muta con il mutare dei sentimenti e con il mutare del pensiero. Allo stesso modo gli dèi pongono ardimento, o audacia, nel θυμός (thūmós – lo spirito) degli uomini, riempendone le φρένες ( frènes – i polmoni) “Si osservi che gli dèi “soffiano” negli uomini non solo emozioni, ma anche pensieri e propositi di natura relativamente intellettuale. Ciò è altrettanto prevedibile, poiché proprio con il θυμός e con le φρένες o, se è corretta la nostra interpretazione, con l’anima-respiro e con i polmoni, un uomo non solo sente, ma pensa e apprende.” Onians, p.81 Il θυμός (thūmós – lo spirito) è racchiuso nei polmoni (ritenuti organi dell’intelligenza) come un elemento caldo. Il termine diviene invece ψυχή (psyché – la mente) quando abbandona il corpo con l’ultimo respiro, divenendo un elemento freddo. Ma può succedere anche che θυμός (thūmós – lo spirito) e ψυχή (psyché – la mente) lascino insieme il corpo, tuttavia ψυχή (psyché – la mente) lo abbandona giungendo nell’Ade mentre θυμός (thūmós – lo spirito) viene distrutto dalla morte. La società dello spettacolo offre come sacrificio il funerale dell’immagine. Aylan con la faccia avviluppata dalla sabbia e battezzata dall’acqua del Mar Mediterraneo che gli accarezza il crine con le sue onde. “Ma l’intelligenza e l’anima intellettuale non agiscono forse per se stesse, essendo prima della sensazione e della relativa impressione? È necessario allora che ci sia un atto prima dell’impressione, poiché “per intelligenza” è la stessa cosa pensare ed essere. E sembra che l’impressione sorga, quando il pensiero si ripiega su se stesso e quando l’essere attivo nella vita dell’anima è come rinviato in senso contrario, simile all’immagine in uno specchio, che sia liscio, brillante e immobile.” (Plotino, Enneadi, I, 4, 10; traduzione di Giuseppe Faggin nell’edizione della Bompiani (Milano), 2004, pp. 110-1) E così riempiti dell’ultimo sacrificio gli abitanti del villaggio ebbero da spartire qualcosa: l’assenza della vergogna, oltre le colonne di Ercole in una iper-coscienza di Cam babelicamente si dispersero nelle loro piccole faccende autostracizzandosi dal θυμός, dai polmoni, dallo spirito dell’intelligenza. Buon viaggio Aylan. Buon viaggio cari miei connazionali. Buon viaggio a tutti voi abitanti del mare di ogni tempo, in ogni luogo. Con voi “tutto cangia, il ciel s’abbella”.  Fine delle trasmissioni. di Anita Likmeta su YOU-ng [youtube https://www.youtube.com/watch?v=jiHVDgLWpts?feature=oembed]

Storie disumane di barche piene di umani

Rieccoci. La storia si ripete. Sistematicamente. Ancora barconi. C’è una piccola differenza questa volta: nessuno parla più in maniera approfondita di queste nuove ondate di immigrazione, cioè stiamo parlando di migliaia di vite umane che si continuano ad intercettare nel Canale di Sicilia. I riflettori questa volta non sono stati puntati come in passato perché il mezzo mediatico, questa macchina, è divoratrice di ogni virtù umana, anzi è umana lei stessa poiché è una riproposizione dell’interiorità dell’autore. Gli uomini non sanno più discernere tra ciò che è giusto e ciò che è ingiusto, allora ci rapportiamo a queste macchine che più virtuose dell’umanità stessa definiscono gli applausi da dedicare al nuovo show donandosi al mondo in omaggio in cambio della sua noia sociale. Ma questa volta neppure la più immane disgrazia può soddisfare l’appetito dell’individuo dallo spirito deturpato dalla propria negligenza. La tragedia non la vivono più loro, gli altri, la tragedia epica siamo noi che rimaniamo immobili costretti nella paura ed incapaci a fare la differenza come popolo. È allarme. L’Italia è ancora sola. È sola? La comunità internazionale risponde tiepidamente alla questione e senza prendere una decisione pratica e definitiva. Dalla Libia partono nuove imbarcazioni che provengono dall’Eritrea, dalla Siria, dalla Nigeria. Angelino Alfano circa un mese fa parlava di nuove ondate, si contava una stima che andava dalle trecento alle seicento mila persone che sarebbero sbarcate. L’estate è quasi finita e queste previsioni hanno, possiamo dire, superato tali stime considerando coloro che sono riusciti a raggiungere le coste italiane e coloro a cui è toccata la sorte di giacere nel fondo del Mediterraneo. Di tutta risposta il leader dell’opposizione greco Syriza, Alexis Tsipras, candidato per la sinistra europea a presidente della Commissione Unione Europea con la lista“l’Altra Europa” commentava le parole del ministro Alfano sostenendo che “Se sono così tante le persone che vogliono passare le frontiere per venire che non glielo impedirà né Frontex, né tutte queste misure repressive. È un punto nero della politica europea, l’aver trasformato il Mediterraneo in un cimitero di anime, e loro di voler continuare le stesse politiche.” Ma io chiederei a Tsipras ma “loro chi?” fino a prova contraria la Grecia fa ancora parte della comunità europea, eppure non viene toccata nel profondo dall’argomento perché i profughi non sbarcano di certo in un paese che ormai non produce alcun bene né dal punto di vista culturale né economico. Ma ha ragione il leader dell’opposizione greca, Tsipras, a sostenere che nessuno fermerà queste nuove ondate, e questo semplicemente perché nessuno può fermare la disperazione che spinge gli immigranti a contrarre debiti pur di partire nella speranza di incontrare il futuro altrove. Il futuro altrove però si scontra con il nuovo sistema eretto per controllare i flussi migratori. Il serpente Frontex. Quest’ultimo, il cui nome tanto mi evoca una medicina contro i parassiti per gli animali, è stato fondato nel 2004 ed è diventato operativo il 3 ottobre dell’anno successivo con sede a Varsavia, in Polonia. L’Agenzia opera in tre distinti settori che corrispondono alla tipologia dei confini cioè mare, terra e aria. Sul sito della Frontex si legge che l’Agenzia “aiuta le autorità di frontiera dei diversi Paesi europei a lavorare insieme”. Ma davvero è così? Evitiamo di porci questa domanda perché gli scenari che si potrebbero aprire ci inquieterebbero, forse. Tornando alla questione iniziale ci chiediamo, come ha intenzione di agire il nostro Governo? Non si può tacere davanti a queste nuove ondate, non si può fingere dinanzi alla possibilità di nuovi disastri. Siamo alle porte dell’autunno e la probabilità di nuove partenze e di nuovi arrivi è dietro l’angolo e neppure le condizioni climatiche dei prossimi mesi arresteranno il fenomeno che come vediamo sta sempre più crescendo a causa dei conflitti politici che stanno affliggendo il Medio Oriente. Come abbiamo intenzione di muoverci? Il presidente del Consiglio Matteo Renzi in una sua intervista a Porta a Porta annunciava che ne avrebbe discusso all’incontro con il segretario generale Ban Ki Moon, in visita a Roma, e sostenendo che “In Libia bisogna mandare un inviato speciale dell’Onu, lo chiederemo formalmente come Italia”, e io mi chiedo come potrebbe chiederlo diversamente?! E aggiungendo che “Se riusciamo a portare l’agenzia dei rifugiati a intervenire sulle coste libiche forse c’è un minor rischio di intervento in mare, se Mare Nostrum non è fatta solo dalla Marina Italiana ma dall’Ue forse le cose vanno meglio”. Questa è la viva speranza che nutre il nostro Presidente del Consiglio, ma che dobbiamo subito deludere perché caro Renzi non sarà l’agenzia dei rifugiati, come lei sostiene, a frenare le nuove orde di rifugiati. Ma possibile che noi italiani siamo così basici? Possibile che la soluzione ai nostri problemi debba arrivare sempre da qualcun altro?! Ve lo ricordate nel 1996 quando cercarono di fermare un barcone che era partito dalle coste di Valona in Albania? Nessuno ricorda più quell’episodio, quella tragica notte che portò via più di cento anime sul canale di Otranto. Nessuno la fermò perché tanta era la disperazione di chi ormai aveva già contratto debiti e non poteva più tornare indietro. E se lo dicevano, chi proviene da queste storie ne è a conoscenza, che “o la morte o mai più indietro” e così è stato per una moltitudine di disperati. Ecco io credo che stiamo parlando dello stesso dolore, degli stessi barconi e delle stesse storie disumane di barche piene di umani. Ma non possiamo farci trovare impreparati anche questa volta. Come paese interessato, in quanto faro che si estende sul Mediterraneo, lo stivale che sta stretto ormai a tutti, dobbiamo cercare di comprendere come agire e quali leggi noi come paese europeo e legiferante dobbiamo imporre invece di subire come dei camerieri che raccolgono le cicche di gomma per terra ai clienti maleducati. Renzi deve prendere posizione perché non possiamo aspettare che la comunità europea nutra la pietas nei nostri confronti come se ci dovesse un favore. Non accetteremo come risposta dalle parti del governo europeo un atteggiamento omertoso. Qualcuno dovrebbe dire alla Comunità Europea che i fondi non bastano; lo sostiene il Cir, Consiglio italiano per i rifugiati, il quale gestisce il centro Sprar a Verona, che ospita per ora 3.500 posti in tutto il paese e la cui disponibilità quest’anno si è allargata a 13.000 posti, ai quali si potrebbero aggiungere altri 7.000 in caso di estrema emergenza, ma nonostante ciò il direttore del centro integrazione Christopher Hein conferma che i posti disponibili e finanziati sono già occupati. L’Europa si chiede come vivono questi rifugiati in questi campi disgraziati? Qualcuno racconta la condizione in cui questi esseri umani vengono trattati in questi centri dove il primo nemico è la noia delle giornate svuotate da ogni senso costruttivo? Questi esseri che aspettano mesi e mesi il tanto desiderato “status di rifugiati”. In teoria la permanenza in un centro d’accoglienza non dovrebbe durare più di 35 giorni. Infine questi rifugiati al momento del ritiro del documento o permesso di soggiorno a scadenza spesso finiscono per strada e non ricevono alcun aiuto dallo Stato. Questa realtà delle cose finisce per sovvenzionare la microcriminalità poiché un individuo che non si trova nelle migliori condizioni umane di certo per sopravvivere alla nostra realtà di non più civiltà si predispone umanamente a marchiare la sua, quella di profugo, non più identità. Noi non vogliamo solo una soluzione che preveda di parcheggiare gli immigranti trasformando le nostre città in campi profughi, ma vogliamo che si trovi una risposta concreta e che i governi siano cooperanti tra loro, ma soprattutto caro Renzi, lei che rappresenta la voce inascoltata del governo italiano nel mondo, provi a gridare un po’ di più riportando l’urlo del suo popolo che sta declamando di essere in crisi e di essere disperato per un posto di lavoro. Questo “urlo” deriva anche dal fatto che gli italiani, da sempre ospitali e attenti al dolore “degli altri”, proprio per la compassione che nutrono nel cuore per questa gente senza poter aiutarla, chiedono che vengano fermate le ingiustizie. Questa richiesta diretta nasce dall’esigenza di non permettere che un essere umano viva nelle tenebre della illegalità e quindi nel disagio. Caro Renzi, io Anita Likmeta, ex profuga di guerra, le chiedo personalmente di dare una risposta concreta sul da farsi e visto che nelle sue varie interviste lei stesso si è proposto come salvatore dell’Italia ecco, direi, è arrivato il suo momento: “SALVACI”. di Anita Likmeta su The Huffington Post