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L'incontro tra Giorgia Meloni e Edi Rama in Albania

Italia Albania: Let’s get physical!

La politica è anche fisicità. E’ un’ovvietà per cui gli esempi si sprecano, ma giusto per farne un paio: la preoccupazione dei democratici in America oggi è che Biden non regga il confronto con Trump perché sugli schermi appare più vecchio e più debole del suo avversario. Oppure, per non dare l’idea sbagliata che si tratti solo di una questione di prestanza maschile, si pensi all’acconciatura impeccabile della Thatcher: non c’era dubbio che una con quei capelli avrebbe tenuto i conti pubblici in ordine. Così, sono trascorsi alcuni giorni da quando la Presidente del Consiglio Meloni si è recata in visita amichevole in Albania, invitata dal Premier Edi Rama. Un incontro informale appunto, come fra due amici qualsiasi. Così amici che il Presidente le ha ricordato del conto da pagare dei turisti italiani e lei, la grande Sorella d’Albania, è corsa ai ripari chiamando l’ambasciata italiana affinché saldasse il conto dei furbetti. E, ancora una volta, l’elemento della fisicità in quell’incontro, saltava agli occhi: il gigante e le bambina, per citare una vecchia canzone. Se ne è accorto anche Rama, che ha cercato di mitigare la disparità delle foto, in un’intervista a Telese: “Quando la Meloni parla sa essere un gigante”, aggiungendo poi che al giorno d’oggi destra e sinistra non sono più categorie con le quali si possa interpretare la realtà, motivo per cui è perfettamente plausibile un asse Italia Albania, nonostante Rama sia socialista e la Meloni un’ex missina. Il guadagno derivante dall’incontro è stato sicuramente reciproco: la Meloni ha ottenuto il plauso pubblico di un leader socialista, la qual cosa, nella narrazione rivolta agli italiani, sta a significare che tutto quel ceto medio che si sente a disagio per il post-fascismo della Premier farà meglio a mettersi l’animo in pace. Rama, da parte sua, sa che l’Italia è uno dei primi partner commerciali dell’Albania e, di certo, il primo paese europeo che sarebbe disposto a validare all’Albania il passaporto per entrare nell’Unione Europea. Questo legame trova proprio nell’informalità dell’incontro un motivo ulteriore di sottolineatura. Come a dire: non abbiamo bisogno di fare le cose con troppa ufficialità, in fondo siamo come quei parenti che ogni tanto passano a farsi una visita. Nel frattempo però Germania e Francia si allineano sul fronte migranti e rafforzano i loro rapporti istituzionali, posizionandosi nuovamente come paesi forti alla guida dell’Europa. La Meloni avrebbe forse potuto anticiparli e fare una mossa da maestra, come quando incontrò a Roma Macron. Oggi quella mossa le avrebbe garantito una certa compattezza di forma ma soprattutto l’avrebbe aiutata ad essere vista, da ovest, come una leader affidabile per il futuro. Così, al netto della felicità che provo (da italiana-albanese) nel vedere che le mie due patrie vanno d’amore e d’accordo, ho come il dubbio (da albanese-italiana) che non basterà, quando andremo a parlare in Europa delle questioni scottanti che sono sotto gli occhi di tutti, minacciare la troika con lo spauracchio del cugino di due metri, che, come dicevamo da bambini, “con un pugno ti manda in cielo”.

Grazie a tutti gli italiani di buona volontà

Io non so come andranno queste elezioni, ma voglio, sin da subito, cogliere l’occasione per ringraziare un po’ di persone. Si dice che nessuno si salva da solo e mai come oggi per me questo è vero. Di questi tempi non si fa che parlare di come è cambiata l’Italia. Non si fa che parlare di questo Paese, che, almeno stando ai giornali, è diventato intollerante e incapace di reagire ai problemi che ogni giorno lo affliggono. Eppure, quando nel 1997, arrivai in Italia, avevo dieci anni e i problemi erano già tutti lì. A quei tempi, ad essere visti con sospetto, non erano gli africani, ma gli albanesi. Ricordo perfettamente la paura che avevo di prendere il telecomando e aprire quella finestra sul mondo: nel discorso pubblico, noi albanesi eravamo i cattivi, gente senza scrupoli che vendeva figli e sorelle. Ladri e prostitute. Mi ricordo ancora quando un professoressa, al Liceo Classico, mi disse che noi albanesi eravamo un popolo selvaggio, del tutto irrecuperabile. Ma per quanto difficili fossero quegli anni, per me che ero una bambina, nei miei ricordi ho lasciato spazio solo alle persone di buona volontà. Ricordo ad esempio quando, durante l’ora di religione, lasciavo la classe per prendere lezioni di italiano da Don Cleto, il parroco di un paesino in provincia di Pescara. Don Cleto era un uomo perbene e capiva il mio disagio: aveva sempre un sorriso da regalare e delle buone speranze che mi riempivano il cuore. Mi donava i libri che aveva nella parrocchia: “prendili tu, hanno bisogno di essere letti”. E poi la bidella, una signora bionda, minuta,  che ogni mattina mi regalava la merenda. E una ragazza di Villanova che si era laureata in Lingue e Letteratura inglese: mi regalò un’enciclopedia. Poi, con mia madre, ci trasferimmo a Cepagatti (che si chiama così perché fu terra di mercanti e, quindi, dal latino captus pagus, passando per il volgare Ce pagate). La prima cosa che feci lì, a Cepagatti, fu visitare la Chiesa di San Rocco e Santa Lucia, dove conobbi Don Agostino. Un parroco taciturno, un uomo di pochissime parole e di tantissime buone azioni. Si spese per la mia famiglia con ogni mezzo. A casa nostra, così, non mancava mai niente, perché il parroco e le suore si ricordavano sempre di noi. E poi la signora Lara, una imprenditrice che aveva una fabbrica che produceva camicie, dove mia madre trovò lavoro e amicizia. E infine le signore Jolanda, Lea, Franca e suo marito Francesco che avevano una gioielleria. E l’assistente sociale Francesca. Queste persone furono per noi come un salvagente. Ci tennero a galla. Poi sono cresciuta, e tra mille avversità ho conseguito la maturità classica. Mi sono trasferita a Roma per continuare gli studi e anche qui ho avuto la fortuna di vivere e crescere grazie alle cure delle suore dell’istituto Mater Mundi che si trovava sul Casaletto. Ecco, io oggi voglio ringraziare tutte queste persone. Questi uomini e queste donne semplici e vitali. Loro non lo sanno, e forse nemmeno si ricordano di me e della mia famiglia, ma io voglio ringraziarli per non avermi lasciata in mezzo a una strada. Voglio ringraziarli per l’amore e per la cura. E voglio dire a loro che se oggi sono candidata a queste elezioni è perché anch’io volevo dare il mio contributo al Paese che mi ha accolto. E testimoniare, con la mia presenza, tutto il loro amore disinteressato e la bellezza del loro cuore.

Lettera a tutte le comunità albanesi in Italia e in Europa

A tutte le comunità della diaspora albanese in Italia, Il recente vertice tra i 27 Stati membri dell’Unione europea e i sei Paesi dei Balcani occidentali extra-europei si è concluso con un nulla di fatto. La Bulgaria non ha ritirato il veto sulla ripresa dei negoziati di adesione con la Macedonia del Nord gettando così una pesante ombra sul percorso dell’Albania, che è legato a quello di Skopje. Per l’ennesima volta, sulla questione, non è stata raggiunta l’unanimità necessaria. L’Europa, insomma, ancora una volta, non ha tenuto nella dovuta considerazione l’Albania e il popolo albanese. Per quanto siamo consapevoli di rappresentare una piccola nazione, sia in termini territoriali che demografici, riteniamo che l’Europa non possa e non debba dimenticarsi di noi: la nostra stessa storia, il modello di convivenza interreligioso che rappresentiamo, gli sforzi enormi di democratizzazione dopo la triste parentesi della dittatura comunista, sono una patrimonio che dovrebbe essere tenuto nella massima considerazione da un’Europa che, proprio oggi, cerca di affermare i suoi valori fondanti rispetto a un vasto mondo che li mette violentemente in discussione. Tuttavia, noi albanesi non possiamo perderci d’animo: non siamo figli illegittimi di questo Continente, semmai, abbiamo fratelli distratti. Noi albanesi, come e più di altri popoli, conosciamo il prezzo che si paga per la libertà e non faremo un passo indietro sulla strada che abbiamo intrapreso con coraggio e determinazione. Da questo punto di vista, trovo rincuoranti e piene di speranza le parole del Presidente Mario Draghi, che, a margine del recente Consiglio Europeo, ha dichiarato con fermezza il suo appoggio alla causa albanese: “noi vogliamo che l’Albania venga presa e vada avanti da sola, cioè senza essere più bloccata dalle differenze, dalle divisioni che ci sono sulla Macedonia del Nord”. Come su altre questioni dirimenti, dobbiamo dunque sperare che l’autorevolezza di Mario Draghi, possa giocare un ruolo decisivo anche su questa questione. Oggi, come cittadini albanesi sparsi in varie comunità in Europa e nel mondo, dobbiamo dunque farci conoscere meglio, spiegare meglio le nostre ragioni, di nuovo e da capo. Dobbiamo rivendicare il nostro pieno diritto a sedere nel Consiglio Europeo. In questa fase storica ognuno di noi può contribuire come singolo e come comunità a fare la differenza ovunque si trovi, in Italia come in ogni altro paese europeo. È mia ferma convinzione che se noi albanesi, intesi come individui e come comunità, non parteciperemo attivamente per sostenere l’adesione dell’Albania all’Europa, faremo l’imperdonabile errore di abbandonare i Balcani al disegno egemonico dell’impero russo e di quello ottomano. Noi albanesi sappiamo bene cosa significherebbe per le nostre vite: lo abbiamo già vissuto per troppo tempo. Non vogliamo riviverlo di nuovo. Rroftë Shqipëria! 

Il mondo del lavoro e i giovani

di Zeralda Daja La domanda, del tutto retorica, che mi pongo in questo articolo è: ma esiste ancora il famoso “posto fisso” dopo l’università o è solo un mito perpetuato dalle vecchie generazioni? Per i giovani di oggi non è semplice trovare lavoro: cv spediti ovunque, corsi di formazioni gratuiti ma che non vengono valorizzati in un colloquio, master costosi, magistrali impegnative e di lunga durata. Ai miei tempi, nella buona società, non si incontrava mai nessuno che lavorasse per vivere. Era considerato sconveniente. Oscar Wilde La società di oggi non ci aiuta. Mi ritrovo, nella vita di tutti i giorni, ad affrontare contesti in cui vita professionale, vita privata e vita universitaria non riescono a conciliarsi, anche se l’impegno dello studente-lavoratore c’è totale e costante. Perché, per entrare nel mondo del lavoro, oggi  una laurea non basta più. Il ritornello ottimistico ripetuto dai genitori (“Studia, finisci l’università che poi riuscirai a trovare il tuo mestiere”) si scontra con la dura realtà del mondo del lavoro per come l’ho conosciuto. Ho 24 anni, una laurea triennale in scienze umanistiche, una laurea magistrale in Pedagogia. Ho fatto lavoretti di ogni tipo: babysitter, cameriera, ripetizioni, addetta alle pulizie. Sono mamma di una bambina di 2 anni e mezzo e, quando invio un cv, la prima domanda che mi viene fatta è: “perché non ha esperienze lavorative fisse?”. Oppure: “Perché si è laureata con un anno di ritardo?”. Leggiamo annunci di lavoro dove vengono richieste figure Junior con un minimo di esperienza, oppure laureati con 2 anni di esperienze lavorative in azienda, e tutto questo senza contare il lato umano, personale, familiare di una persona. Nel frattempo, la società ci impone aspettative contraddittorie che non possiamo essere in grado di soddisfare: maternità non troppo prolungate, ma neanche troppo anticipate, sennò il mondo del lavoro non ci aspetta. Garanzie per l’acquisto di case agli under 35,  ma retribuzioni che non ci permettono di affrontare un mutuo. Per non parlare anche dei contratti di lavoro: contratti a chiamata sottopagati, contratti di apprendistato con 300-400 euro di retribuzione, contratti di tirocinio o stage dove lavori 8h come dipendente ma ti vengono retribuiti soltanto il rimborso delle spese di mensa e benzina. Le università ci impongono di svolgere tirocini gratuiti correlati alle tesi di laurea, senza contare che dietro quelle aule universitarie ci sono ragazzi che lavorano, che hanno creato famiglie, che magari hanno problemi di salute, o economici,  e che, in sostanza, non si possono permettere di lavorare “gratis”. L’università sono fondate sul presupposto che nelle loro sedi ci siano ragazzi che nella vita fanno solo gli studenti. La società invece pretende che a 25 anni dobbiamo già avere una carriera in ascesa e pensare a costruirci una famiglia. La verità è che ci troviamo di fronte a un paradosso sociale in cui di mezzo ci sono le nostre vite.

A lezione dall’Albania, subito in soccorso del popolo afghano

Chi ha conosciuto questo mondo e, con fatica, se ne è liberato, oggi manda aerei in aiuto a Kabul. Quello che sta accadendo in questi giorni a Kabul è un genocidio in piena regola e sta avvenendo sotto i nostri occhi. Uomini, donne, anziani, adolescenti e bambini costretti a scappare senza meta per cercare rifugio dalle persecuzioni dei talebani che hanno conquistato Kabul. Non è un caso che questo avvenga ora; per chi non è a digiuno di storia contemporanea sa bene che la scelta di Biden di ritirare le truppe dal suolo afgano potrebbe essere pura strategia rispetto a quello che accadrà nei prossimi mesi, in un delinearsi di nuovi fronti sulla scacchiera geopolitica mondiale. Ma mentre il mondo intero rimane sgomento per i messaggi video e per le foto che ci arrivano da là, fa notizia la scelta del Premier dell’Albania, Edi Rama, di inviare aerei in Afghanistan per soccorrere la popolazione civile e offrire così un rifugio momentaneo a chi fugge la persecuzione. Il premier albanese espone la sua scelta in un lungo post su Facebook in cui spiega le ragioni che lo hanno spinto ad agire immediatamente. Ha ricordato che in Albania trovarono rifugio gli ebrei e che nessuna di quelle duemila persone che fuggirono dal regime di Hitler venne consegnata ai nazisti. In questo modo, oltre a dare una lezione all’Occidente, Edi Rama, leader di una giovane democrazia in un paese in larga parte musulmano, ha preso anche una posizione chiara che suona come monito all’ondivago e contraddittorio ′sentiment′ diffuso nelle democrazie occidentali rispetto a quanto sta succedendo in Afghanistan: senza se e senza ma, i talebani sono i nazisti del nuovo millennio.  Mi rincuora sapere che questa volta la mia Patria natia abbia saputo dimostrare all’Occidente cosa significa mettersi in gioco al di là delle trame e degli interessi politico-economici. Mi auguro che nelle prossime ore anche la mia Patria adottiva dimostri di essere all’altezza della propria Costituzione democratica facendosi parte attiva nel soccorso ai civili afgani. E mi scuso se la dico senza tanti giri di parole, ma la differenza fra due culture di morte come quella nazista e quella talebana sta solo nel fatto che per i nazisti si trattava di affermare la superiorità di una razza sulle altre, per i talebani si tratta di affermare una superiorità di genere: il vero obiettivo dei talebani è un patriarcato folle e perverso, volto all’annientamento morale e fisico della donna. La mercificazione e la reificazione delle donne è un fatto ancestrale proprio di molte culture nel mondo. Queste abitudini inveterate non si possono, evidentemente, mettere in discussione in Afghanistan. Quelli che oggi scappano da questa terra, quelli che si aggrappano alle ali degli aerei, sono uomini e donne che si sono compromessi con gli ideali di uguaglianza occidentali e che non sono più disposti a subire una cultura criminale che accetta di far sposare bambine di 8 anni per poi seppellirle il giorno dopo la prima notte di nozze. Mi torna in mente un film albanese che mi colpì molto (“14 vjeç dhëndër”, 14 anni sposo): una famiglia  benestante, almeno rispetto alla povertà collettiva, decide di far sposare il loro unico figlio di 14 anni con una fanciulla di 20 anni, forte e robusta ma di famiglia poverissima, affinché faccia da serva in casa. La ragazza si oppone come può, scappando e salendo sul tetto di casa, minacciando il suicidio. La madre la supplica di sposarsi per dare la possibilità alle sorelle di crescere con qualche mezzo economico in più. Mossa dal senso di colpa, la giovane Marigo cede. C’è una scena del film che narra perfettamente la condizione delle donne nell’Albania rurale di quegli anni: Marigo, come tante altre donne, di ritorno dalla campagna, porta sulle spalle un carico di legna, come un mulo da soma. Due uomini, intenti a prendere il caffè, osservano con compiacimento il ritorno delle donne dai campi. “Siamo gli uomini più fortunati! Al mondo non esistono donne come le nostre”, dice uno. Ma l’altro gli risponde: “No amico mio, non sono loro le migliori, i migliori siamo noi: servirci è il minimo che possono fare”. Chi ha conosciuto questo mondo e, con fatica, se ne è liberato, oggi sta mandando gli aerei in soccorso a Kabul.

30 anni fa. Intervista alla madre: perché salisti sulla Vlora lasciandomi in Albania?

L’8 agosto 1991 ai Durazzo in ventimila diedero l’assalto a un’imbarcazione e costrinsero il capitano a salpare per l’Italia, “Lamerica”. La piccola Anita restò, Ervehe partì con gli altri due figli. L’8 agosto del 1991, a 376,18 km da Bari, partì una nave, la Vlora, con a bordo il più grande carico di esseri umani della storia: oltre 20mila persone. Fuggivano dall’Albania, il Paese che li aveva tenuti prigionieri per quasi mezzo secolo. Oggi ricorre il trentennale del più grande esodo che l’Europa abbia conosciuto negli ultimi cinquant’anni. Mia madre Ervehe era uno di quegli esseri umani che si imbarcarono a Durazzo per trovare libertà in Italia. Ho chiesto a lei di parlarmi di quel giorno perché, finora, non ne abbiamo mai parlato. Mamma, cosa ti spinse a partire?Ricordo i giorni prima della partenza, la città era soffocata dal caldo. Tutti lo dicevano, tutti ne parlavano: stava per succedere qualcosa di straordinario. Dicevano che sarebbe partita una grande nave ma che sarebbe stato difficile, se non impossibile, trovare posto. Così l’8 agosto ci mettemmo in fila alle prime ore dell’alba. Aspettavamo di vederla arrivare in porto. Io avevo lasciato casa, così, su due piedi, dopo aver chiuso la porta a due mandate. Avevo preparato qualcosa da mangiare per tuo fratello, che allora aveva 9 mesi e per Emy, che aveva 4 anni: non avevo altro. Quando arrivò il momento di salire, tenevo i bambini attaccati a me, in modo che non venissero schiacciati dalla calca. Ricordo che a un certo punto chiusero la strada che immetteva al porto. Noi però ce l’avevamo fatta, eravamo dentro. Eravamo migliaia. Altrettanti però erano rimasti fuori, premevano agli sbarramenti. Quelli della milizia cominciarono a sparare in aria per spaventare la folla, poi persero il controllo della situazione: ci furono morti e feriti. Io non parlavo, guardavo per terra, tenevo Flori al seno e Emy per mano. Seguivamo il flusso di quella marea umana. Eravamo come un torrente in piena. Perché eri sola?Sapevo che era l’ultima possibilità di partire per l’Italia, che non ci sarebbero state altre navi. Lo sapevano tutti. Lo urlavano con i megafoni. Avevamo paura di rimanere bloccati per sempre in Albania, che non ci sarebbero state altre occasioni. Nessuno voleva restare nell’inferno in cui avevamo vissuto per anni, anche a costo di rimetterci la vita. Com’è stato il viaggio?Ricordo che non c’era un centimetro per muoversi. Eravamo appiccicati. Non si respirava. Undici ore senza mangiare e senza bere. La gente si faceva i bisogni addosso. C’era un odore terribile: chi vomitava, chi piangeva. Ma dovevo restare in piedi e proteggere i tuoi fratelli, perché la calca non li schiacciasse. Ricordo che c’erano uomini appesi alle ringhiere della nave, che si tenevano attaccati mentre la nave partiva. Hanno resistito quanto hanno potuto, poi sono caduti in mare. Durante la traversata anche chi sveniva, chi perdeva conoscenza, veniva buttato a mare. Era una di quelle situazioni in cui gli uomini si mostrano per quello che sono davvero. Un uomo mi dette un po’ di caffé con lo zucchero che mi aiutò a restare in piedi fino a Bari: Dio lo benedica. Sono felice, a mia volta, di aver dato un sorso di latte dal biberon che avevo preparato per Flori a una bambina che piangeva in braccio a sua madre. Per il resto, sapevo solo che dovevo farmi forza. Ripetermi che sarebbe andato tutto bene e che prima o poi avremmo raggiunto la meta. Non volevo morire in mare. Volevo vivere. Perché non hai portato anche me?Eri dai nonni, i miei genitori. Anche volendo, non avrei fatto in tempo a venire a prenderti. La nave partiva, era l’ultima nave. Mi dicevo che un giorno sarei tornata a riprenderti. Non c’è stato istante in cui non ti abbia pensato. Ho pianto per mesi, ogni giorno, per questo. Ogni giorno mi chiedevo se avevi da mangiare, se stavi bene. Non riesco a parlare di questo. Rifaresti di nuovo quella scelta?Non lo so. È tutto cambiato, non riesco a giudicare oggi quello che è successo quel giorno. Sono cambiata anch’io. So che eravamo stati violentati nell’anima, nella dignità, nella nostra stessa identità. È vero che non avevamo mai viaggiato e visto cosa ci fosse fuori dall’Albania, ma nel cuore sapevamo tutti che fuori doveva esserci per forza qualcosa di meglio. La dittatura ti porta via l’anima: questo lo avevamo sperimentato tutti sulla nostra pelle. Hai detto che durante il viaggio molte persone vennero gettate in mare. Lo ricordo troppo bene. Zia Dana, di ritorno dal ginnasio, faceva fatica a respirare. I nonni la raggiunsero sull’uscio di casa. Si sedettero sulle scale. Zia piangeva a dirotto e diceva a loro di farsi forti. Poi ci diede la terribile notizia che tu, Emarilda e Flori eravate morti in mare. Ricordo che i nonni restarono in silenzio, non dissero una parola. Io invece scappai correndo disperata. Poi, settimane dopo, sempre la zia Dana ci disse che era riuscita a mettersi in contatto con te. Non ci credeva. Te lo aveva chiesto cento volte: “Ela, ma sei davvero tu?”. Era vero, le avevi detto: una donna con due bambini erano morti in mare, ma non eravate voi. Mamma, ma tu di cosa avevi paura su quella nave?Non avevo paura. In cuor mio sentivo che ce l’avrei fatta. Avevo fede. Come si dice? La fede è certezza di cose che si sperano, dimostrazione di cose che non si vedono.

Ritorno a Tirana, come una ragazzina che ritrovi donna

L’Albania si avvia verso una nuova era della sua storia e in questo tragitto c’è bisogno di tutti. Tornare nella terra in cui sono nata, dopo lunghi anni, è stata per me una esperienza di forte impatto, uno scontro di sensazioni con le quali, appena rientrata in Italia, devo fare i conti. Tirana non è più la città che ricordavo: come una ragazzina che ritrovi donna, Tirana ha cambiato faccia, è cresciuta in altezza, quasi non la riconoscevo. Eppure, accanto ai nuovi grattacieli e al grande centro commerciale Toptani, qua e là resistono residui dell’urbanistica hoxhaista. Come a ricordarmi l’infanzia difficile da cui quella ragazzina è scampata. Camminando per le strade della capitale ho incontrato i volti solcati dalle rughe di una vita che non è stata mai facile, ma anche la freschezza di una gioventù cha ha voglia di mettersi in gioco, con una luce negli occhi, con una vitalità che mi ricorda quella di certi film italiani degli anni sessanta. E nonostante l’occidentalismo possa far paura, perché ha investito la società come un tornado, senza quasi lasciare il tempo agli albanesi di capire quello che stava succedendo, è tuttavia palpabile la disponibilità a mettersi in gioco, a rischiarsi il futuro in un mondo difficile ma finalmente aperto a infinite possibilità. Piazza Skanderberg, oggi tutta area pedonale, comunica una grande apertura: i bambini giocano, i musicisti di strada ti regalano ad ogni angolo della piazza un sorriso e suonano il classico repertorio di musica “arbëreshë”. Camminando in mezzo alla piazza, le immagini memoriali di come l’avevo conosciuta si sovrappongono a quelle che mi trovo davanti agli occhi, e mentre pranzo in uno dei ristoranti più modaioli della capitale, il mio sguardo sconfina oltre le grandi vetrate del locale. Il mio commensale, Dastid Miluka, considerato uno dei più grandi pittori albanesi contemporanei, mi indica la statua dell’eroe nazionale e subito dopo mi indica il chiosco dove i cittadini fanno la fila per vaccinarsi, ricordandomi che proprio lì, al posto di quel presidio per la salute pubblica, spadroneggiava un tempo quella statua di Enver Hoxha che 30 anni prima, proprio lui e i suoi amici studenti, buttarono giù e trascinarono via. La vittoria alle elezioni del leader del Partito Socialista Edi Rama è sulla bocca di tutti quelli che incontro. C’è chi ne è contento chi no. Alla grossa, i cittadini di Tirana non si mostrano entusiasti, mentre chi abita nelle periferie, soprattutto i contadini con cui ho avuto modo di parlare, lo adorano: è decisamente il loro uomo. A differenza delle democrazie europee insomma, il centrosinistra qui ancora non pare coincidere con le ZTL. La cosa straordinaria di Tirana, lo capisco subito, è che il potere è davvero a due strette di mano: i politici, o chi lavora per loro, non hanno la spocchia di chi è arrivato. Gli albanesi sono un popolo ospitale, non sono mai riuscita a pagare un caffé. L’ospite è sacro in Albania, e un ospite, mi rendo conto, è quello che sono. E mentre faccio la turista da un angolo all’altro della città, da uno studio televisivo all’altro, noto i volti delle persone. Quelli sì non sono granché cambiati. Accetto l’invito del rabbino dell’Albania Yisroel Finman, al centro cinematografico Pietro Marubbi, pittore italiano naturalizzato albanese e sostenitore di Garibaldi, che venne coinvolto durante i moti risorgimentali nell’omicidio del sindaco di Piacenza costringendolo così, nel 1856, a emigrare nell’Albania dell’impero ottomano. Il centro cinematografico Marubbi ha un giardino meraviglioso, pieno di opere di artisti contemporanei albanesi. Con il rabbino rimaniamo seduti a parlare dell’Albania degli ultimi anni, dei movimenti studenteschi, degli ebrei che vennero salvati dal popolo albanese, del progetto di costruire insieme un Albanians National Museum of Holocaust e, più in generale, di questa fragile democrazia che ci vede tutti coinvolti. Inizia a pioviccicare e lasciamo il centro cinematografico e il suo meraviglioso giardino che si apre accanto al Ministero delle Finanze e del Commercio. Una strada provinciale ci separa dai nuovi palazzi costruiti negli ultimi anni. Ammassi di cemento che fuoriescono dalla terra e che i cittadini albanesi chiamano case. Non c’è equilibrio architettonico, sono palazzi partoriti in piena crescita economica del paese: ricordano le speculazioni edilizie dell’Italia del boom. Palazzi senza una identità, senza storia: grigi e stretti, gli uni agli altri, come a tentare di non cadere nonostante sembrino ancora nuovi. Per strada i cittadini vanno in bicicletta, altri in macchine dal motore truccato, con  il volume dello stereo a mille. Le persone qui si affrettano per andare da qualche parte, sembrano tutte in ritardo. Cerco di scrutare i loro volti, nei loro occhi leggo ancora smarrimento e un po’ di tristezza. Una giovane donna mi viene incontro, è ben vestita, con la sua 24 ore sotto braccio. Ha uno sguardo sospettoso. Cammina su tacchi a spillo altissimi. In punta di piedi al suo dolore, penso. E infine l’incontro con Blendi Fevziu, il conduttore TV più noto in Albania che qui paragonano a Bruno Vespa. Un uomo molto gentile. Fevziu, negli studi di RTVKlan, mi mostra la statua di mio zio, il pittore Ibrahim Kodra, migrante a sua volta nell’epoca del re Zogu e morto a Milano nel 2006, che è riuscito a salvare. E così, davanti a quella statua che riproduce le immagini dei suoi quadri, rivedo la mia storia. Perché l’arte, come la filosofia, anticipa la vita e getta la sua rete di senso sempre un po’ più in là, in un’Albania fantastica ancora tutta da inventarsi. Ma Tirana è una capitale in grande espansione, il lavoro di questi ultimi 30 anni è visibile nelle strade, negli edifici, nei parchi, nei locali alla moda. Camminare per le vie di questa città non fa più paura. Anzi, si ha come la percezione di essere protetti. L’Albania si avvia verso una nuova era della sua storia e in questo tragitto c’è bisogno di tutti. Negli occhi dei miei connazionali in questi giorni ho letto voglia di vivere, desiderio di ripartire, di scoprirsi. Nei volti dei cittadini albanesi ho letto tanti valori, ma soprattutto ho visto la partecipazione attiva alle tematiche politiche: la partecipazione dei cittadini comuni alle discussioni in ogni bar, mi ha commosso. I giovani albanesi sono pieni di talento, sono gentili, aperti al futuro e alle potenziali connessioni culturali. In Albania, in questi giorni, non mi è mai capitato di ascoltare una parola denigratoria o offensiva. Qui il razzismo non è ancora di casa. Per il resto, in questo viaggio di ritorno nella mia patria di origine, la sensazione più buffa che ho provato riguarda proprio la constatazione di quanto il popolo  albanese sia simile a quello italiano. Simile, certo, ma solo ancora un po’ più giovane. Sapere di poter cambiare le cose: questa è la sensazione che riassume tutto il mio viaggio. Il terzo mandato di Rama può suggellare questa nuova ripartenza se l’Europa finalmente comprendesse che è necessario far ripartire i negoziati di adesione il prima possibile. Perché c’è una forza nel popolo albanese che ancora ti coinvolge pienamente e ti trascina a ripensarti come individuo nella storia, come cittadino nel mondo, come essere umano in viaggio. Questa energia io credo possa davvero servire all’Europa e all’Italia: il paese di fronte adesso è ancora più vicino.

L’Albania che verrà

L’augurio è che chi si troverà a guidare il paese dopo le elezioni abbia la forza di guardare un passo più in là dell’urgenza del momento. A pochi giorni dalle elezioni in Albania, voglio tornare sulle questioni balcaniche, perché ancora una volta mi pare quello lo scacchiere geopolitico sul quale l’Europa potrà giocare una partita decisiva. Dipenderà infatti dalla capacità di inclusione dell’Europa rispetto a quest’area, europea a tutti gli effetti, il futuro stesso dell’Unione e la sua capacità di fungere da hub fra oriente e occidente, e fra nord e sud del mondo. Intanto, colpisce la vittoria alle elezioni in Kosovo di Vjosa Osmani, che succede Hashim Thaçi, dimessosi dopo le accuse del Tribunale dell’Aia per crimini di guerra e crimini contro l’umanità, perché per la seconda volta, dopo Antifefe Jahjaga, in quest’area balcanica, considerata da sempre paese satellite dell’Albania, a vincere è una donna. Un esito dal forte valore simbolico: da una parte il riscatto rispetto a quel terribile e ancora troppo recente passato di stupri etnici che ha devastato la vita di migliaia di donne kosovare, dall’altra il riconoscimento che sono proprio le donne (e i giovani) la risorsa più importante per il futuro del paese. Questo chiaro segno di svolta non potrà non pesare, in qualche modo, anche sull’agenda del governo che uscirà dalle urne albanesi la prossima settimana. Perché continuo a pensare a quella storia che racconta Ismail Kadaré, della cittadina assediata dall’esercito turco, che resiste grazie a un crudele espediente: un cavallo lasciato senz’acqua per lunghi giorni e infine liberato svela ai cittadini una fonte nascosta d’acqua che consentirà loro di sopravvivere. Se penso a questa storia come a una metafora della condizione albanese, vedo i quarant’anni di regime hoxhaista come il giogo che ha reso il popolo albanese assetato quanto il cavallo di Kadaré: dopo lunghi anni di transizione si tratta dunque, ancora adesso, di scovare le fonti d’acqua nascoste nel paese. Con un’età media minore di cinque anni rispetto alla media europea, l’Albania che uscirà dalle urne fra due settimane dovrà fare i conti col fatto che sono proprio i giovani e le donne questa risorsa nascosta da cui potrà scaturire lo sviluppo economico dei prossimi anni: riconoscere la loro centralità, da molti punti di vista, significa peraltro riconoscere la necessità di quel cambio di paradigma, nell’esercizio dei poteri, che coincide esattamente con le priorità poste dell’EU per portare a termine l’acquis. Il governo che uscirà dalle urne ha, di fatto, questo obiettivo a portata di mano, ma potrà raggiungerlo soltanto se saprà dimostrare, sin da subito, di essersi sbarazzato degli ultimi cascami di quella sfiducia verso le libertà, eredità di ogni regime, che altro non è se non una residua sfiducia nel popolo e quindi nel paese stesso. Questa volta, dunque, la sfida fra Rama e Basha è davvero decisiva non solo perché avviene a ridosso di una elezione storica come quella in Kosovo, ma soprattutto perché, chi vincerà, dovrà rispondere a una precisa chiamata di portata epocale. Se infatti la pandemia rappresenta in qualche modo l’anno zero di una nuova èra, a chi si aggiudicherà il governo del Paese spetterà l’opportunità di scegliere da che parte della storia si debba guardare. Restando ancora nell’ambito descritto dalla metafora di Kadaré, il reperimento delle nuove risorse avverrà tanto prima quanto più il paese sarà lasciato libero di esprimere le sue potenzialità, proprio a partire dai giovani, che sono la fascia di popolazione più pronta e attrezzata culturalmente per cogliere le occasioni che si presenteranno nella spinta reattiva post-pandemica. Che questa sia la fonte nascosta del paese infatti non è una petizione di principio o un semplice esercizio di wishful thinking, ma una realtà suffragata da dati eloquenti legati al fenomeno migratorio: in Italia la comunità albanese è la terza per numero, dopo quella rumena e quella marocchina, ma la prima per numero di iscrizioni all’università. Di più: guardando i grafici risulta che oltre il 48% degli iscritti è donna. Secondo il rapporto del 2018 sull’integrazione dei migranti del governo italiano, infine, leggiamo che le donne albanesi nelle università italiane hanno conseguito, rispetto agli altri iscritti non italiani, i migliori risultati. Se dunque vogliamo trovare una morale alla storia di Kadaré, da questi dati risulta chiaro chi abbia più sete di conoscenza, di sviluppo e innovazione, e chi rappresenti quindi l’asset più importante su cui fondare la nuova Albania dell’era post-pandemica alle porte. A partire da questo, per esempio, si potrebbe cominciare col rafforzare i corridoi inter-universitari Albania-Italia già in essere, e far nascere dei veri e propri gemellaggi con le università italiane su settori strategici della ricerca e dell’innovazione: è senz’altro interesse dell’Italia velocizzare il processo di adesione dell’Albania all’Europa, ma lo sarà ancora di più se all’Italia verranno offerte occasioni di investire risorse in un paese che, anche solo per la sua collocazione geografica, è destinato ad avere un ruolo chiave sul fronte geopolitico dei prossimi anni.  Il compito che sta davanti al governo che uscirà dalle urne è, in definitiva, quello di ribaltare la prospettiva da cui si è guardato all’Europa, nel momento stesso in cui si faranno passi decisivi verso l’acquis: l’Albania non potrà più limitarsi ad essere destinataria di progetti che la coinvolgono passivamente o di aiuti umanitari volti a stabilizzarne il fronte interno nell’ottica della pax balcanica. I giovani e le donne dovranno essere messi in condizione di presentarsi come soggetti attivi che possano entrare davvero in relazione con l’Europa espansiva del recovery fund. Perché quella che viene sarà un’Europa che avrà tutto l’interesse a rafforzare i propri confini verso Oriente. Dopo la Brexit, del resto, per non cadere nell’ininfluenza geopolitica, un’Unione Europea amputata non avrà altra scelta se non quella di rafforzare la sua presenza continentale: il tempo e l’occasione sono dunque arrivati. L’augurio è che chi si troverà a guidare il paese dopo le elezioni abbia la forza di guardare un passo più in là dell’urgenza del momento, perché il futuro si costruisce già da ieri.

Elezioni in Albania, cosa ci possono insegnare le giovani democrazie

Manca meno di un mese alle elezioni in Albania, e, come ogni volta, noi expat cerchiamo di informarci, di comprendere le ragioni delle parti in lotta. Lo facciamo sapendo che il nostro sguardo ha, allo stesso tempo, il pregio e il difetto della distanza. Facendo un passo di lato, dall’altro lato dell’Adriatico nel mio caso, le cose si vedono nella loro oggettiva interezza, ma di certo si perdono dettagli fondamentali e passaggi essenziali. Torna in mente la celebre frase di Heisemberg, secondo la quale quando diciamo che “se conosciamo in modo preciso il presente, possiamo prevedere il futuro”, non è falsa la conclusione, bensì la premessa. Perché, dice Heisemberg, “in linea di principio noi non possiamo conoscere il presente in tutti i suoi dettagli”. Ci mancano dunque i dettagli, le sfumature, ma intanto, quando pensiamo alla bandiera dell’Albania, vediamo l’aquila a due teste, che per noi simboleggia un doppio sguardo: da una parte il passato, dall’altro il futuro. Ma più ancora, proprio in questo simbolo crediamo si possa ritrovare il coraggio di una identità multiforme: tra Occidente e Oriente sorge la forza di questa giovane nazione.  La sfida delle elezioni, certo, è di quelle già viste, ma questo non significa che sia meno interessante o che l’esito sia scontato. Come nell’ultima tornata del 2017, Lulzim Basha del Partito Democratico sfiderà Edi Rama, attuale Premier in carica del partito socialista. Da una parte abbiamo dunque Rama, il grande comunicatore, l’uomo che si espone in primo piano, che conosce perfettamente gli strumenti del consenso e i colpi di teatro (la battuta è implicita ma voluta, anche se forse comprensibile soltanto ai lettori albanesi). In Italia hanno tutti apprezzato moltissimo il fatto che sia volato in piena pandemia a portare la solidarietà del popolo albanese: una mossa saggia e strategica, eseguita con tempismo perfetto. Ma per gli albanesi Rama è soprattutto l’uomo della ricostruzione post terremoto: quello che ha bussato alle porte dell’Europa e ha saputo farsi aprire. Dall’altra abbiamo Basha, l’uomo cresciuto nelle istituzioni nazionali ed internazionali, un carattere assai più schivo, quasi reticente. A suo agio più negli uffici del Palazzo che non in mezzo alla gente, Basha sconta forse questa percepita distanza dall’uomo della strada. E tuttavia ha l’aria di chi si mette lì, studia e trova una soluzione: è a lui che dobbiamo la libera circolazione degli albanesi in area Schengen. Sullo sfondo della contesa, resta però per noi expat soprattutto l’Albania, il Paese che vorremmo ritrovare comunque vadano le elezioni. Una terra in cui abbiamo sofferto le atrocità della guerra civile, da cui siamo dovuti fuggire con niente in mano e il cuore pieno di dolore, una terra della quale, di anno in anno, guardiamo con orgoglio e timore il riscatto. Timore perché, sia chiaro, l’Albania è una democrazia ancora giovane, in cui i conti col passato sono stati fatti forse troppo in fretta e in cui certi fantasmi si aggirano ancora indisturbati.  Orgoglio perché, se la terra delle aquile qualche volo importante ha imparato a farlo, allora è proprio nello specchio di questa democrazia giovane, con un futuro di sviluppo ancora tutto da costruire, che i Paesi europei possono trovare ispirazione per rimettere in campo il primato di una politica che sappia fare la differenza. Gli asset economico strategici del Paese offrono possibilità importanti di crescita, in qualche caso persino oltre le aspettative. Se era già chiaro agli investitori internazionali, negli anni appena passati, che il turismo poteva rappresentare opportunità importanti, lo sarà a maggior ragione adesso che l’Europa si appresta, pur con tanta fatica, a lasciarsi alle spalle la crisi pandemica. Insieme a questo, chi si troverà al comando della nazione dovrà però comprendere a fondo che il turismo sostenibile, quello che porta vera ricchezza, è sempre più legato a un’offerta esperienziale più che al puro e semplice consumo di un luogo. In altri termini, in futuro non basteranno le sdraio sul litorale, per quanto meravigliose siano le coste albanesi. Si dovrà invece preservare e rendere oggetto di narrazione il “genius loci”, lo spirito del luogo. L’Albania dovrà insomma ritrovare l’orgoglio della propria multiforme cultura, intendendo questo termine nel senso più ampio possibile: dalla valorizzazione della tradizione agroalimentare alla ricerca di quella straordinaria complessità di ramificazioni che legano il popolo albanese al resto d’Europa. Proprio nell’ottica della tanto agognata adesione all’Unione europea, l’Albania ha l’opportunità, ora più che mai, di lavorare su quei “notevoli sforzi necessari” atti a migliorare le condizioni indicate dall’UE per l’acquis: dall’ambiente ai controlli finanziari, dalla giustizia alla sicurezza nel rispetto delle libertà civili, dai media ai diritti fondamentali. Allo stesso modo, gli investimenti nell’industria manifatturiera, in un’ottica di ripresa dei consumi su scala globale, potranno stimolare ancora la classica economia di delocalizzazione favorita dal costo del lavoro. Ma se questo è ciò che è lecito aspettarsi, resta ancora una miniera di opportunità da sondare, che, a mio modesto avviso, rimane l’asset strategico più importante da cui trarre un impulso che potrebbe rivelarsi davvero decisivo nei prossimi anni. Ed è appunto qui che la mia storia personale mi fornisce elementi per elaborare la visione che ho dell’Albania del futuro, per come vorrei che fosse. Perché sono, di fatto, figlia ed erede di due diaspore, sia come ebrea che come albanese. E se c’è qualcosa che deve insegnare a un popolo l’aver vissuto l’esperienza tragica della diaspora è che, alla fine, da un elemento di debolezza iniziale, si può ricavare una chiave di accesso privilegiato al mondo globalizzato. Mi riferisco alla ricchezza più grande di cui può godere un individuo e, per estensione, il popolo a cui appartiene: il capitale delle relazioni umane. Proprio quest’anno, che cade il trentennale di quel grande esodo che spinse il popolo albanese a scappare dalla propria terra, conviene a chi si contende il governo della nazione tenere a mente un semplice dato: sono circa 2 milioni gli albanesi che vivono oggi fuori dai confini del Paese, principalmente in Italia, Germania, Austria, Grecia, Inghilterra, Francia e Usa.  Tutti con una storia dolorosa alle spalle, la gran parte di loro (di noi) si è rimboccata le maniche e si è data da fare. Dove vivo io, in Italia, gli albanesi hanno aperto aziende edili, lavorato con maestria e coscienza, hanno mandato i figli a scuola, li hanno fatti laureare. Ermal Meta ha conquistato Sanremo, io ho aperto qualche start up di successo, Klaudio Ndoja gioca nella nazionale di basket. Potrei andare avanti per ore con esempi su esempi, ma quello che conta davvero è che ciascuno di noi expat rappresenta un piccolo patrimonio di relazioni internazionali su cui l’Albania dovrebbe poter contare. Certo, si parla sempre a titolo personale, ma in questo caso voglio arrogarmi il diritto a farlo in nome di tanti expat che immagino possano pensarla come me: siamo a disposizione, vogliamo dare una mano. Non tanto perché riteniamo di dover restituire qualcosa, sia chiaro. Piuttosto, perché, proprio in quanto albanesi, non vorremmo mai che altri figli di questa terra, che ancora sentiamo nostra, dovessero mai rivivere quello che toccò vivere a noi.

Balcani: l’accordo di Prespa sancisce il cambio di nome di Macedonia del Nord

Finalmente l’incontro fra il ministro greco Kyriakos Mitsotakis, il premier albanese Edi Rama e Zoran Zaev, Primo Ministro della Macedonia del Nord, avverrà in settimana ad Atene. Ad organizzare la conferenza è la rivista The Economist per discutere dell’accordo di Prespa che prevede il cambio di nome di Macedonia del Nord. Questo è un incontro molto importante fra questi tre paesi che sono riusciti finalmente a superare le difficoltà sul piano della comunicazione ratificando l’intesa. Questo incontro può rappresentare un nuovo inizio sul piano politico ed economico, oltre a facilitare il processo di adesione in UE per l’Albania. I Balcani rappresentano un ponte importante tra est ed ovest per l’Europa e velocizzare gli accordi è il miglior modo per fronteggiare la crisi, che coinvolge il mondo contemporaneo, e creare nuovi valori e promuovere gli scambi commerciali.